venerdì 30 agosto 2013

SAN BENEDETTO E LA «LECTIO DIVINA»

Omelia tenuta in Duomo il 26 aprile 1980 in occasione del XV centenario della nascita di san Benedetto)
estratto da "IL VESCOVO E IL MONACO" di CARLO MARIA MARTINI; Cardinale Arcivescovo di Milano
edito dall'Abbazia San Benedetto di Seregno
Carissimi fratelli e sorelle nel Signore, carissimi figli e figlie di san Benedetto, qui radunati per questa solenne celebrazione.
Commemoriamo insieme il XV anniversario della nascita di san Benedetto, grande padre del monachesimo occidentale, patrono dell’Europa. Vorremmo saperlo fare con le parole, con la conoscenza profonda dello spirito monastico benedettino e con il calore religioso che ha contraddistinto in questa Chiesa per tanti anni il magistero del card. Ildefonso Schuster. Durante tutta la sua vita egli ha studiato questo carisma, lo ha proclamato e lo ha vissuto; la sua memoria ancora rimane tra noi come di un rappresentante vivo per molto tempo in questa Chiesa di questo spirito, di questa grande tradizione monastica e religiosa.
Ciò che vorrei fare io questa sera è molto più semplice: è un discorso cordiale, diretto soprattutto a quei carissimi figli e figlie di san Benedetto radunati qui per celebrare insieme questa festa dì famiglia.
E’ forse la prima volta nella storia di questo luogo che si trovano radunate qui insieme anche le religiose claustrali. Considerando questo evento come eccezionale nella loro vita, esse sono venute qui, quest’oggi, a costruire il loro monastero; il loro chiostro è oggi questa basilica, è oggi la nostra preghiera e tutti noi siamo fatti partecipi della loro vita monastica contemplativa. Vi sono dunque molte cose oggi che ci toccano profondamente il cuore, che suscitano la nostra commozione e la nostra riconoscenza.
In primo luogo la riconoscenza per tutto il bene che la Chiesa, e in particolare la Chiesa in Lombardia, la Chiesa in questa diocesi, in questa città ha ricevuto lungo i secoli dalla tradizione benedettina. E qui dovrebbero parlare i santi, tutti coloro che sono stati formati alla vita spirituale attingendo a questa tradizione; ma potrebbero parlare anche i letterati, gli storici, gli artisti, gli economisti, coloro i quali potrebbero comunicare i benefici di civiltà, di arte, di letteratura, di costume, di approfondimento della vita religiosa e civile, di opere di assistenza, di carità, di servizio che sono state promosse dalle abbazie benedettine in tutta l’Italia, in Europa, in particolare in questa regione, nel corso dei secoli.
Vorrei però semplicemente limitarmi a qualche ricordo personale e ad una riflessione interiore sul significato di questa presenza benedettina nella Chiesa. Ricordo e riflessione che potremmo collegare alle parole della prima lettura che abbiamo ascoltato degli Atti degli Apostoli, dove leggiamo che Paolo e Barnaba, intrattenendosi coi cristiani di Antiochia, li esortavano «a perseverare nella grazia di Dio”.
Ecco dunque la parola che io vorrei rivolgere a tutti i religiosi e le religiose qui presenti, facendo mia questa esortazione “a perseverare nella grazia di Dio” nella loro vocazione. E’ una parola che può servire anche per tutti gli altri fedeli qui presenti, per cercare di cogliere qualcosa dello spirito di questa vocazione, per lasciarsene illuminare nella vita e nella preghiera.
Vorrei partire da qualche ricordo personale. Ricordo i frequenti pellegrinaggi che, quando mi trovavo a Roma, facevo a Subiaco, fermandomi a pregare per un certo spazio di tempo sotto quella grande roccia che sembra protesa sul luogo di preghiera e quasi pronta a cadere, ma che invece rimane là, ferma, per la mano di san Benedetto che dice: “Non toccare i miei figli!”.
In questa zona rupestre, un tempo abbandonata nell’alta valle dell’Aniene, mi sono recato più volte; ho pregato presso lo Speco, sono sceso lungo i gradini di pietra, fino al luogo dove si  dice che san Benedetto incontrasse i pastori, fino al roveto, cercando di palpare sulle pietre, luogo dopo luogo, i momenti della permanenza e della preghiera del giovane san Benedetto.
Ricordo ancora i soggiorni a S. Scolastica; cercavo di partecipare alla preghiera monastica della comunità tenendo sempre dentro di me una domanda: che cosa spingeva Benedetto a venire qui, a isolarsi nella preghiera. Che cosa diceva a Dio durante questa preghiera, come passava le notti. Che cosa lo faceva restare qui, lontano da tutto. E più ancora: che cosa spingeva questo giovane maturatosi nella preghiera a raccogliere altri con sé a pregare insieme, che cosa facevano, che significato aveva la loro esperienza per la Chiesa di quel momento?
E andavo percorrendo l’alta valle dell’Aniene cercando i segni degli oratori smarriti intorno alle valli di questa montagna di san Benedetto. Erano i numerosi luoghi di preghiera dove i piccoli gruppi di giovani venuti da Roma per sfuggire all’atmosfera ormai irrespirabile della città, fra tutta quella vanità e dissipazione che vigeva in Roma, si ritiravano con lui per ritrovare la sorgente del loro cristianesimo, per fare un’esperienza autentica di vita.
Riflettendo sui valori ricercati e vissuti da san Benedetto, si comprende il significato per la società di quel tempo dell’esperienza monastica poi  divenuta sempre più chiara, sempre più precisa nell’ambito e nella estensione della Regola. Riflettendo oggi sulla preghiera e sui tanti valori che la Regola contiene ancora per il mondo contemporaneo, vorrei fermarmi semplicemente su uno di essi che ha un profondo significato per la Chiesa e che, se assimilato e vissuto da noi, ci porterebbe a ripetere quell’esperienza sorgiva, affascinante del Vangelo cosi come l’hanno fatta Benedetto e i suoi primi compagni.
Voglio parlarvi di quel valore che si chiama la «lectio divina», che tradurremmo malamente in italiano la “lettura divina”. Vogliamo quest’oggi intrattenerci un po’ meglio per capire che cosa significhi questa preziosa eredità che la tradizione benedettina ha saputo valorizzare, approfondire e tramandare viva alle nostre generazioni. Si tratta, come dice la parola, di una lettura, di una “lectio”; la parola “lettura” però non rende in italiano la realtà di cui si tratta.
Quando noi parliamo di lettura pensiamo a una scorsa superficiale di una pagina scritta, a qualche cosa che si guarda così, distrattamente, e non rimane. Invece questa lettura monastica è una lettura fatta di ascolto, di ruminazione, di ripetizione riflessa della Parola. La parola viene non soltanto letta superficialmente con l’occhio, ma viene ricevuta nel cuore, viene ascoltata con le orecchie, viene custodita, viene ripetuta, meditata;  è una parola che scende lentamente nel cuore e lo riempie. Voi potete già qui immaginare quale tesoro di pace, di riflessione, di calma, produce questo esercizio. E’ tutto il contrario di quell’affanno, di quella rapidità di lettura, di ascolto e di dialogo, di corsa quotidiana che rende le nostre città così affannose e la nostra vita sempre così stanca. Esso introduce nella nostra realtà quotidiana un ritmo di vita più semplice, tranquillo, attraverso momenti privilegiati di lettura ritmata, meditata, assaporata lentamente, che diventa quindi già uno stile di calma, di dignità, uno stile di accostarsi alle cose non attraverso la fretta di chi vuole divorare, consumare tutto, ma attraverso la calma di chi aspetta di ricevere un dono.
Ma questa “lectio”, questa lettura meditata e riflessa, fatta di ritmi di ascolto, è lectio «divina», ha cioè per oggetto le parole stesse di Dio: la Scrittura. Noi vediamo applicata qui dall’antichissima tradizione monastica quello che poi la Chiesa del Concilio Vaticano II nel c. 6° della “Dei Verbum” inculca ripetutamente per tutti i cristiani come qualcosa da riscoprire, da ritrovare, da rimettere nel seno di tutte le comunità: cioè la lettura continuata, prolungata di tutta la sacra Scrittura, che ci mette di fronte ogni giorno, ogni settimana, con ritmi ben determinati, tutto il piano divino di salvezza.
E’ lettura divina, lettura della sacra Scrittura che  comprende le parole divine, lettura che ci apre il piano divino di salvezza, lettura che ci permette in qualche maniera di toccare Dio, di sentire Gesù Cristo che ci parla, di mettere in pratica quella ricerca di Dio, “ricerca vera” di Dio che è l’anima della vita benedettina ed è l’anima della ricerca di ogni uomo: ricercare Dio, cercare di conoscerlo, di toccarlo, di vederlo. Ora, la lettura attenta, prolungata, devota della sacra Scrittura ci permette di vedere Dio, di toccare Dio, di toccare il suo piano di salvezza e di immergere la nostra vita nel ritmo di questo piano di salvezza. E non basta.
Lettura “divina» non soltanto perché ci mette di fronte alle parole di Dio e al piano di Dio, ma perché ci permette di leggere con il libro della Scrittura anche il libro stesso della nostra vita come opera di Dio. La Bibbia è lo specchio della nostra vita: in essa ci si dice chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, che significato hanno gli eventi della giornata, che significato hanno le sofferenze che attraversiamo, che significato ha tutto ciò che si agita oggi nell’uomo.
La Bibbia ci rivela di tutte queste cose l’aspetto divino, il mistero di grazia di Dio. Ed ecco che attraverso questo esercizio della “lectio divina», della lettura continuata e prolungata della Scrittura, noi arriviamo a quel punto meraviglioso dell’esistenza descritto da papa Giovanni Paolo II  nella sua enciclica “Redemptor hominis”: ci troviamo di fronte a un grande stupore perché vediamo quanto grande sia l’uomo per il quale Dio ha fatto tanto.
La “lectio divina”, la lettura della Bibbia organica, attenta, intelligente, ci permette di scoprire nella nostra vita il mistero di Dio: ed è per questo che la vita monastica, in particolare la vita contemplativa, in genere la vita benedettina e tutte le tradizioni che ne derivano e hanno il ritmo di questa lettura della Bibbia, costituiscono un modello di vita ideale, un modello di vita umano, sano, capace di congiungere preghiera e lavoro, capace di capire le cose di Dio e le cose dell’uomo, capace di scendere nei misteri dello Spirito e di espandersi nelle creazioni dell’arte, capace di leggere i codici e capace di coltivare la terra, capace di guardare in alto verso Dio e di ritornare verso i fratelli con carità, semplicità, amore, a sostegno e a servizio dei malati, degli infermi, di tutti coloro che hanno bisogno di essere accolti. Raccogliamo dunque, fra gli altri frutti di questa celebrazione, l’esortazione “a perseverare nella grazia di Dio” che è questa “lectio divina” che ci è data nelle mani.
Mi augurerei davvero che tutti i monasteri, tutti i centri di vita benedettina della diocesi diventassero altrettanti centri dai quali si diffonde la capacità, il metodo, l’uso della “lettura» della  Bibbia, attenta e prolungata, fatta dai singoli, dalle famiglie, dai gruppi, in particolare poi dalle parrocchie nella liturgia. In questo noi veramente riscopriremmo il grande tesoro che san Benedetto ha trovato in mezzo alla solitudine dei monti, e che poi lo ha riportato in mezzo alla gente facendolo operatore di civiltà.
Chiediamo che anche in noi si operi questa santa sintesi tra civiltà e vita interiore, tra pace con Dio e pace che diffondiamo tra gli uomini, attraverso la valorizzazione di questo dono immenso della sacra Scrittura che ci è dato nelle mani e che la tradizione benedettina ci insegna a leggere e a scrutare.    
(“Rivista diocesana milanese”, 71, 1980, pp. 611-615)

L'articolo risente dell'impostazione teologica del proprio autore, cardinale romano cattolico ma per alcuni spunti resta sempre di un interesse non indifferente anche per un cristiano ortodosso. E' particolarmente utile la lettura per ricordare il primo anniversario della dipartita del cardinale Martini.




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