Libro
quarto
Intermezzo
II. Alla osservazione di Basilio, che Giovanni non ha sollecitato la dignità,
questi risponde, con esempi e similitudini, che anche chi non ha brigato per
essere eletto é responsabile di ogni deficienza ed errore in cui avesse a
cadere
I.
Udite queste cose Basilio stette alquanto sopra pensiero, indi: "Ma questo
tuo timore, disse, avrebbe ragion d’essere se tu ti fossi adoperato per
ottenere questa dignità; colui infatti che col brigare per ottenerla dichiara
d’essere idoneo al disimpegno dell’ufficio, se commette errori dopo che gli fu affidata,
non potrà ricorrere al pretesto della sua inesperienza, poiché egli già prima
si privò di questa difesa, col correre avanti e coll’afferrare il ministero; né
chi spontaneamente e di propria volontà vi si sobbarcò, potrà poi dire:
"Ho fatto questo sbaglio senza volerlo; contro mia volontà ho pervertito
quel tale". Ché colui che avrà da giudicare questa causa, gli dirà:
"E come mai, conoscendo quella tua inesperienza, e non avendo tu senno
sufficiente per dar mano a quest’arte senza far sbagli, ti adoperasti per
sobbarcarti e osasti intraprendere opere superiori alle tue forze? chi vi ti
obbligava? chi vi ti trascinò a forza mentre tu resistevi e fuggivi?". Ma
tu non ti sentiresti certamente dire alcunché di simile; né tu avresti da fare
a te stesso qualche rimprovero di tal genere; é a tutti palese infatti che non
hai sollecitato né molto né poco quell’onore, ma altri ti procurava la
promozione; onde appunto ciò che toglie a quelli il perdono delle eventuali
colpe, fornisce a te un saldo fondamento di difesa.
A
queste parole io scuotendo il capo e un poco sorridendo, mi stupii della sua
semplicità, indi soggiunsi: "Ben vorrei io pure che le cose stessero così
come tu dici, o incomparabile uomo fra tutti, e non già per poter assumere
quello a cui sono sfuggito. Ma quand’anche niuna pena mi fosse riservata per
aver governato il gregge di Cristo a casaccio e senz’esserne capace, mi sarebbe
tuttavia peggiore d’ogni castigo il dover io, incaricato di uffici tanto
grandi, apparire così miserabile al cospetto di Colui che me li aveva affidati.
E per qual motivo bramerei io che questa tua opinione non fosse priva di
fondamento? certamente perché fosse dato a quei miseri (ché così hanno da
chiamarsi quelli che non riescono a disimpegnare lodevolmente quest’incarico, anche
se mille volte tu vada dicendo che vi furono trascinati per forza e che peccano
involontariamente) perché fosse dato a costoro di sfuggire a quel "fuoco
inestinguibile, alla tenebra esteriore, al verme imperituro, all’essere
separato e perire insieme con gli ipocriti" (Mt. 24,51); ma che? non é
così, non é così! e ti proverò se ti piace, la verità di ciò che dico, con
l’esempio del principato, la cui eccellenza presso Dio non é sì grande quanto
quella del sacerdozio.
Esempi
di Saul, Eli, Mosè
II.
Quel Saul figlio di Cis, non diventò re per esservisi adoperato, ma muovendo in
cerca delle asine, si recò dal profeta per chiederne novelle e quegli allora
gli fece parola del regno; e nemmeno così egli si spinse avanti, pur avendone
udito parlare da un profeta, ma se ne ritraeva e vi s’opponeva dicendo:
"Chi sono io, e quale é la casa di mio padre?" (1Re 9,21). Ma che?
avendo egli malamente usato dell’onore accordatogli da Dio, valsero forse
quelle sue parole a sottrarlo allo sdegno di colui che gli aveva conferito la
regia potestà? E ben poteva egli dire a Samuele quando lo rimproverava:
"Forse accorsi io spontaneamente alla dignità regia? o forse da me stesso
mi vi spinsi sopra? io volevo pur vivere la vita inerte e quieta dei privati,
tu invece mi trascinasti a questo onore; ma Se io mi fossi rimasto in
quell’umile stato, avrei agevolmente evitate queste colpe, ché essendo io uno
del volgo e oscuro, non sarei stato mandato a quest’impresa, né Dio m’avrebbe
affidata la guerra contro gli Amaleciti; non essendone incaricato, non sarei
mai caduto in questa colpa". Ma tutto ciò é insufficiente alla difesa, né
solo è insufficiente, ma anche pericoloso, e tale da sempre più accendere lo
sdegno di Dio. Colui che fu onorato oltre il suo merito, non deve già addurre
la grandezza dell’onore a discolpa dei suoi falli, ma invece valersi della
sollecitudine di Dio a suo riguardo come d’uno stimolo a maggior perfezione.
Chi crede a sé lecito peccare per aver toccato in sorte un onore più grande,
altro non fa se non additare la benignità di Dio come cagione delle proprie
colpe, come hanno costume di dire sempre gli empi e quelli che sogliono
governare trascuratamente la propria vita. Noi non dobbiamo comportarci così,
né dobbiamo cadere nella loro pazzia, ma dobbiamo in tutto aggiungere l’opera
nostra secondo le nostre forze, e retta serbare la lingua e il pensiero.
Neppure Eli (per venire ora al nostro argomento, cioè al sacerdozio, lasciando
da parte il principato) si adoperò per acquistare il potere, ma che gli giovò
questo, quand’ebbe prevaricato? Che dico acquistare? per la necessità della
legge, non avrebbe nemmeno potuto sfuggirlo se avesse voluto; poiché egli
apparteneva alla tribù di Levi e gli era gioco forza assumere la potestà che
gli veniva dall’alto per via degli antenati; eppure anch’egli subì non piccola
pena per le crapule dei suoi figli. Ma che? quegli stesso che fu il primo
sacerdote degli Ebrei e del quale tante cose disse il Signore a Mosè, poiché
non fu capace di resistere da solo contro la stoltezza di tanta moltitudine,
non andò forse vicino alla rovina, se la protezione del fratello non avesse
rimosso lo sdegno di Dio? E dacché ho ricordato Mosè, é opportuno mostrare la
verità del mio assetto anche dalle vicende a quello occorse. Quello stesso
beato Mosè era tanto lungi dall’usurpare il dominio sugli Ebrei, che lo ricusò
anche quando gli fu conferito; e imponendogli Dio di accettarlo, si oppose a
tal segno da muovere all’ira chi ne lo investiva; né solo allora, ma anche in
seguito mentre esercitava il potere, sarebbe morto volentieri per esserne
esonerato: "Fammi morire, dice infatti, se vuoi fare a me in tal
guisa" (Nm. 11,15). Ebbene? Quando egli ebbe peccato all’acqua, valsero
forse questi reiterati rifiuti a difenderlo e a muovere Dio a perdonargli? e
per qual altro motivo fu privato della terra promessa? per nessun altro motivo,
come tutti sappiamo, che per questo peccato, per il quale quel mirabile uomo
non poté ottenere ciò che ottennero i suoi sudditi, ma dopo le molte fatiche e
angustie, dopo quell’indicibile errare, le guerre e i trofei, morì fuori dalla
terra per la quale aveva durato tutti quei travagli; e dopo aver sostenuto i
pericoli del pelago, non godette i vantaggi del porto. Vedi come non solo a
quelli che usurpano questo potere, ma anche a quanti vi giungono per opera
altrui, non. rimane alcuna difesa dei falli in cui sono caduti? E per vero,
mentre costoro, che sebbene investiti da Dio della dignità vi si rifiutarono
ripetutamente, nondimeno subirono sì grave pena, e nulla valse a sottrarre da
tale pericolo né Aronne, né Eli, né quell’uomo beato, quel santo, quel profeta,
quel mirabile e mansueto fra tutti gli uomini della terra e che parlava a Dio
come a un amico; difficilmente a me che tanto sono lungi dalla virtù di quello,
potrà servire di difesa la consapevolezza di non aver per nulla sollecitato
questa carica; tanto più quando molte di queste ordinazioni avvengono non per
impulso della grazia di Dio, ma per l’opera di uomini. Dio aveva pur scelto
Giuda, l’aveva collocato in quella santa schiera e gli aveva conferita insieme
cogli altri la dignità apostolica, anzi, a lui aveva dato qualcosa di più che
agli altri, cioè l’amministrazione del denaro. Ebbene? poi ch’ebbe usato di
queste due prerogative contrariamente allo scopo, tradendo Colui ch’era stato
incaricato di predicare e rovinando malamente i beni di cui gli s’era affidata
l’amministrazione, forse che sfuggi alla pena? anzi, per ciò appunto si procurò
un castigo maggiore; e ben a ragione. Ché non si deve usare degli onori che Dio
conferisce, per offenderlo, sebbene per maggiormente compiacerlo. Che se altri,
per essere stato maggiormente onorato, stimasse giusto per questo di sfuggire
la pena quando gli fosse dovuta, farebbe lo stesso di qualcuno degl’infedeli
Giudei, il quale udendo Cristo che dice: Se non fossi venuto né avessi parlato
loro, non sarebbero colpevoli, e: "Se non avessi operato fra loro tali
prodigi quali nessun altro operò, non sarebbero colpevoli" (Gv. 12,6),
rimproverasse il Salvatore e Benefattore dicendo: "E perché sei tu venuto
e hai parlato? perché compiesti quei prodigi, per aver poi a punirci più
fortemente?". Queste sarebbero certamente parole da pazzo e da delirante
furioso; ché il medico non venne già per condannarti ma piuttosto per curarti e
liberarti completamente dalla tua infermità: tu invece spontaneamente ti
sottraesti alle sue mani; or dunque abbiti più aspra la pena. A quel modo che
cedendo alla cura ti saresti liberato anche dai malanni anteriori, così se tu
fuggi il medico quando ti s’avvicina, non potrai più detergerti da questi, e
non potendolo subirai la pena di essi e dell’aver resa vana la sua cura, per
quanto dipendeva da te. Onde non sosteniamo eguale giudizio da Dio prima di
essere onorati e dopo aver ricevuto gli onori, ma molto più severo dopo, ché
colui che non diventò migliore in seguito ai benefici ricevuti, é giusto che
sia più duramente punito. Or dunque, poi che a me appare insufficiente questa
difesa e tale non solo da non salvare coloro che vi cercano rifugio, ma da
esporli a maggior pericolo, fa d’uopo che tu mi mostri un altro scampo.
Se
uno sa di essere inetto al ministero, deve sottrarsene, senza badare a riguardi
personali
III.
"E quale mai? poiché io non sono ormai in grado di governare me stesso,
tanto m’hai reso trepidante e atterrito con queste tue parole".
"No,
dissi io, te ne prego e te ne scongiuro, non voler tanto abbatterti; c’è senza
dubbio lo scampo sicuro: per me debole esso consiste nel non mettermivi
affatto; per te che sei forte invece, nel riporre la speranza in null’altro
che, dopo la grazia di Dio, nel non fare nulla che sia indegno di questo dono
né di Dio che lo largisce. Ché per certo sono meritevoli della massima
punizione coloro che dopo aver raggiunta questa potestà dopo di averla
sollecitata, ne fanno poi cattivo uso o per negligenza, o per malignità, o
anche per inesperienza; ma non per questo é riservato alcun perdono a coloro
che non trafficarono per conseguirla, ma anch’essi restano privi di qualsiasi
difesa. Poiché fa d’uopo, mi pare, quand’anche moltissimi chiamino e sforzino
d’accedervi, non badare a loro, ma saggiando anzitutto l’anima propria e ogni
cosa diligentemente indagando, così poi acconsentire a quelli che spingono.
Nessuno oserebbe assumersi l’amministrazione di una casa senz’essere amministratore;
né alcuno s’accingerebbe a trattare i corpi malati essendo ignaro dell’arte
medica; ma se pur fossero molti che lo spingessero a forza, vi s’opporrebbe, né
arrossirebbe di palesare la propria incapacità; e chi ha da essere incaricato
della cura di tante anime, non esaminerà prima se stesso, ma se pur sia il più
inetto di tutti, accetterà il ministero, perché il tale glielo impone, o il
tale ve lo sforza, o per non offendere il tale altro? E come non precipiterà se
stesso insieme con quelli in un danno palese? potendo egli salvarsi da se
stesso, rovina gli altri insieme con lui; donde potrà dunque sperare salvezza?
donde ricevere perdono? chi intercederà allora per noi? forse quelli che ora vi
ci sforzano e a forza ci trascinano? ma costoro stessi chi li salverà in
quell’ora? anch’essi hanno bisogno d’altri per poter sfuggire al fuoco. E per
persuaderti che ora dico ciò non per incuterti spavento ma al tutto secondo
verità, ascolta ciò che dice il beato Paolo a Timoteo suo figlio adottivo e
diletto: "Non ti fare fretta d’imporre le mani ad alcuno e non prendere
parte ai peccati degli altri" (1Tim. 5,22); vedi da qual biasimo non solo,
ma anche da qual castigo ho liberato, per quanto stava da me, quelli che
volevano spingermi a questa carica? Però che, come agli eletti non servirà di
sufficiente difesa il dire: non venni di mio arbitrio, ho accettato senza
prevedere la mia mala riuscita; così neppure agli elettori può giovare qualche
cosa, se dicano di non aver conosciuto l’eletto; ma appunto per questo diviene
maggiore l’accusa, perché promossero chi non conoscevano, onde quello che si
stimava servire di difesa, viene ad aggravare l’imputazione. Come non sarebbe
strano infatti, che quelli che vogliono comperare uno schiavo, lo mostrino ai
medici e richiedano persone garanti della compera, e interroghino i vicini, né
si assicurino dopo tutto ciò, ma esigano un lungo tempo per farne la prova;
mentre coloro che hanno da iscrivere alcuno a tanto ministero, senza fare alcun
altro esame, ve lo aggiudichino agevolmente e senza badare, purché a taluno
sembri bene designarvelo in grazia del favore o del disfavore altrui,
tralasciando ogni altra ricerca? Chi intercederà allora per noi, quando gli
stessi che dovrebbero perorare la nostra causa avranno essi pure bisogno
d’intercessori?
Tanto l’elettore quanto il candidato devono ponderare con molta cura prima
di scegliere o di lasciarsi eleggere.
Il giudizio di Dio sarà severo per gli uni e per gli
altri se avranno agito con leggerezza.
IV.
Bisogna dunque che anche chi ha da imporre le mani, premetta accurata indagine,
e ancor più deve farlo il consacrando; ché se egli avrà gli elettori partecipi
del castigo, per le colpe in cui sarà caduto; non vi sfuggirà per altro egli
stesso, bensì ne subirà uno maggiore: a meno che coloro che lo promossero
abbiano così agito per qualche motivo personale, contrariamente a quanto
sembrava loro retto. Perché se saranno colti in fallo per questo lato, e
conoscendo un candidato come indegno, lo promossero per qualche pretesto, le
proporzioni della pena saranno eguali anche per loro, e anzi, maggiori saranno
a quelli che investirono del potere un indegno; ché se uno conferisce la
potestà a chi s’accinge a rovinare la Chiesa, sarà egli colpevole dei danni da
quello perpetrati. Se poi egli non avrà da rendere conto ad alcuno per queste
colpe, ma dica d’essere stato ingannato dall’opinione del volgo, neppure in tal
caso resta impunito, tuttavia subirà una pena alquanto minore di quella
dell’eletto; e Perché? Perché é bensì probabile che gli elettori siano indotti
a ciò ingannati dalla falsa opinione pubblica, ma l’eletto non potrebbe già
dire: "Io non conoscevo me stesso" come altri potrebbero dire di non
aver conosciuto lui; pertanto, siccome egli va incontro a più aspra punizione che
quelli i quali ve lo promossero, così deve far l’esame di se stesso con maggior
cura di loro, e quand’anche essi per ignoranza ve lo trascinassero, facendosi
avanti deve esporre diligentemente le ragioni con le quali dissipi il loro
inganno, e così, dimostrando se stesso indegno della promozione, sfuggirà
l’incarico di sì gravi incombenze. Per qual motivo infatti, trattandosi di
strategia o di navigazione o d’agricoltura o di altre professioni, il contadino
non sceglierebbe di navigare, né il soldato di lavorare la terra, né il pilota
di esercitare la milizia, quando pure si minacciassero di mille morti?
certamente perché ciascun d’essi prevede il pericolo derivante dalla propria
inesperienza; e frattanto useremo tanta previdenza là ove il danno versa
intorno a interessi piccoli, né cederemo all’imposizione di chi ci sforza, e
dove invece a quelli che mancando di capacità assumono il sacerdozio é serbata
la pena eterna, trascuratamente e a casaccio ci sobbarcheremo al rischio,
adducendo poi a scusa la violenza altrui? Per certo non lo sopporterà Colui che
allora ci avrà da giudicare: giacché bisognava mostrare maggior fermezza
riguardo alle cose spirituali che a quelle materiali; or invece saremo trovati
a non aver nemmeno mostrata l’eguale. Dimmi infatti: se prendendo noi un tale
per architetto mentre non lo fosse, lo chiamassimo all’opera, e quegli venendo
e ponendo mano al materiale radunato per la fabbrica, mandasse in malora e
legname e pietre, e costruisse l’edificio in guisa tale che presto rovini,
basterà forse a sua difesa l’esservisi accinto per comando d’altri e non
essersi proposto spontaneamente? Non basterà affatto, e ben a ragione e
giustamente; ché ben doveva egli ricusare, non ostante che altri lo
chiamassero. Or dunque, mentre niuna speranza di sfuggire la pena rimane a chi
mandò in malora il legname e le pietre, colui che rovina le anime e governa
malamente, crederà giovargli per essere assolto, l’esservi stato obbligato da
altri? E come non sarebbe ciò molto ingenuo? e lascio che nessuno potrebbe venire
obbligato, qualora non volesse. Ma soggiaccia pure egli a quanta violenza si
voglia e a molteplici raggiri per esser fatto cadere; forse ciò lo libererà da
pena? no, te ne prego, non inganniamoci fino a tal segno, né simuliamo di
ignorare ciò che é palese persino ai piccoli fanciulli; ché non ci potrà
giovare questa simulazione d’ignoranza, quando saremo chiamati a giudizio. Tu
non brigasti per ottenere questa carica, conscio com’eri di tua debolezza:
benissimo, ma bisognava che con la stessa intenzione t’opponessi a coloro che
vi ti chiamavano; o forse tu eri debole e inetto solo fintantoché niuno ti
chiamava, e come si trovò chi era disposto a conferirti l’onore, d’un tratto
diventasti forte? ciò é ridicolo e insulso, e degno di gravissimo castigo. Per
questo appunto il Signore esorta "colui che vuole edificare una torre, a
non porre il fondamento prima d’aver computato le proprie sostanze, per non
offrire ai presenti infiniti pretesti di scherno contro di lui" (Lc.
14,28). Per quello il danno si riduce alla derisione, qui invece la pena é il
"fuoco inestinguibile, il verme imperituro, lo stridore dei denti, la
tenebra esteriore e l’essere separato e collocato insieme con gli
ipocriti" (Mt. 25,30).
La
Chiesa é il corpo mistico di Cristo.
Ma i
miei accusatori non vogliono saper nulla di tutto questo, ché diversamente
avrebbero senza dubbio cessato di biasimare chi non vuol porsi inutilmente a
rovina. Non ci é proposto l’esame circa l’amministrazione di frumento, né di
biade, né di bovi e pecore, né di alcun’altra simile cosa, ma circa lo stesso
corpo di Gesù. Poiché la Chiesa di Cristo, secondo il beato Paolo, é il corpo
di Cristo; onde bisogna che quegli a cui esso é affidato, lo serbi in sanità e
bellezza grandissima, d’ogni parte badando che né macchia né ruga né altra
deformità abbia mai a distruggere quella bellezza e maestà: e che altro é ciò,
se non far si che quel corpo appaia, per quanto può conseguirlo l’umana virtù,
degno del purissimo e beato capo che vi sta sopra? Ché se quelli che bramano
acquistare il vigore atletico hanno bisogno di medici e di maestri di
ginnastica, di dieta accurata, di continuo esercizio e d’altre infinite
cautele, potendo l’omissione, anche di piccole attenzioni, frustrare e rovinare
ogni altra cura: quelli che sono sortiti a servire questo corpo, il quale deve
scendere in giostra non contro altri corpi, ma con le potenze invisibili, come
potranno serbarlo intatto e sano, se non superano di molto l’umana virtù e non
conoscono perfettamente la cura adatta per l’anima?
Fine dell’intermezzo. II. Ripresa dell’argomento
intorno alle virtù sacerdotali. Eloquenza e magistero della parola.
Necessità della parola per confondere gli eretici
(nemici esterni) e le vane superstizioni (nemici interni).
V. O
forse ignori che questo corpo soggiace a più malattie e insidie che la nostra
carne, e che più presto di essa va in rovina e più difficilmente viene
risanato? A quelli che curano gli altri corpi si offre varietà di medicine,
diversi apparecchi meccanici e nutrimenti adattati agli infermi; spesso anche
la natura del clima bastò da sola a ricondurre i malati a sanità; altra volta
il sonno intervenendo a tempo debito, liberò il medico da ogni fatica. Qui
invece non c’è da contare su alcuna di queste cose; una sola via e un sol mezzo
di cura si offre, oltre le opere, quello cioè che é fornito dal magistero della
parola. Questo é lo strumento, il cibo, la temperatura di clima più perfetta;
questo fa le veci di medicina, di cauterio, di ferro; se occorra bruciacchiare
o tagliare, di questo bisogna valersi, e ove esso manchi, farà pur difetto ogni
altro rimedio. Con esso risvegliamo anche l’anima assopita e la ricomponiamo se
diviene tumescente, tagliamo via il superfluo, riempiamo le lacune e compiamo
ogni altra operazione opportuna per il benessere dell’anima. Per conseguire la
miglior direzione della vita, giova la vita d’un altro che stimoli a emularla;
ma qualora l’anima sia offesa per opera di falsi dogmi, v’è gran bisogno della
parola, non solo per la sicurezza di quei di casa, ma anche per le guerre
provenienti dal di fuori. Poiché se alcuno avesse la spada dello spirito e lo
scudo della fede, tanto da poter compiere prodigi, e mediante i portenti
chiudere la bocca agli sfrontati, forse non avrebbe alcun bisogno dell’aiuto
della parola; o piuttosto, nemmeno allora tornerebbe inutile la virtù di essa,
ma anzi molto necessaria; e per vero il beato Paolo se ne valse, sebbene
dappertutto egli fosse ammirato per i suoi miracoli. E anche un altro dei
membri di quel coro, raccomanda di adoperarsi a conseguire questa facoltà,
dicendo: "Pronti sempre a dar soddisfazione a chiunque vi domandi ragione
della speranza che avete dentro di voi" (1Pt. 3,15); tutti poi essi
affidarono il governo delle vedove a Stefano ed a’ suoi compagni per nessuno
altro motivo che per attendere al "ministero della parola" (At. 6,2).
Certamente non con la stessa sollecitudine andremmo in cerca della parola se
avessimo la potenza che deriva dai miracoli; ma se di quella potenza non rimane
neppure la traccia, mentre da ogni parte insorgono molti e assidui nemici, non
ci rimane che armarci di quella, sia per non esser colpiti dagli strali degli
avversari, sia per colpirli alla nostra volta.
La
Chiesa è come città mistica oppugnata da molti nemici
VI.
Bisogna pertanto usare molta diligenza affinché la parola di Gesù Cristo abiti
in noi abbondantemente; non dobbiamo star preparati per una sola specie di
battaglia, ma questa guerra é molteplice e combattuta da differenti nemici;
essi non usano tutti le stesse armi, né a uno stesso modo fanno forza contro di
noi. Onde chi s’accinge a sostenere la guerra contro di tutti, deve conoscere
le arti di tutti: essere al tempo stesso arciere e fromboliere, generale e
capitano, soldato e comandante, pedone e cavaliere, combattente di flotta e di
fortezza. Nelle guerre gli eserciti, attendendo ciascuno a una data operazione,
respinge con questa gli assalitori; qui invece non accade così, ma se chi vuol
vincere non conosce tutte le specie dell’arte, il diavolo é capace, anche per
una parte sola che rimanga a caso trascurata, d’introdurre i suoi predoni e far
strage delle pecore; ma non vi riesce, qualora sappia esservi un pastore
fornito di ogni conoscenza e pienamente istruito delle sue insidie; bisogna
pertanto ben munirsi da ogni parte. Fino a che una città si trova ben
fortificata tutt’intorno, può ridersi dei suoi assedianti, rimanendosi in
grande sicurezza, ma se si riesca ad aprire nel muro una breccia anche soltanto
come una porticina, non le sarà più d’altro giovamento la sua cinta, sebbene in
tutto il resto ancor intatta e forte. Così é della città di Dio: fin che la
ricinge da ogni parte invece di muro la sagacia e la prudenza del pastore, ogni
artificio dei nemici ridonderà a loro scorno e derisione, mentre gli abitanti
se ne staranno dentro al sicuro; ma se alcuno riesca a farla cessare in qualche
parte, pur non distruggendola interamente, rovina per così dire tutto il resto
per causa di quella parte. E che sarà, se mentre [il pastore] sa destramente combattere
contro i Gentili, facciano strazio di essa i Giudei? o se vinti questi due
nemici, la saccheggino i Manichei; o se dopo aver superato anche costoro, i
partigiani del fato uccidano le pecore dentro raccolte? Occorre forse numerare
tutte le eresie del diavolo, alle quali se non sappia resistere accortamente il
pastore, potrà il lupo anche con una sola di esse divorare la maggior parte
delle pecore? Inoltre, i soldati d’un esercito debbono sempre attendersi la
vittoria o la sconfitta da parte di oppositori e combattenti; qui invece
succede molto diversamente; spesso infatti la battaglia rivolta contro altri,
diede la vittoria a tali che non vennero a pugna al primo scontro, né durarono
fatica alcuna, ma se ne stavano inerti e seduti. Accade anche talora, che uno
non molto addestrato a simile gioco, trafitto dalla sua stessa spada, divenga
ridicolo agli amici ed ai nemici. Per esempio cercherò di renderti palese anche
con un caso particolare ciò che dico coloro che accolgono la follia, di
Valentino e Marcione e quanti sono affetti dalla stessa infermità di quelli,
rigettano la legge data da Dio a Mosè dal catalogo delle divine Scritture; i
Giudei all’opposto la venerano a tal segno da ostinarsi a osservarla
interamente, anche se l’età più non lo comporta e contrariamente
all’insegnamento divino; la Chiesa di Dio invece, evitando l’eccesso degli uni
e degli altri, s’attiene al giusto mezzo e non permette di soggiacere al giogo
di essa, né soffre che sia disprezzata, ma ancorché abrogata la approva, per
aver essa giovato a suo tempo. Or chi ha da opporsi agli uni e agli altri deve
conoscere questa giusta misura; ché se volendo ammaestrare i Giudei mostrando
loro che s’attengono intempestivamente alla legge antica, comincerà ad
attaccarla smodatamente, porge non piccola presa a quegli eretici che
vorrebbero lacerarla; se poi volendo chiudere la bocca a questi, prenda ad
esaltarla oltre misura, ammirandola come se fosse necessaria anche al presente,
eccoti che apre la bocca ai Giudei. Così pure quelli che sono presi dalla
pazzia di Sabellio e quelli che partecipano la furia di Ario, per eccesso tanto
gli uni che gli altri si dipartirono dalla sana fede; essi tutti sono detti
Cristiani, ma chi ricerchi i loro dogmi troverà gli uni per nulla migliori dei
Giudei, se non in quanto hanno diverso nome; gli altri molto somiglianti
all’eresia di Paolo di Samosata, e lontani tutti dalla verità. Anche qui v’è
gran pericolo, e la via é stretta e intricata, isolata d’ambo i lati da
precipizi; e v’è non piccolo timore che mentre [il pastore] vuol sottomettere
l’uno, non resti offeso dall’altro. Ché se uno proclama una sola divinità,
tosto Sabellio trae la parola al suo perverso concetto; se poi la separa,
dicendo il Padre distinto dal Figlio e dallo Spirito Santo, si fa innanzi Ario
per ridurre a una diversità di sostanza la distinzione delle persone; bisogna
invece evitare e fuggire tanto l’ampia confusione di quello, come la pazzesca
separazione di costui, proclamando un’unica sostanza del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo, e facendo rilevare le tre ipostasi distinte: così potremo
bloccare le uscite agli uni e agli altri. Potrei dirti di molte altre
difficoltà, contro le quali se uno non lotta con vigore e sagacia, se n’andrà
coperto d’innumerevoli ferite.
Insidie
provenienti dai membri stessi della comunità. Superstizioni e malignità
VII.
Chi potrebbe poi enumerare i pettegolezzi di questi, di casa? essi non sono
minori degli assalti di quei di fuori anzi danno maggior briga a chi ha
l’incarico d’ammaestrare. Gli uni spinti da zelo indiscreto, si occupano senza
criterio e inutilmente di ciò che non reca alcun vantaggio a chi l’apprende, né
é d’altra parte possibile apprenderlo; altri chiedono ragione a Dio dei suoi
giudizi, sforzandosi come di scandagliare un grande abisso; però che "i
tuoi giudizi, dice, sono un abisso grande" (Sl. 36,6). Pochi poi
troveresti che siano solleciti della fede e del retto vivere, la maggior parte
invece occupati nel fare e ricercare quello che non si può trovare e trovato
muove Dio a sdegno. Ché quando ci sforziamo d’apprendere ciò che Egli non ha
voluto che noi conoscessimo, non riusciremo a saperlo (e come potremmo se Dio
non lo vuole?) e ci sovrasterà unicamente il pericolo derivante dall’essere
andati investigandolo. Ma pur stando così le cose, quando uno riesca con
l’autorità a chiudere la bocca a quelli che cercano tali arcani impossibili a
conoscersi, si buscherà la taccia d’arrogante e ignorante; onde anche qui
bisogna andar molto cauti, sì che il reggitore si sottragga a questioni fuor di
luogo, e nello stesso tempo sfugga alle sopraddette accuse. Per tutte queste
difficoltà non c’è offerto altro aiuto che quello che viene dalla parola; se
taluno é privo di questa forza, le anime degli uomini a lui soggetti saranno in
condizioni non migliori di navicelle continuamente sbattute da tempesta, dico
degli uomini più infermi e più curiosi; onde il sacerdote ha da porre in opera
ogni mezzo per acquistarsi tale potenza.
Elogio
di S. Paolo
VIII.
"Or dunque, disse Basilio, perché Paolo non si curò di eccellere in questa
virtù? egli non si vergogna della povertà di parola, ma confessa apertamente di
essere idiota, e ciò scrivendo ai Corinzi, che erano ammirati per abilità di
eloquio e ne andavano molto superbi".
"Questo,
risposi, questo é ciò che rovinò molti e li rese più inerti nel magistero di
verità; ché incapaci di indagare accuratamente la profondità dei concetti
dell’Apostolo, e di penetrare il senso delle parole, consumarono tutto il loro
tempo in letargo e fra sbadigli, coltivando questa idiozia: non già quella per
cui Paolo chiama se stesso idiota, bensì un’altra da cui egli era tanto lontano
quanto nessuno altro uomo che é sotto il cielo. Ma questo discorso ci aspetti
al momento opportuno; frattanto io dico questo: poniamo pure ch’egli fosse per
questo riguardo idiota, com’esci vogliono; orbene, che cosa importerebbe ciò
per noi? Egli invero possedeva una forza molto più possente della parola e
capace di operare molto maggior bene; ché al solo suo apparire, senza pur che
parlasse, era tremendo per demoni; quelli d’adesso già non varrebbero a
effettuare ciò che altra volta fecero i "semicinzi" (At. 19,12) di
Paolo, quand’anche s’unissero insieme con infinite preci e lacrime. Col
pregare, Paolo risuscitò i morti e operava tali altri portenti da essere
creduto dai pagani una divinità; inoltre prima di uscire da questa vita fu
fatto degno d’essere rapito fino al terzo cielo e intendere parole che alla
natura umana non è permesso di udire. Quelli d’adesso invece (non posso dir
nulla di disgustoso e offensivo, ché non parlo per inveire contro di loro,
bensì per esprimere la mia ammirazione) come non rabbrividiscono paragonando se
stessi ad un tale uomo? E se lasciando da parte i prodigi veniamo a considerare
la vita di quel beato, e investighiamo la sua condotta angelica, in questa più
ancora che nei miracoli, vedrai l’atleta di Cristo riportare la palma. Chi può
degnamente dire del suo zelo e della sua moderazione, dei continui pericoli,
delle cure costanti, degli incessanti affanni per le Chiese, del partecipare le
infermità altrui, delle molte premure, delle straordinarie persecuzioni, e del
morire ogni giorno? Qual parte del mondo, qual continente, qual mare non
conobbe le fatiche di quel giusto? persino le lande disabitate lo conobbero e
l’accolsero frequentemente in pericolo. Egli sofferse ogni sorte di insidie e
riportò ogni genere di vittoria, né mai cessò di combattere e di riportare
corone. Ma non so come m’indussi a vituperare quell’uomo: poiché i suoi pregi
superano ogni parola, la mia poi di tanto, quanto i valenti parlatori mi
vincono in eloquenza. Tuttavia anche così, ché quel beato non mi giudicherà dal
risultato ma dall’intenzione, non mi tratterrò dal dire anche quello che supera
di tanto il già detto, quanto egli supera tutti gli altri uomini. Che è ciò?
dopo tante virtù dopo le innumerevoli corone, egli pregava di poter andare
nella geenna e d’essere condannato alla pena eterna, perché si salvassero e si
unissero con Cristo quei Giudei, che lo lapidarono e lo avrebbero anche ucciso
se avessero potuto; chi amò Cristo fino a tal segno? seppure deve questo
chiamarsi amore, o non forse qualcosa d’altro più grande che l’amore. E noi ci
paragoneremo ancora a lui, dopo tanta grazia ch’egli ricevette dall’alto, dopo
sì gran virtù da lui manifestata in se stesso? e qual maggiore audacia di
questa?"
Eloquenza
di S. Paolo
IX. E
ora mi studierò anche di dimostrare che egli non era così idiota come quelli
pensano. Essi invero chiamano idiota non solo chi non possiede la forbitezza
dell’eloquenza pagana, ma chi neppure sa combattere per i dogmi della verità, e
stimano rettamente: ma Paolo non disse già d’essere idiota sotto tutti e due
questi aspetti, bensì sotto uno soltanto, e per confermarlo stabilisce
chiaramente la distinzione, dicendo d’essere idiota nella parola, ma non nella
conoscenza. Se io cercassi la levigatezza di Socrate, la maestà di Demostene,
la gravità di Tucidide o la sublimità di Platone, in tal caso s’avrebbe da
addurre quella testimonianza di Paolo; ma ora lascio da parte tutte quelle doti
e tutto il superfluo adornamento dei pagani, né m’importa nulla della dicitura
né dello stile: sia pur concesso d’aver povertà di frase e una combinazione di
parole semplice e senza ricercatezza; soltanto nessuno sia idiota quanto a
dottrina e a precisione di dogmi; né per palliare la propria indolenza
sottragga a quel beato la maggiore fra le sue doti e quello che gli merita
maggior lode.
S.
Paolo cominciò il suo apostolato predicando e per mezzo della eloquenza ottenne
i primi risultati
Con
qual mezzo infatti, dimmi, confuse egli i Giudei che abitavano in Damasco,
mentre non aveva ancora incominciato a operare prodigi? con quale vinse gli
Ellenisti? Perché fu mandato a Tarso? Non forse perché egli fu vittorioso con
la parola e tanto gl’incalzava da provocarli persino a toglierlo di vita, non
potendo sopportare in pace la sconfitta? eppure colà non aveva ancor cominciato
a compiere miracoli; né alcuno potrebbe dire che la maggior parte lo
ammirassero per la fama dei suoi portenti e che quelli che lo prendevano di
mira fossero sgominati dalla riputazione ch’egli godeva, ché fino a quel punto
egli vinceva unicamente con la forza della sua parola. Con qual mezzo combatté
e venne a discussione in Antiochia contro i giudaizzanti? e quell’Areopagita
originario di quella superstiziosissima città, non divenne forse suo seguace
egli e sua moglie attratto unicamente dal suo discorso? ed Eutico, come cadde
dalla finestra? non forse per aver egli atteso a udire fino a notte inoltrata
l’insegnamento della parola di lui? E a Tessalonica e a Corinto? e a Efeso e
nella stessa Roma? non passava interi giorni e notti continuamente inteso a
esporre le Scritture? chi potrebbe ripetere i suoi discorsi agli Epicurei e
agli Stoici? Andrei ben per le lunghe, se volessi ricordare ogni cosa! Se
dunque e prima dei miracoli e contemporaneamente a questi, appare aver egli
fatto grande uso della parola, come oseranno ancora dire idiota colui che fu da
tutti massimamente ammirato per la valentia nel discutere e nel concionare? Per
qual motivo infatti i Licaoni lo credettero Ermes? l’essere essi ritenuti come
dei deriva dai miracoli; ma che lui fosse preso per Ermes non fu già per i
miracoli, bensì per la sua parola. Ed in che cosa quel beato sorpassò gli altri
Apostoli e per qual ragione egli è molto celebrato da tutti nel mondo? come mai
è ammirato sopra tutti non solo da noi, ma altresì dai Giudei e dagli Elleni?
non è forse per l’efficacia delle sue epistole, colla quale edificò non solo i
fedeli di quel tempo, ma ancora quelli che furono d’allora fino al presente e
che saranno fino al giorno della parusia di Cristo, né cesserà di farlo finché
duri l’umana stirpe? Queste sue scritture sono di baluardo come muro d’acciaio
per tutte le Chiese del mondo, di guisa che [l’Apostolo] come un valorosissimo
campione è tuttora fra noi "conducendo in servaggio ogni intelletto
all’ubbidienza di Cristo, distruggendo le macchi nazioni e qualunque altura che
si innalza contro la scienza di Dio" (1Cor. 10,5). Tutto ciò egli compie
per mezzo di quelle epistole che ci ha lasciate, meravigliose e piene di
sapienza divina. Le sue scritture poi non valgono soltanto a distruggere i
dogmi fallaci e confermare i veri, ma anche per ben vivere ci sono di non
piccolo aiuto. Valendosi di esse infatti i capi delle Chiese, governano,
edificano e innalzano a spirituale bellezza quella pura vergine che egli
impalmò a Cristo, allontanano le infermità che cadono su di lei e le conservano
la sanità acquistata. Tali medicine e di tanta efficacia ci ha lasciato
quell’idiota, e le conoscono per prova coloro che incessantemente se ne
valgono. Da ciò adunque appare manifesto che egli dedicò grande cura
all’acquisto di questa dote.
X.
Odi anche quello che dice scrivendo al suo discepolo: "Attendi alla
lettura, all’esortare e all’insegnare" (1Tim. 4,13); indi aggiunge il
frutto che ne deriva, dicendo: "Così facendo salverai te stesso e quelli
che ti ascoltano" (1Tim. 4,16b). E ancora: "Al servo del Signore non
si conviene di litigare: ma di essere mansueto con tutti, pronto a istruire,
paziente" (1Tim. 4,13); e proseguendo soggiunge: "Ma tu attendi a
quello che hai imparato e a quello che ti é stato affidato, sapendo da chi
l’hai appreso, e che dalla fanciullezza conoscesti le sacre lettere le quali
possono istruirti" (2Tim. 3,14); e inoltre: "Tutta la Scrittura é
divinamente ispirata, dice, e utile a insegnare, a redarguire, a correggere, a
formare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto" (2Tim.
3,16-17). Ascolta ancora ciò che egli prescrive a Tito parlando dell’elezione
dei vescovi: "Però che il vescovo dev’essere dedito a quella parola fedele
che é secondo la dottrina, affinché sia capace di convincere i
contraddittori" (Tt. 1,9). Come mai uno essendo idiota, com’essi dicono,
potrà convincere i contraddittori e ridurli al silenzio? e qual bisogno c’è di
attendere alla lettura e alle Scritture, se s’ha da far buon viso a questa
idiozia? ma queste cose sono pretesti e scuse, e nient’altro che un tentativo
per dissimulare l’inerzia e la pigrizia. "Ma, essi dicono, tali precetti
sono dati ai sacerdoti"; certo dei sacerdoti appunto noi ora parliamo; ma
per convincerti che sono rivolti anche ai sudditi, odi ancora ciò ch’egli con
altre parole in altra epistola raccomanda: "La parola di Cristo abiti in
voi con pienezza in ogni sapienza" Col. 3,16); e ancora: "Il vostro
discorso sia sempre con grazia asperso di sale, in guisa da distinguere come
abbiate a rispondere a ciascheduno" (Col. 4,11); ora questa esortazione,
d’esser pronti alla difesa, è rivolta a tutti; scrivendo poi ai Tessalonicesi:
"siate, dice, di edificazione l’uno all’altro, come pur fate" (Tess.
5,11). E quando discorre dei sacerdoti: "I presbiteri che governano bene
sian riputati meritevoli di doppio onore; massimamente quelli che si affaticano
nel parlare e nell’insegnare" (1Tim. 5,17). Poiché il termine più perfetto
dell’insegnamento si raggiunge quando [i maestri] riescano a trarre i discepoli
alla santa vita ordinata da Cristo, sia con le loro parole, sia con le loro
opere; ché il fare non basta da solo per esercitare il magistero; né la
sentenza è mia, bensì del Salvatore stesso: "Chi avrà e operato e
insegnato, questi sarà chiamato grande" (Mt. 5,19). Or se l’operare
equivalesse all’insegnare, la seconda parte era superflua, e sarebbe bastato
dire: "Chi avrà operato"; ma col distinguere l’una cosa dall’altra,
dimostra che una parte [del magistero] consiste nelle opere, un’altra nella
parola, e che hanno bisogno reciproco l’una dell’altra per la perfetta
edificazione. O non odi ciò che dice quel vaso eletto di Cristo ai presbiteri
degli Efesini: "Per la qual cosa siate vigilanti, rammentandovi come per
tre anni non cessai giorno e notte d’ammonire con lacrime ciascuno di
voi?" (At. 20,31). Che bisogno c’era allora di lacrime o d’ammonizione di
parole, mentre la sua vita apostolica splendeva di tanta luce?
L’esempio
apostolico non basta da solo. Bisogna che vi si unisca, come dimostra lo stesso
S. Paolo, l’efficacia della parola
XI.
Questa [sua vita] può bensì essere in gran parte d’impulso per l’adempimento
dei precetti, né direi che anche per quello scopo basti da sola a esercitare
ogni efficacia, ma quando ci si muove guerra intorno ai dogmi e tutti ci
combattono appoggiandosi sulle Scritture stesse, quale forza potrà mostrare in
tal caso l’esempio della vita di lui? Qual frutto si ricaverà dall’esempio dei
tanti sudori di lui, se non ostante quelle fatiche taluno per la sua grande
incapacità cadendo nell’eresia venga scisso dal corpo della Chiesa, cosa ch’io
ho pur visto accadere a molti? Qual vantaggio verrà a lui dalla fortezza
(dell’Apostolo)? nessuno, come nessun vantaggio verrebbe dal serbare retta la
fede, qualora la vita diventi corrotta. Per questi motivi appunto bisogna che
chi deve ammaestrare gli altri abbia grande perizia di queste battaglie; ché se
anche egli rimanga al sicuro senza subire danno da’ suoi contraddittori,
tuttavia la moltitudine dei meno istruiti che è a lui soggetta, vedendo il capo
ridotto al silenzio senz’aver di che rispondere agli avversari, attribuirà la
sconfitta non alla debolezza di lui, ma all’essere egli intaccato nel dogma;
onde per l’incapacità d’uno solo, gran parte del popolo viene tratta a rovina.
Ché se pure non si schierino interamente dalla parte degli avversari, tuttavia
sono condotti per forza a dubitare di ciò che dovrebbero credere con sicurezza,
né possono più aderire con la medesima fermezza a quanto per l’innanzi
accoglievano con fede incrollabile; ma per la sconfitta del maestro, sorge
nelle loro anime tale tempesta, da finire anche con un funesto naufragio; or
qual rovina e qual fuoco s’accumuli sul capo di quel misero per ciascuno di
questi perduti, non c’è bisogno che tu l’apprenda da me, sapendolo tu pure
perfettamente. E dunque dovrà chiamarsi arroganza e vanagloria il non voler
esser cagione della rovina di tanti, né procurare a me stesso un maggior
castigo di quello che ora mi è serbato colà? chi potrebbe dir ciò? nessuno per
certo, tranne chi voglia inutilmente biasimare o sfoggiare senno sui casi
altrui.
Libro
quinto
Il
vescovo come maestro e oratore. Contegno e esigenze dell’uditorio
I. Ho
dimostrato a sufficienza di quanta abilità dev’essere fornito il maestro per
potere far fronte agli assalti contro la verità; debbo ora parlare di un’altra
incombenza oltre quelle accennate, che è causa di infiniti pericoli; o
piuttosto, direi che non essa lo sia, ma coloro che non sanno adempierla come
si conviene; poiché l’opera per se stessa può essere strumento di salvezza e
pegno di molti beni, quando trovi per ministri uomini diligenti e virtuosi.
Qual è quest’incombenza? la gran fatica consacrata ai discorsi che si tengono
pubblicamente al popolo. Anzitutto la maggior parte dei sudditi non vogliono
comportarsi di fronte agli oratori come dinanzi a maestri, ma trapassando il
livello di discepoli, assumono l’atteggiamento degli spettatori che assistono
agli spettacoli profani; e come il popolo là si divide, e gli uni si dichiarano
per questo, gli altri per l’altro, così anche qui, fra loro divisi, parte
sostengono un tale, parte un tal altro, e ascoltano le cose predicate solo per
applaudire o per biasimare. Né questo è il solo male, ma ve n’è un altro non
minore: se accade che un oratore inserisca nel suo discorso qualche brano di
fattura altrui, è fatto segno a dileggio più che un ladro volgare; spesso anche
senza che plagio vi sia, ma solo per un sospetto, lo trattano come chi è colto
con le mani nel sacco. Ma che dico brani di fattura altrui? Non è neppure
lecito a uno di valersi più volte delle sue stesse opere; poiché non per trarne
vantaggio, ma unicamente per diletto sogliono ascoltare la maggior parte,
sedendo come fossero giudici di citarèdi e di tragèdi così la facoltà
dell’eloquenza che poco fa sottoposi a censura, diventa qui tanto desiderabile
quanto nemmeno lo è ai sofisti obbligati a discutere fra di loro. Anche in
queste circostanze pertanto c’è bisogno di un’anima generosa e molto al disopra
della mia piccolezza, per reprimere la disordinata e perniciosa voluttà della
moltitudine e indirizzare l’uditorio verso una meta. più vantaggiosa, di modo
che il popolo gli vada dietro docilmente e non sia egli trascinato dalle loro
velleità. Ciò non è dato ottenere se non con questo duplice mezzo: disprezzo
delle lodi e efficacia di parola.
Non
bisogna dar troppo peso alle approvazioni e ai biasimi dell’uditorio
Il.
Ove l’uno manchi, l’altro torna inutile, per la separazione dal primo; se uno
pur nutrendo disprezzo per la lode, non esponga un insegnamento con grazia e
asperso di sale, diviene facilmente oggetto di scherno per la maggior parte,
nulla guadagnando da quella sua superiorità d’animo; se poi si diporti bene per
questo lato e si lasci soggiogare dall’opinione che s’esprime con applausi
fragorosi, ne verrà eguale danno a lui e alla moltitudine, poiché egli, preso
dal desiderio della lode, si dedicherà al ministero della parola più per
acquistare favore che per recare vantaggio. Onde, come colui che non avendo
brama di gloria né sapendo parlare affatto, non cede alla voluttà del popolo,
ma nemmeno può recargli qualche notevole giovamento, così pure chi è trascinato
dal desiderio di elogi, mentre avrebbe da dire quello che può rendere migliore
il popolo, invece di ciò espone quello che meglio serve a dilettarlo, traendone
in compenso lo strepito degli applausi.
L’ottimo
capo ha da esser quindi ben munito da ambe le parti, onde non rovinare l’una
per mezzo dell’altra. Quando egli sorgendo in mezzo dice cose adatte a scuotere
gli inerti, ma poi incespica, s’interrompe ed è costretto a vergognarsi per
incapacità, tosto si disperde il frutto delle cose dette; ché quelli che furono
ripresi, rattristati per le parole loro indirizzate e non potendo altrimenti
resistergli, lo colpiscono schernendo la sua ignoranza, e credono così di
nascondere i rimproveri da lui ricevuti. Conviene pertanto che come un ottimo
auriga, spinga se stesso alla perfezione di questi due pregi in guisa da
poterne far uso secondo il bisogno: quando sarà irreprensibile di fronte a
tutti, allora potrà con quanta autorità gli piaccia punire o perdonare secondo
il caso tutti i suoi sudditi: ma prima d’aver raggiunto questo termine non gli
sarà facile agire in tal guisa. Si deve poi estendere la magnanimità non solo
fino al disprezzo delle lodi, ma più oltre, affinché il frutto non rimanga
incompleto.
Mentre
si sprezza il capriccio mutevole della folla, bisogna però troncare i maligni
sospetti e le insinuazioni calunniose
III.
Qual altra cosa pertanto bisogna disprezzare? La gelosia e l’invidia: non è
bene temere e paventare oltre misura le intempestive calunnie (poiché il capo
necessariamente deve sopportare biasimi irragionevoli) né il passarvi sopra con
troppa bonarietà; ma anche se sono false e scagliate da gente volgare, bisogna
studiarsi di soffocarle repentinamente. Nulla infatti contribuisce più della
folla a creare una fama buona o cattiva; avvezza ad ascoltare e parlare senza
criterio, ripete a casaccio tutto quanto le viene all’orecchio, senza
preoccuparsi affatto se sia vero o falso. Non bisogna quindi stare noncuranti
della folla, ma troncare al più presto i maligni sospetti, sforzandosi di
convincere i maldicenti quand’anche fossero dei più irragionevoli, né lasciare
alcun mezzo intentato per distruggere la cattiva opinione. Se poi, pur avendo
noi posto in opera ogni mezzo, i calunniatori non vogliano persuadersi, allora
conviene disprezzarli; ché se taluno si lascerà abbattere per simili vicende,
non potrà mai far nulla di nobile e degno d’ammirazione; l’abbattimento e le
continue ansie hanno funesta efficacia per spegnere l’energia dello spirito e
piombarlo in estrema sfinitezza. Il vescovo ha da comportarsi coi suoi sudditi
come un padre coi figli ancor molto piccini; come non ci conturbiamo qualora
questi ci insultino o ci percuotano, o se piangano, né molto diamo loro retta
quando ridono e ci fanno festa, così non bisogna lasciarci soggiogare dalle
lodi della folla né essere oppressi per i suoi biasimi, quando sono mossi senza
motivo. Ma ciò è difficile, o caro, e forse anche, credo, impossibile; non so
se ad alcun uomo riesca di non gioire delle lodi; or chi ne gioisce è naturale
che nutrisca desiderio di riceverne, e chi desidera di riceverne è giocoforza
che sia rattristato, sfiduciato, agitato e afflitto quando gli venga negata la
lode. Come quelli che godono della ricchezza, qualora cadano in miseria restano
oppressi, e assuefatti com’erano alle mollezze non possono adattarsi a vivere
grossolanamente, così anche i bramosi di elogi, non solo se vengano
ingiustamente biasimati, ma anche se non sono costantemente acclamati, si
sentono l’anima sfinita come per farne, specialmente quando per avventura ne
fossero stati [prima] lautamente pasciuti, o quando per soprappiù sentono che
altri riscuote applausi. Quali brighe e quali affanni credi tu non abbia
pertanto a incontrare chi si espone al cimento del magistero con lo stimolo di
questa bramosia? L’anima sua non sarà mai libera da ansie e tormenti, come non
può essere il mare libero da marosi.
L’eloquenza
esige un costante esercizio per conservare la sua efficacia
IV.
Ma non potrà sottrarsi a un assiduo travaglio neppure quando possieda gran
potenza di parola, cosa che non è facile trovare se non in pochi; poiché,
essendo l’eloquenza frutto di studio anziché dono di natura, quando pure alcuno
ne abbia raggiunto il culmine, ne perde affatto l’esercizio se non alimenta
questa sua facoltà con costante diligenza e fatica; onde il travaglio diviene
maggiore per i più istruiti che per i più idioti; non è infatti eguale a questi
e a quelli il danno della trascuratezza, ma è di tanto maggiore, di quanto
diverso è il corredo di cultura degli uni e degli altri. A questi ultimi
nessuno muoverebbe rimprovero se parlando espongono solo inezie; quelli invece
se non mettono in mostra cose sempre superiori alla fama in che tutti li
tengono, subito sono fatti segno a critiche; inoltre agli altri si prodigano
grandi elogi anche per piccolo merito, ma se i pregi di quelli non sono molto
meravigliosi e abbaglianti, non soltanto si nega loro la lode, ma anche si
scagliano loro contro numerosi vituperi; già, gli uditori siedono giudici non
tanto delle cose dette, quanto del dicitore, onde quanto più uno supera tutti
gli altri nell’eloquenza, tanto più gli è d’uopo di laboriosa cura. A lui
invero non è lecito soggiacere nemmeno a ciò che è comune alla natura umana,
cioè al non fare perfettamente ogni cosa, ma se i suoi discorsi non sono
proporzionati all’altezza della sua rinomanza, ne esce carico degli scherni e
delle critiche innumerevoli di tutti. Nessuno considera che un abbattimento
sopravvenuto, le lotte e le preoccupazioni, spesso anche l’irritazione, possono
oscurare la limpidezza del pensiero e impedire che i concetti vengano espressi
con chiarezza, né che essendo egli in tutto uomo, non gli è possibile
mantenersi sempre dello stesso umore e sempre col vento in poppa, ma
naturalmente deve talvolta venire meno e mostrarsi al disotto del proprio
livello; nulla, come dico, di tutto questo vogliono considerare, ma gli fan
colpa di tutto come se giudicassero d’un angelo. È poi particolarmente proprio
dell’uomo il far poco caso di grandi e numerosi pregi che si trovino in persona
vicina; se invece in essa appaia una colpa, per quanto piccola e d’antica data,
ognuno se ne accorge tosto, se ne fa severo censore e a ogni occasione vi
ritorna sopra; onde spesso un difetto piccolo e comune sminuì la fama di molti
e grandi uomini.
V.
Vedi, o ottimo, che v’è bisogno di operosità sopra tutto per chi è fornito
d’eloquenza; e oltre all’operosità gli occorre anche tanta tolleranza quanta
non ne occorre a tutti quelli di cui ti ho parlato sopra. Molti infatti gli si
oppongono di continuo senza ragionare, nulla avendo da rinfacciargli, ma solo
eccitati dall’essere egli in fama presso tutti: bisogna ch’egli sappia
sopportare la fastidiosa gelosia di costoro. Non riuscendo essi a celare
quest’odio loro maledetto, che ingiustamente nutrono, vengono a ingiurie, a
maligne critiche, calunniando di nascosto e imperversando a faccia aperta; onde
un’anima che cominciasse ad affliggersi e irritarsi per ciascuno di questi
incontri, morrebbe anzi tempo di crepacuore. Non solo da se stessi gli fanno guerra,
ma s’adoperano anche per avere l’aiuto di altri; e spesso scelto qualcuno che
non sa affatto ben parlare, cominciano a levarlo a cielo con lodi, e vanno
magnificandolo oltre il suo merito, gli uni facendo ciò per ignoranza, gli.
altri per ignoranza ed invidia al tempo stesso, più per togliere la fama a
quell’altro, che per far apparire mirabile chi in realtà non è tale. Ma quel
generoso non ha da combattere soltanto contro costoro, bensì spesso anche
contro la rozzezza di tutto il popolo. Poiché il pubblico non è composto tutto
di uomini eccellenti, ma la maggior parte dell’assemblea sono gente volgare,
mentre gli altri poi, pur essendo più istruiti dei primi, tuttavia sono lontani
dal poter apprezzare l’eloquenza molto più di quanto il volgo sia al disotto di
loro; sicché rimangono a stento uno o due che possiedano tale capacità. Quindi
accade necessariamente che chi meglio parla, spesso raccoglie minori applausi e
talvolta persino ne rimane privo affatto. Anche di fronte a questi ingiusti
apprezzamenti deve comportarsi con fortezza e perdonare a quelli che ciò fanno
per ignoranza, e quelli che invece vi sono spinti da invidia, compiangerli come
miserabili e degni di pietà; né deve stimare che il suo valore venga menomato
per i giudizi sì degli uni che degli altri. Ché anche un eccellente pittore e
superiore nell’arte a tutti gli altri, qualora vedesse un quadro dipinto da lui
con ogni cura censurato da profani, non avrebbe per certo da avvilirsi e
riputare cattiva l’opera sua in forza del giudizio di quelli; come nemmeno
dovrebbe giudicare meravigliosa e affascinante un’opera in sé cattiva, sol
perché desta l’ammirazione degli idioti. L’artefice ottimo dev’essere anche
giudice lui solo delle opere sue, e queste s’hanno a ritenere buone o cattive
quando l’intelletto che le ha prodotte avrà dato questi suffragi, senza neppur
badare all’opinione degli estranei, soggetta a errore e incompetente. Ora chi
affronta il cimento del magistero non deve badare agli elogi degli estranei, né
l’anima sua deve essere abbattuta qualora gli siano negati, ma componendo i
suoi discorsi in guisa da piacere a Dio (questo dev’essere per lui il criterio
supremo per giudicare dell’ottima fattura d’essi, non gli applausi, né gli
elogi), se verrà lodato anche dagli uomini, non rifiuti i loro encomi, ma se
gli uditori non glie ne concedono, non ne vada in cerca né se ne affligga.
Sufficiente sollievo delle fatiche, e maggiore di ogni altro sarà per lui la
coscienza del suo sforzo di indirizzare e disporre il suo insegnamento in modo
da incontrare l’approvazione divina.
L’oratore
sacro ha bisogno di grande fede e fortezza d’animo
VI.
Se egli invece viene ad essere soggiogato dal desiderio di lodi irragionevoli,
nessuno vantaggio ricaverà dalle sue molte fatiche né dalla sua bravura nel parlare,
perché l’anima non potendo poi sopportare i biasimi inconsiderati del volgo,
rallenta nell’ardore e cessa di applicarsi con cura al magistero della parola;
bisogna perciò esercitarsi soprattutto nel disprezzo delle lodi., ché se non si
unisce questo, non basta il saper ben parlare per serbare in vigore questa
facoltà. Ma se alcuno consideri bene anche la condizione di chi non è
riccamente fornito di questa dote, troverà che anch’egli non ha minor bisogno
di sprezzare l’applauso; egli infatti sarà nella necessità di commettere molti
falli, trovandosi al disotto dell’opinione comune; incapace di rivaleggiare coi
predicatori famosi, non si periterà di tendere loro insidie, nutrire invidia
contro di essi, di biasimarli ingiustamente e di macchiarsi di molte simili
colpe, tutto osando quand’anche avesse da perderci l’anima, pur di riuscire ad
abbassare la fama di quelli fino al livello della propria nullità. Inoltre
rifuggirà dai sudori necessari per l’opera sua, come se l’anima gli fosse
gravata da torpore; e invero il molto travagliarsi per ottenere una scarsa
messe di applausi, basta per abbattere e avvolgere in profondo letargo colui
che non sa sprezzare la lode; anche l’agricoltore quando lavora un terreno poco
produttivo e deve coltivare la ghiaia, presto abbandona la fatica, se non sia
sostenuto da grande tenacia nel continuare la sua impresa, o se non tema il
sovrastare della carestia. Se coloro che pur sanno parlare con molta autorità
hanno bisogno di tanta cura per conservarsi questa loro dote, colui che non ha
messo nulla in serbo, ma deve tuttavia porsi in grado di potersi presentare al
pubblico, a quali difficoltà, turbamenti e angustie non dovrà sottostare, per
raccogliere da grande fatica qualche piccolo frutto? Che se poi uno di quelli
che stanno più in basso di lui e occupano una carica inferiore, riesca ad
acquistarsi per questo lato una maggior rinomanza, allora ci vuol proprio
un’anima quasi celeste, per non cadere in preda all’invidia né lasciarsi
abbattere dallo scoramento; perché l’essere egli superato nel successo per
opera d’un suo subalterno, mentre egli è posto in maggior dignità di grado, e
sopportare ciò generosamente, non è virtù comune, ma propria di un’anima
d’acciaio. Quando il più favorito sia persona affabile e moderata assai, allora
il rammarico diventa in qualche modo sopportabile; ma se è un tipo arrogante,
borioso e avido di gloria, sarebbe a quell’altro più desiderabile la morte ogni
giorno, tanto questi gli renderà amara l’esistenza, censurandolo apertamente,
schernendolo di nascosto, sottraendogli gran parte dell’autorità, bramoso di
tutta usurparsela. E in tutto ciò ha come appoggio sicuro l’audacia nel parlare
e il favore della plebe a suo riguardo e l’essere nelle grazie di tutti i
sudditi. E non vedi tu quanta brama di discorsi si è ora infiltrata nelle anime
dei Cristiani e come quelli che vi danno opera sono in onore non solo presso i
pagani, ma anche tra i fedeli? E chi sopporterebbe questa confusione, che
mentre egli predica, tutti se ne stiano zitti e stimino di essere importunati,
sospirando la fine del discorso come liberazione da un tormento; mentre invece
l’altro anche se parla a lungo, l’ascoltano con entusiasmo, e accennando egli a
finire si conturbano, e se fa di tacere, si adontano? Sono cose che se anche ora
ti sembrano piccole e disprezzabili, per non averle tu ancora provate, bastano
però a spegnere l’entusiasmo e paralizzare le energie dello spirito, se uno
levandosi al disopra di ogni umano affetto non si studi di comportarsi come le
potenze incorporee, le quali non soggiacciono né a invidia né a vanagloria, né
ad altra simile infermità. Se dunque v’ha un uomo di tale tempra che sappia
mettere sotto i piedi questa belva inafferrabile, invincibile e selvaggia che è
la pubblica opinione e troncarne le numerose teste, anzi da non lasciarle né
anche da principio spuntare, quegli potrà agevolmente respingere i frequenti
assalti e godere come di un porto tranquillo; ma finché non ne sarà liberato,
egli imporrà all’anima sua una guerra molteplice, continuo affanno, e il peso
dello scoramento e d’ogni altra angustia. E a che enumerare le rimanenti
difficoltà? Nessuno può né dirle né comprenderle, se non si sia trovato egli
stesso in mezzo a queste brighe.
Libro
sesto
Riepilogo. Difficoltà del ministero e virtù
necessarie. Conclusione della difesa.
Il pensiero di dover rendere conto al Giudice supremo
della salute spirituale dei sudditi, incute grande timore.
I.
Così stanno le cose quaggiù, come hai udito; quelle poi che riguardano l’altra
vita, come potremo sopportarle, essendo noi costretti a rendere ragione di
ciascuno di coloro che ci furono affidati? Il danno non si limiterà allora alla
vergogna, ma trarrà seco una punizione eterna. Se già l’ho ricordato, non
tralascerò ora di ripetere il detto: "Siate ubbidienti ai vostri prelati e
siate ad essi soggetti, poiché essi vegliano come dovendo rendere conto delle
anime vostre" (Eb. 18,17); ché il timore di questa minaccia mi agita
continuamente lo spirito. Se per chi scandalizza minimamente uno solo "conviene
che gli sia sospesa al collo una pietra da mulino e venga precipitato nel
mare" (Mt. 18,6) e se "quanti offendono la coscienza dei fratelli,
peccano contro lo stesso Cristo" (1Cor. 8,12), chi infligge tanta rovina
non a uno, o due, o tre, ma a un popolo intero, che cosa non dovrà soffrire in
pena e quale castigo non avrà da riceverne? Né si può incolpare l’inesperienza,
né rifugiarsi nella scusa dell’ignoranza, né addurre come pretesto la violenza
e la costrizione subita: tale pretesto potrebbe farlo valere chiunque fra i
sudditi, qualora fosse il caso, riguardo alle proprie colpe, più facilmente di
quello che un capo possa addurlo a scusa delle colpe altrui. E perché mai?
perché chi é incaricato di correggere l’ignoranza degli altri e porre in
guardia contro la guerra diabolica quando s’avvicina, non potrà certo
pretessere l’ignoranza propria, né dire: "Non ho udito la tromba, né ho
potuto prevedere la battaglia". Poiché, per questo, come dice Ezechiele,
t’ha fatto sedere, per suonare la tromba anche per gli altri e preannunziare le
calamità future. Onde la pena sarà inesorabile, anche se uno solo andasse
perduto. Ché "se all’avvicinarsi della spada, dice, la sentinella non
suoni la tromba al popolo, per annunziarla, e la spada venendo prenda un uomo,
questi veramente per colpa sua é rapito, ma del sangue di lui domanderò conto
alla sentinella" (Ez. 33,6).
Custodia
dei sensi e purezza angelica necessaria al sacerdote
Cessa
pertanto di spingermi verso una pena tanto inesorabile: non si tratta né di
comando militare né di dignità regia, ma di un’istituzione tale che richiede
una virtù angelica. L’anima del Sacerdote dev’essere più pura dei raggi del
sole, affinché lo Spirito Santo non lo abbandoni e affinché possa dire:
"Vivo non già io, ma vive in me Cristo" (Gal. 2,20). Ché se gli
anacoreti del deserto, lontani, dalla città e dai pubblici ritrovi e da ogni
strepito proprio di quei luoghi, godendo interamente il porto e la bonaccia,
non s’inducono a confidare nella sicurezza di quella loro vita, ma aggiungono
infinite altre attenzioni, munendosi da ogni parte e studiandosi di fare o dire
ogni cosa con grande diligenza, per potersi presentare al cospetto di Dio con
fiducia e intatta purezza, per quanto é possibile alle umane facoltà; qual
forza e violenza ti pare che farà d’uopo al vescovo, per sottrarre l’anima sua
da ogni macchia e serbarne intatta la spirituale beltà? A lui occorre per certo
maggior purezza che a quelli, e frattanto, proprio lui che ne ha maggior
bisogno è esposto a maggiori occasioni necessarie, nelle quali può essere
contaminato, se con assidua sobrietà e vigilanza non renda l’anima sua
inaccessibile a quelle insidie. La grazia della persona, le movenze affettate,
il camminare ricercato, l’esilità della voce, gli occhi imbellettati, la
tintura delle gote, la disposizione delle trecce, le chiome impatinate, lo
sfarzo delle vesti e la varietà dei monili, la bellezza delle gemme, il profumo
degli unguenti e tutte le attrattive di cui va in cerca il sesso femminile,
bastano a turbare l’anima qualora non sia bene inaridita con rigorosa
temperanza. Del resto nulla di strano che uno sia inquietato da simili cose, ma
ciò che riempie di stupore e di sgomento é che il diavolo può percuotere e
trafiggere le anime degli uomini mediante oggetti affatto contrari a quelli.
II.
Taluni infatti essendo sfuggiti a quelle trappole, caddero in altre assai
diverse. Lo sguardo trascurato, la capigliatura ispida, il vestito sudicio,
l’aspetto dimesso, i modi semplici, il parlar naturale, l’incesso comune, la
voce piana, il vivere in povertà, l’essere oggetto di disprezzo senza appoggio
e in abbandono, dopo aver mosso a compassione l’osservatore, finirono per
trascinarlo a estrema rovina: onde molti, scampando dalle prime reti tese dai
monili, unguenti, abiti sfarzosi, e tutto il resto sopra ricordato, caddero con
tutta facilità in queste altre così diverse da quelle, e vi soccombettero. Se
dunque mediante la povertà e la ricchezza l’ornamento e l’aspetto dimesso, i
modi affettati e quelli trascurati, in una parola mediante tutti gli oggetti
sopra enumerati si accende la guerra contro l’anima dello spettatore, e d’ogni
intorno gli tendono insidie, come potrà egli respirare, stretto nel cerchio di
tanti scogli? quale scampo potrà trovare, non dico per non soccombere alla
violenza, ché ciò non é molto difficile, ma per serbare l’anima sua tranquilla
e libera da immondi pensieri? Lascio da parte gli onori che sono cagione di
mali infiniti; quelli che provengono dalle donne sbolliscono bensì con
l’assiduità della modestia, ma possono anche far cadere chi non sa mantenersi
sempre vigilante contro tali insidie; quanto poi a quelli offerti dagli uomini,
se uno non li accoglie con molta superiorità di spirito, soggiace a due
affezioni contrarie, quali la servile
adulazione
e la stolta iattanza, costretto a inchinarsi a quelli che dovrebbero stare a’
suoi cenni, reso aspro contro i minori dal favore accordatogli e spinto così
nel baratro della presunzione. Queste cose dico io; ma il danno che da ciò
proviene nessuno potrebbe pienamente comprenderlo, senz’averne fatto
esperienza, ché a chi si trova all’atto pratico é giocoforza che ne accadano di
peggiori e più rovinose.
Il
ministero dedicato al popolo é più difficile che il governo di comunità
monastiche
Colui
che preferisce la quiete si trova libero da ogni peso: onde se talora un
pensiero vano gli suggerisce qualcosa di simile, la fantasia é debole e facile
a spegnersi, non somministrandosi dall’esterno per mezzo della visione, materia
all’incendio. Inoltre il monaco teme solo per se stesso; se mai é costretto a
stare in angustia anche per altri, si tratta d’un numero piccolissimo; e se
fossero più numerosi, lo sono sempre meno di quelli che sono nelle chiese, e
procurano al prelato cure assai più lievi, non solo per il piccolo numero, ma
anche perché tutti sono liberi dalle faccende mondane e non hanno da
preoccuparsi né per i figli né per la moglie né per null’altro di simile.
Questo li fa più docili ai superiori, ed anche l’aver essi in comune
l’abitazione, in guisa che le loro mancanze si possono diligentemente avvertire
e correggere, il che é di non piccola importanza per il progresso nella virtù.
Invece
la maggior parte di quelli che sono soggetti al vescovo é occupata nelle cure
materiali, il che li rende più indolenti per quanto si riferisce alle opere
spirituali, onde il maestro deve, per così dire, seminare quotidianamente,
affinché la parola del magistero possa con l’assiduità essere finalmente
afferrata dagli uditori. La sfondata ricchezza, la posizione elevata, la
pigrizia derivante dal lusso, e molte altre cause oltre a queste, soffocano i
semi deposti; spesso poi la fitta delle spine non lascia neppur cadere la
sementa fino a poter germogliare; anche l’eccesso della tribolazione e le
strette dell’indigenza, i soprusi continui e altre cause contrarie alle prime,
possono ritrarre dalla sollecitudine per le cose di Dio. Delle loro colpe poi
non può venire in chiaro al vescovo neppur la minima parte; e come potrebbe
essere diversamente se non conosce nemmeno di vista il maggior numero de’
sudditi?
La
responsabilità dinanzi a Dio. Grandezza del rito eucaristico
III.
Tali difficoltà offrono al vescovo i suoi rapporti col popolo; ma se alcuno
investiga i suoi rapporti con Dio, troverà che le altre sono al confronto un
nulla, tanto maggiore e più complessa é la cura che questi richiedono. Colui il
quale é mallevadore di tutta una città, ma che dico città? di tutto il mondo, e
che deve propiziare Iddio per le colpe di tutti, non solo de’ vivi ma anche de’
trapassati, di quale virtù non dev’essere egli fornito? Io non stimo possa
bastare per tale intercessione né la fiducia di Mosè, né quella di Elia. E per
vero [il vescovo], come custode di tutto il mondo e padre di tutti, si presenta
a Dio supplicandolo di sedare le guerre e comporre i disordini, implorando
pace, prosperità e privatamente e pubblicamente la pronta liberazione di tutte
le calamità da cui ciascuno é afflitto; perciò egli deve tanto superare tutti
coloro per i quali intercede, quanto é ragionevole che il prelato superi [in dignità]
i suoi subalterni. Quando poi invoca lo Spirito Santo e compie il tremendo
sacrificio e viene in assiduo contatto col comune Signore di tutte le cose, in
qual grado, dimmi, lo porremo noi? e qual purezza e austerità non richiederemo
da lui? pensa quali hanno da essere le mani che si gran cose amministrano,
quale la lingua che pronunzia quelle parole, e come dev’essere più immacolata e
santa che mai l’anima che deve accogliere un tanto Spirito? Allora assistono al
sacerdote anche gli angeli, onde il Santuario e lo spazio intorno all’altare si
riempie di potenze celesti, in omaggio [al Signore] presente. Ciò si può
asseverare anche da quanto é altra volta accaduto; io stesso ho udito da un
tale raccontare che un certo vecchio, uomo meraviglioso e favorito da
rivelazioni, gli aveva confidato d’essergli stata una volta concessa una simile
visione, e che durante quel tempo aveva scorto d’improvviso una moltitudine di
angeli, com’egli li poteva vedere, cinti di fulgide vesti, facenti corona
all’altare e starsene inchinati, in atto simile a’ guerrieri in presenza del
re; e io lo credo. Un altro pure mi raccontò, non riferitogli da chicchessia,
ma lui stesso esser stato degnato di vedere e udire che coloro i quali stanno
per dipartirsi da questa vita, se abbiano partecipato. ai misteri con intatta
coscienza, al loro spirare gli angeli in guardia d’onore ne li conducono, per
riverenza al sacramento da loro ricevuto. Tu invece non rabbrividisci nello
spingere a sì santa azione un’anima come la mia, e nel sollevare alla dignità
de’ sacerdoti uno avvolto in sordide vesti e che Cristo respinse anche dal ceto
degli altri convitati!
Il
sacerdote é sale della terra e luce del mondo
L’anima
del sacerdote deve splendere come luce che illumina tutta la terra, mentre la
mia é ravvolta dalla perversa coscienza in si fitta tenebra, che sempre vi sta
sommersa né può mai con fiducia volger lo sguardo al suo Signore. I sacerdoti
sono il sale della terra, mentre invece la mia insipienza e totale
inesperienza, chi le tollererebbe di buon grado, se non voi altri, per la
consuetudine d’eccessivo affetto? Ché [il sacerdote] dev’essere non soltanto
puro come lo richiede un tanto ministero, ma anche molto prudente e pratico di
molte faccende; non deve conoscer gli affari materiali meno di quelli che vi si
trovano in mezzo, e tuttavia deve esserne distaccato non meno dei monaci che
abitano i monti. Egli deve essere versatile, perché ha da far con uomini che
hanno moglie, figli, servitù, sono circondati da grandi ricchezze, trattano la
cosa pubblica e occupano alte cariche: versatile, dico, non subdolo, né
adulatore né ipocrita, ma pieno di libertà e di franchezza, sapendo però
accondiscendere docilmente qualora le circostanze lo richiedano, mostrandosi a
un tempo affabile e austero. Non bisogna infatti comportarsi allo stesso modo
con tutti i sudditi, come non sarebbe opportuno ai medici procedere con uno
stesso criterio con tutti gli ammalati, né al pilota conoscere una sola manovra
per combattere contro i marosi. E per vero anche questa nave é premuta da
continue tempeste; tempeste che non solo assalgono dall’esterno, ma sorgono
anche dall’interno, onde v’è d’uopo di grande accondiscendenza, ma insieme di
grande attenzione. Tutte queste cose, sebbene fra loro diverse, cospirano a un
fine unico: la gloria di Dio e l’edificazione della Chiesa.
Confronto
tra il monaco e il sacerdote
IV.
Grande é la professione monastica e costa molta fatica; ma chi paragoni quei
travagli al conveniente disimpegno dell’episcopato, troverà tanta differenza
quanta ve n’ha fra un uomo del volgo e un re. Sebbene là sia grande la fatica,
tuttavia la lotta é sostenuta in comune dal corpo e dall’anima, anzi nella
maggior parte essa dipende dalla costituzione del corpo; se questo non é
vigoroso la passione rimane assopita, né può effondersi nell’azione; onde anche
gli assidui digiuni, il dormire su nuda terra, le veglie protratte, il non
lavarsi, la dura fatica e tutti gli altri esercizi che servono a mortificare il
corpo, sono messi in disparte, essendo privo di vigore quello che dovrebbe
venire represso. Qui invece l’arte è puramente dell’anima, né ha d’uopo del
benessere del corpo per dimostrare la sua virtù. Infatti, a che gioverebbe la
forza del corpo per evitare l’arroganza, l’irascibilità, la precipitazione, ed
essere invece sobri, prudenti, ordinati, e mostrare tutte le altre doti con cui
il beato Paolo ci descrive in tutte le sue parti l’immagine del perfetto
vescovo? Non si potrebbe dir ciò riguardo alle virtù proprie dei monaci.
Ma
come ai prestigiatori occorrono molti ordigni e ruote e corde e coltelli,
mentre il filosofo ha l’arte sua riposta tutta nell’anima senza bisogno di
strumenti esterni, così anche nel nostro caso, il monaco ha bisogno della buona
costituzione corporale e di luoghi adatti al suo esercizio, che non siano
troppo lontani dal consorzio degli uomini, che abbiano la quiete propria delle
regioni disabitate e che inoltre non difettino di un’ottima temperatura
dell’atmosfera; però che nulla riesce più intollerabile delle intemperie per
chi é già estenuato dai digiuni; non parlo poi delle brighe che essi hanno
necessariamente per prepararsi le vesti e il vitto, dovendo ogni cosa fare da
se stessi. Il vescovo invece non dovrà occuparsi di tutto ciò per servire alle
proprie necessità, ma esente da tali lavori, egli partecipa a tutte le
manifestazioni della vita che non recano danno, custodendo tutta la sua scienza
in serbo nel ripostiglio dell’anima. Che se taluno ammira quelli che se ne
stanno in disparte, anch’io direi che ciò è segno di fortezza, non però un
saggio sufficiente di tutta
la
virtù che è nell’anima: chi siede al timone standosene chiuso nel porto, non
offre adeguata prova dell’arte sua, ma se uno riesca a salvare la nave in mezzo
al pelago e alla procella, nessuno oserà negare ch’egli sia un ottimo pilota.
La
vita solitaria non porge molte occasioni di provare la virtù.
V.
Pertanto non ci dovrebbe destare un’ammirazione esageratamente grande il
monaco, che standosene solo non soffre turbamenti né commette grandi e numerose
colpe: egli non ha le occasioni che stimolano e risvegliano l’anima. Invece,
quando uno dedicandosi a intere moltitudini e costretto a sopportare i
disordini di tutti, sa mantenersi diritto e forte, guidando l’anima fra le
tempeste come se fosse in bonaccia, questi sarebbe degno d’essere acclamato e
ammirato da tutti, ché ha offerto una prova sufficiente della sua fortezza. Non
devi pertanto meravigliarti se io, fuggendo i ritrovi e le compagnie numerose,
non vado incontro a molti biasimi, come non sarebbe degno di ammirazione che io
dormendo evitassi le colpe, o fuggendo la lotta non m’occorresse di cadere, o
astenendomi dal combattere non fossi vinto. Ma chi, dimmi, chi può denunziare e
smascherare la mia perversità? questo tetto e questa cella? ma essi non sanno
articolare parola. O forse mia madre che più d’ogni altro conosce le mie
tendenze? ma fra me e lei non c’è nulla di comune né mai siamo venuti a qualche
contrasto, e se anche ciò fosse avvenuto, non c’è madre tanto disamorata e
ostile verso la sua prole, da accusare e perseguitare in faccia a tutti senza
che alcun motivo ne la costringa, quello che essa ha generato, partorito ed
allevato. E tu pure, che più di tutti sei solito a levarmi a cielo con lodi
presso chiunque, non ignori che se si sottoponesse a rigorosa prova l’anima
mia, la si troverebbe in molte parti viziata; se vuoi persuaderti che io non
parlo così per modestia, ricordati quante volte, discorrendosi fra noi di tali
faccende, ebbi a dirti che se mi si proponesse di significare in quale
condizione vorrei ottenere lode, se nel governo della Chiesa oppure nella vita
monastica, io avrei dato coi pieni voti la preferenza alla prima. Né mai ho
cessato di esaltare [parlando] con te quelli che sapevano egregiamente
disimpegnare quel ministero: or dunque nessuno potrebbe negare che io non avrei
fuggito quell’[ufficio] che tanto ammiravo, se ne fossi stato all’altezza. Ma
che? nulla é più dannoso nel governo della Chiesa, di questa certa inerzia e
trascuratezza, che altri stimano una specie d’ascesi, mentre io penso ch’ella
non sia altro se non un velarne della mia propria inettitudine, col quale io
posso celare la maggior parte delle mie mancanze, impedendo che siano
conosciute. Chi é avvezzo a godere di questa inoperosità e vivere in grande
quiete, anche se é dotato di grandi qualità viene conturbato e disorientato
dall’inerzia, e la mancanza d’esercizio tronca una parte non piccola delle sue
energie: che se poi oltre al tenersi lontano da tali cimenti, é anche di
carattere indolente, come appunto é il caso mio, qualora abbia assunto questo
ministero non farà più di quanto farebbe una statua di marmo. Ecco la ragione
per cui anche di quanti vengono da quel genere di palestra a questi cimenti,
pochi ottengono buon esito; la maggior parte di loro vanno incontro al comune
biasimo, perdono le staffe e soggiacciono a vicende disgustose e tristi; e
nulla di straordinario in questo, che quando gli esercizi e le palestre non
sono proporzionati allo stesso genere di cimenti, per nulla differisce uno che
sia allenato, da un altro che non sia tale. Infatti colui che scende in questo
stadio deve spregiare la gloria, dominare l’irascibilità ed essere pieno di
grande prudenza; ora chi preferisce la solitudine non ha occasione di
esercitarsi in queste virtù, perché non ha molti che lo molestino, onde sia
condotto a reprimere l’impeto dell’animo; non ha ammiratori né acclamatori che
lo ammaestrino a tenere a vile gli applausi della moltitudine; né d’altra parte
possono [i monaci] darsi piena ragione della grande prudenza che si richiede
nel ministero ecclesiastico. Pertanto, quando essi vengono al cimento di lotte
delle quali non hanno curato l’esercizio, si turbano, danno nelle vertigini,
sono ridotti all’impotenza, e accade spesso che molti, oltre che non ne
acquistano, vi perdono anche le virtù che prima possedevano.
Il
ministero offre molte occasioni pericolose. Difficile cura del ceto femminile
VI.
"Allora Basilio: E che? disse, dovremo noi porre allora al governo della
Chiesa persone avvolte negli affari mondani, preoccupate da interessi
materiali, impigliate in contese e ingiurie e ripiene di innumerevoli
perversità?"
"Calmati,
risposi, o mio caro; ché quando si tratta della scelta dei sacerdoti non s’ha
nemmeno da pensare a tali soggetti; dico che a quei solitari si deve preferire
uno che mentre tratta e pratica con tutti, possa conservare intatta e
inalterata la purezza, la calma, la santità, la fortezza, la sobrietà e tutte
le altre doti che splendono nei monaci; perché colui il quale avendo molti
difetti, pure riesce con la solitudine a celarli e renderli innocui,
astenendosi dal trattare con alcuno, posto che sia nel mezzo della bisogna,
altro non otterrà se non di rendersi ridicolo, con rischio di peggio.
Ciò
appunto sarebbe per poco capitato a me, se la misericordia di Dio non avesse in
fretta ritirato il fuoco dal mio capo; chi ha sortito un’indole tale, non può
celarla quando venga messo in vista, ma allora tutto viene smascherato; e come
il fuoco prova i metalli, così la prova del ministero esamina le anime degli
uomini; onde se uno é iracondo, o pusillanime, o vanaglorioso, o millantatore,
o se abbia qualsiasi altra pecca, tosto ne discopre e svela i difetti. Né
soltanto li rivela, ma li rende più forti e perniciosi: le piaghe del corpo
stropicciate, più difficilmente guariscono, e così pure le passioni dell’anima
stimolate e irritate imperversano maggiormente, spingendo a maggiori colpe
quelli che ne sono agitati. [L’esercizio del ministero] accende in chi non sta’
in guardia la bramosia di gloria, lo rende presuntuoso e avido di ricchezza; lo
trascina al lusso, alla rilassatezza, all’indifferenza e a poco a poco ad altri
vizi che da questi derivano. Molte sono là in mezzo le circostanze che possono
distruggere il temperamento dell’anima e troncare il retto cammino, e anzitutto
le conversazioni con le donne; non lice invero al capo della comunità
ecclesiastica e a cui spetta la cura di tutto il gregge, occuparsi soltanto del
sesso maschile e trascurare le donne, le quali hanno bisogno di maggiore
assistenza essendo esse più facilmente cedevoli alle mancanze; ma chi occupa la
carica di vescovo deve prendersi a cuore l’integrità loro, se non in maggiore,
almeno in eguale proporzione. Bisogna pertanto visitarle quando sono inferme,
consolarle quando sono tribolate, redarguire quelle che si mostrano indolenti e
prestare aiuto a quelle che sono oppresse. Ora, nell’esercizio di queste opere,
il maligno trova molti accessi, se uno non si munisce con gran cura; lo sguardo
colpisce e turba lo spirito, né soltanto quello delle svergognate, ma anche
quello delle pudiche; le loro adulazioni soggiogano e i loro favori rendono
schiavi, di guisa che la carità ardente, che per se stessa é fonte d’ogni bene,
pub divenire fonte d’ogni male per quelli che non l’esercitano con le debite
precauzioni. Già di per sé le cure assidue ottundono l’acume del pensiero e da
agile lo rendono più pesante del piombo, mentre poi d’altra parte l’irascibile
invadendo ravvolge a guisa di fumo tutto l’interno)".
L’insidia
della calunnia e la necessità di guardarsene.
VII.
Chi potrebbe poi enumerare i danni rimanenti, cioè le ingiurie, le calunnie, le
censure mosse dai superiori e dai sudditi, dai saggi e dagli insipienti?
Quest’ultima genia specialmente, destituita di retto criterio, é incontentabile
e difficilmente ascolta ragioni; ora il buon prelato non deve disinteressarsi
neanche di costoro, ma presso tutti deve studiarsi di togliere di mezzo le
cagioni delle loro querele, usando molta affabilità e dolcezza, perdonando le
accuse ingiustificate anziché adontarsene e montare in ira. Se il beato Paolo
temeva di destare sospetto di frode nei suoi discepoli, e perciò si assunse
altri nell’amministrazione delle entrate "affinché alcuno non ci abbia da
vituperare per questa abbondanza di cui siamo dispensatori" (2Cor. 8,20),
come non dovremmo noi adoperarci in ogni maniera per allontanare i cattivi
sospetti anche se falsi, privi di qualsiasi fondamento e lontanissimi dalla
nostra riputazione? Invero da nessun vizio noi siamo tanto lontani quanto lo
era Paolo dal furto: e sebbene egli tanto distasse da questa mala azione, non
trascurò tuttavia l’eventuale sospetto della moltitudine, per quanto
irragionevole e folle esso fosse; e certo era una follia sospettare qualcosa di
simile per quella beata e mirabile anima; ma nondimeno egli molto per tempo
toglie di mezzo le cause d’un sospetto tanto stolto e quale niuno poteva
concepirlo, tranne che avesse perduto la testa. Non pose in non cale la
stoltezza del volgo, né disse: "A chi mai potrebbe venire in animo un tale
dubbio a mio riguardo, mentre tutti mi onorano e ammirano sia per i miracoli,
sia per l’equità onde la mia vita risplende?" ma tutto al contrario, egli
previde e s’aspettò tale maligna supposizione e l’estirpò dalla radice, anzi
non permise neppur che cominciasse a formarsi; e per qual motivo? "Perciò,
dice, provvediamo al bene non solo dinanzi al Signore, ma anche dinanzi agli
uomini" (2Cor. 8,21). Tale cura, anzi maggiore, si deve usare, non solo
per togliere di mezzo e impedire le cattive dicerie quando sono sorte, ma per
prevedere da lontano da qual parte possano sorgere e togliere i pretesti che
possono provocarle, né aspettare che esse prendano corpo e vadano aggirandosi
di bocca in bocca, poiché allora non sarà facile soffocarle, ma molto difficile
e presso che impossibile; ciò poi non é privo di danno perché non può accadere
senza scandalo di molti. Ma fino a quando seguiterò ad andar in traccia
dell’introvabile? ché l’enumerare tutte le difficoltà che qui s’incontrano,
sarebbe la stessa cosa che misurare l’acqua del mare. Se anche uno si sia
purificato da ogni passione, il ché é impossibile, per giungere a correggere i
falli altrui deve sopportare infiniti disagi: se poi s’aggiungono le proprie
deficienze, pensa quale abisso di angustie e di affanni non deve patire quegli
che voglia vincere i vizi suoi e degli altri!
Bisogna
far fruttare i talenti
VIII.
Ma tu, disse Basilio, non devi sopportare fatiche e non hai forse affanni anche
standotene solo?
"Ne
ho per certo, risposi, anche così; come é possibile infatti, essendo uomo e
vivendo questa tribolata vita, starsene affatto libero da pene e lotte? Ma come
non é eguale cosa il cadere in un pelago sterminato e il traghettare un fiume,
così pure differiscono le pene di questo stato e
quelle
dell’altro. Certamente anch’io desidererei, potendolo, essere di aiuto ad altri
e ciò é per me oggetto di molto desiderio; ma se non è possibile recare
giovamento ad altri, purché almeno mi riesca di porre in salvo me stesso e
sottrarmi al naufragio, me ne starò contento anche solo di. Questo".
"E
tu credi, disse, che ciò sia gran cosa? e pensi davvero di poterti salvare
senza occuparti del vantaggio di altri?".
"Tu
dici bene e giustamente, risposi; poiché neppure io posso credere che abbia a
salvarsi chi non sopporta alcuna fatica per procurare la salute altrui; neppure
quel miserabile infatti, guadagnò nulla col non sminuire il talento, ma appunto
il non averlo aumentato ricavandone il doppio, fu la sua rovina. Tuttavia io
stimo che all’accusa di non aver salvato altri, seguirà una punizione più mite
che all’altra, d’aver io rovinato e me ed altri, essendomi fatto peggiore dopo
conseguita sì gran dignità. Ora io reputo che tale sarà la pena quale richiede
la grandezza delle colpe; ma assunta che avessi la carica, non solo doppia e tripla,
ma d’assai volte maggiore, per averne scandalizzato un numero più grande, e per
aver, dopo un maggior onore, offeso Dio che me l’aveva conferito".
Più
si richiede da Dio a chi fu elevato a maggior dignità
Per
ciò appunto [Iddio] accusando più fortemente gli Israeliti, dimostra ch’essi
sono degni di maggior castigo, per esser caduti in colpa dopo tanto onore loro
accordato, dicendo una volta: "Voi soli ho io conosciuti di tutte le
famiglie della terra; per questo vi punirò di tutte le vostre iniquità" (Am.
3,2). E altra volta: "E de’ vostri figlioli scelsi i profeti, e dalla
vostra gioventù quelli da consacrarsi" (Am. 2,11). E prima de’ profeti,
volendo dimostrare che le colpe ricevono molto maggior castigo quando sian
commesse da’ sacerdoti che non quando lo sono dai privati, impone di offrire
per i sacerdoti un sacrificio corrispondente a quello offerto per tutto il
popolo, volendo dimostrare che le piaghe del sacerdote richiedono maggior cura,
e tanta quanta se ne richiede per il popolo intero; non vi sarebbe bisogno
certo di più grande cura se esse non fossero per se stesse più maligne: e tali
esse sono appunto, non già per natura, ma perché rese più gravi dalla dignità
rivestita dal sacerdote che le ha contratte. E che dico gli uomini che
rivestono la dignità? le figlie stesse dei sacerdoti, benché nessun rapporto
diretto abbiano col sacerdozio, soggiacciono a più aspro castigo pe’ loro
peccati, a causa della dignità paterna; eppure la colpa era eguale in loro e
nelle figlie dei privati, sì le une che le altre essendo ree di fornicazione;
ma a queste ultime fa più dura la punizione la superiorità d’onore. Vedi con
quanta copia d’esempi Iddio ti dimostra che esige maggior pena dal capo che non
dai sudditi; però che [Dio] il quale inflisse più grande punizione alla figlia
per causa del padre: da questo, che fu ad essa cagione di aumentarle i
tormenti, non richiederà per certo eguale pena che dagli altri, ma assai più
grande. E ben a ragione; ché il danno non si arresta in lui, ma rovina anche le
anime dei più deboli che a lui tengono volto lo sguardo: ciò volendo insegnare
Ezechiele distingue il giudizio degli arieti da quello delle pecore.
La
vita ritirata protegge un animo debole
IX.
Ti par dunque ch’io tema d’un ragionevole timore? E oltre a quanto ho detto
[aggiungi] che ora ho pur d’uopo di fatica per non essere totalmente
sopraffatto dalle passioni dell’anima, ma nondimeno riesco a tollerare tale
travaglio e non mi ritraggo dal combattimento. E per vero anche al presente
sono soggiogato dalla vanagloria, ma spesso m’è pur dato di rialzarmi, e
conosco le cause della caduta; talora anche faccio severo rimprovero all’anima
per essersene resa schiava. Anche al presente sorgono in me desideri viziosi,
ma essi accendono una più languida fiamma, non avendo gli occhi esteriori alcun
mezzo di porgere esca al fuoco: non mi occorre punto di parlar male d’alcuno o
d’intendere altri a parlarne, non avendo io conversazione con alcuno; né
potrebbero invero queste pareti dire anche una sola parola. Non mi riesce però
egualmente di sottrarmi all’irascibilità, sebbene non vi sia chi mi vi ecciti;
ché spesso assalendomi il ricordo d’uomini perversi e delle loro malvagità, mi
sommuove lo spirito; per altro quest’agitazione non va fino agli eccessi, ché
ben presto l’anima accesa si ricompone, e la persuado a calmarsi, dicendo esser
cosa inutile ed estremamente stolta l’affannarsi de’ fatti altrui trascurando
le cose proprie. Ma se io andassi fra la moltitudine e cadessi in preda
d’infiniti turbamenti, non potrei certamente rivolgermi simili ammonimenti, né
trovare le riflessioni che possano esercitare su di me una tale disciplina. Ma
come chi è travolto in un precipizio da una corrente o da altra forza, può
bensì prevedere la rovina in cui andrà a finire, ma non è dato a lui di
escogitare alcuno scampo, così pure io qualora cadessi in si gran turbine di
passioni, potrei scorgere la punizione aumentarmisi di giorno in giorno, ma non
mi sarebbe agevole come ora serbare il dominio di me stesso: il reprimere in
ogni caso queste turbolente malattie [dello spirito] non mi riuscirebbe così
facilmente come prima. Ho un’anima inferma e piccina, facile preda non solo di
queste passioni ma d’una di tutte più fiera: l’invidia; essa poi non sa
sostenere con moderazione né le contumelie né gli onori, ma in modo eccessivo
rimane incitata da quelle, da questi soggiogata. Come le fiere terribili quando
sono ben tarchiate e vigorose abbattono quelli che si fanno a pugnare con loro,
specialmente se questi sono deboli e inesperti; se invece alcuno le smunga con
la fame, addormenta i loro impeti e spegne la maggior parte di loro forza, di
guisa che anche chi non è molto valente può cimentarsi con loro in lotta e in
caccia, così è anche delle passioni dell’anima: chi le indebolisce riesce a
sottoporle a sani ragionamenti; chi invece le nutrisce lautamente rende a se
stesso più fiera la lotta contro di esse e se le rende tanto terribili da aver
poi a passare tutta la vita in loro schiavitù e sotto il loro incubo. Or qual è
il nutrimento di queste fiere? della vanagloria sono gli onori e le lodi;
dell’arroganza, la grande autorità e potestà; dell’invidia, i buoni esiti dei
propri colleghi; dell’avarizia, l’ambizione di quelli che possono largire
denaro; dell’intemperanza, il lusso e i continui trattenimenti colle donne e
via dicendo. Tutte queste passioni, se io esco all’aperto, mi assaliranno e
strazieranno l’anima spaventose, e impegneranno meco una guerra più feroce.
Mentre invece fin che me ne sto qui ritirato, ci vorrà bensì grande sforzo per
soggiogarle, ma pur le soggiogherò con la grazia di Dio e non avranno più altra
forza che di latrare. Per ciò io sto attaccato a questa stanzetta, senza
uscirne, senza conversazioni né compagnie, e sopporterò di udire infinite altre
accuse simili, e me ne purgherei di buon grado, pur dolendomi e rammaricandomi
di non poter farlo. Io non potrei agevolmente essere uomo di società e nello
stesso tempo serbare intatta la sicurezza presente; onde prego di compatire
piuttosto che accusare chi ha voluto sottrarsi a tale cimento.
Grande
timore di Giovanni al pensiero di recare danno alla Chiesa
X. Ma
non ti persuado ancora: è dunque tempo di rivelarti anche quello che unicamente
tenevo celato e che forse sembrerà a molti incredibile; ma ciò non ostante io
non arrossirò di metterlo in pubblico. Che se le cose dette da me saranno prova
di coscienza contaminata e d’innumerevoli colpe, poi che Dio, il quale ha da
giudicarmi, conosce esattamente tutto, che cosa potrà venirmene di più dalla
ignoranza degli uomini? Or qual è dunque il secreto? Da quel giorno in cui
facesti nascere in me questo sospetto [di essere mio malgrado consacrato], più
volte il mio corpo corse pericolo d’essere totalmente paralizzato, tanto era il
timore e l’abbattimento che s’era impadronito dell’anima mia. Considerando io
l’eccellenza, la santità, la spirituale bellezza, l’ordine e il decoro della
Sposa di Cristo, e d’altra parte pensando ai miei vizi, non cessavo di
rimpiangere e quella e me stesso, e continuamente fra gemiti e sgomento andavo
dicendo tra me: "Chi dunque poté dare un simile consiglio? o qual gran
peccato ha commesso la Chiesa di Dio? come ha ella mosso siffattamente a sdegno
il suo Signore, da essere data in balìa di me vilissimo fra tutti, e subire una
tal confusione?". Tali cose rivolgendo fra me medesimo, né potendo
sopportare pur il pensiero di un fatto così assurdo, io me ne stavo muto come
gli epilettici, impotente a nulla vedere o ascoltare. Cessato poi quello
sgomento, ché venne pur il tempo in cui cominciò a dileguarsi, vi succedevano
le lacrime e lo scoramento; saziatomi di lacrime sottentrava di nuovo il timore
conturbandomi, sconvolgendomi e sovvertendomi l’intelletto. In tal tempesta
vissi tutto questo tempo, mentre tu ciò ignoravi e credevi che io godessi
tranquillità; ma ora tenterò di scoprirti il turbine dell’anima mia, ché anche
in vista di ciò ben presto mi darai venia, cessando di muovermi accuse. Or come
farò io a svelarti me stesso? ché se tu volessi averne una chiara conoscenza,
ciò non potrebbe altrimenti farsi che mettendo a nudo il mio stesso cuore; ma
poiché ciò è impossibile, cercherò almeno, come mi sarà dato, di mostrarti con
tenue sembianza la caligine del mio sbigottimento, di modo che tu possa averne
anche solo un’idea.
Allegoria
finale. La fidanzata mistica
Supponiamo
che a un uomo sia promessa sposa la figlia del re di tutta la terra che è sotto
il sole, e questa fanciulla sia bella d’ineffabile bellezza, tale da sorpassare
anche l’umana natura e superare di gran lunga in bellezza le altre donne tutte
quante; che oltre a ciò essa possieda tali doti di spirito da lasciarsi
indietro assai la schiatta intera degli uomini che furono e che saranno; che
per leggiadria di costumi sorpassi tutti i confini della saggezza e faccia
impallidire con lo splendore del proprio aspetto la beltà corporale; supponiamo
che il promesso sposo sia acceso per questa vergine non solo a cagione di
queste doti, ma oltre a ciò senta verso di lei una particolare tendenza, una
passione di tal forza da eclissare al confronto anche gli amatori più deliranti
che mai siano stati. Poniamo poi che mentre è bruciato da un tal fuoco, venga a
sapere che quella sua meravigliosa amata è in procinto di essere sposata da
uomo da nulla, ignobile di stirpe, deforme di corpo e più meschino di ogni
altro. Ti ho io così rappresentato qualche piccola parte del mio affanno? ti
basta ch’io mi limiti a questa immagine? certo credo che basti per
rappresentarti il mio sbigottimento, e appunto per darti un’idea di quello, te
l’ho esposta. Ma ora verrò ad un’altra rappresentazione, per dimostrarti la
grandezza del mio timore e della mia trepidazione.
L’esercito
e l’armata navale affidati a un contadinello
XI.
Sia dunque un esercito composto di pedoni, di cavalieri e d’uomini di mare; e
copra il mare la moltitudine delle triremi, e coprano le campagne e le vette
dei monti le falangi dei fanti e dei cavalieri. E riverberi al sole il suo
splendore il rame delle armi, mentre contro i raggi di lassù mandati, vibri il
fulgore degli elmi e degli scudi: lo strepito delle aste e il nitrito de’
cavalli si levi fino al cielo, né si veda più mare o terra, ma rame e ferro
appaia da ogni parte.
Incontro
a questi si schierino i nemici, uomini fieri e spietati e sia imminente ormai
il momento della battaglia. Indi alcuno preso ad un tratto un garzoncello di
quelli che sono allevati nei campi e nulla sanno all’infuori del zufolo e del
bastone da pastore, lo rivesta delle armi di rame; lo conduca quindi a torno
tutto quanto l’esercito e gli mostri le varie compagnie con i loro comandanti,
gli arcieri, i frombolieri, i capitani, i generali, i fanti di grave armatura,
i cavalieri, i lanciatori, le triremi e i trierarchi, gli armati che sopra
quelle stanno, la moltitudine delle macchine poste sulle navi; gli mostri poi
anche
tutte quante le schiere dei nemici e certe facce spaventevoli, la strana foggia
delle armi, l’infinita loro moltitudine; i precipizi, i profondi burroni e i
dirupi dei monti. Poi gli mostri ancora dalla parte dei nemici e cavalli
volanti per via d’incantesimi, e fanti portati per l’aria e ogni opera e specie
di magia. Gli venga poi anche enumerando i casi della guerra: nubi di saette, nembi
di dardi, quell’immensa caligine, oscurità e tenebrosissima notte prodotta dal
nembo degli strali, sì da impedire con la sua densità i raggi del sole, la
polvere che non meno della tenebra acceca gli occhi, i torrenti di sangue, i
gemiti dei cadenti, le urla di chi sta ancor in piedi, i cumuli dei distesi a
terra, le ruote asperse di sangue, i cavalli con i loro cavalieri stramazzati
bocconi per la moltitudine dei cadaveri giacenti, la terra di tutto ciò
confusamente coperta, e sangue e dardi e frecce e zoccoli di cavalli e teste
d’uomini insieme, e braccia e ruote e schinieri e petti trapassati, cervella
cosparse sul filo delle spade, punte di saette infrante, e, nelle punte, occhi
infilzati. Gli enumeri anche i casi dell’armata navale: delle triremi, quali
incendiate in mezzo alle acque, quali affondate in un con i soldati; il mugolio
dell’onde, il tumulto dei marinai, il grido delle ciurme, la spuma dei flutti
mescolata col sangue che piove su tutte le navi; e cadaveri, altri sui
tavolati, altri sommersi, altri galleggianti, altri sbalzati sul lido, altri
avvolti dall’onde sì da chiudere alle navi la strada. Indi, mostrati a lui
diligentemente tutti
questi
luttuosi casi di guerra, vi aggiunga ancora i mali della prigionia e la
schiavitù peggiore d’ogni morte; e ciò detto gli imponga senz’altro di salire
subito a cavallo e assumere il comando di tutto l’esercito. Or credi tu forse
che a quel comando potrà bastare quel garzoncello, o piuttosto al primo aspetto
non rimarrà egli subito senza respiro.
Le forze infernali schierate contro la Chiesa di Cristo e i suoi
sacerdoti.
Le ferite dell’anima. Confronto fra la pugna materiale
e la lotta spirituale
XII.
Né credere che io esageri la cosa con le mie parole, né reputarle [troppo]
grandi, perché noi chiusi nel corpo come in una prigione nulla possiamo vedere
di ciò che è invisibile; poiché se tu potessi mai scorgere con questi occhi
[materiali] la tenebrosissima oste e la furibonda accozzaglia del diavolo,
vedresti un apparato di guerra molto maggiore e terribile di questo. Là non v’è
rame né ferro, né vi sono cavalli o carri o ruote; non fuoco né strali né alcun
ordigno bellico di quelli visibili, ma altre molto più spaventose macchine. A
quei nemici non occorre né corazza, né scudo, né spada, né asta; e tuttavia la
sola vista di quell’infinito esercito basta a tramortire l’anima che non sia
molto ardita e oltre la propria forza non sia favorita copiosamente dalla
provvidenza di Dio. E se fosse possibile, sciogliendosi da questo corpo, poter
osservare liberamente e senza timore tutta l’oste schierata di quello, e
scorgere visibilmente la guerra apprestata contro di noi, potresti vedere non
già rivi di sangue, né cadaveri, ma tale strage di anime e tanto aspre ferite,
che la descrizione guerresca fatta da me più sopra, sarebbe stimata da chiunque
in paragone nient’altro che un giochetto da fanciulli, un trastullo anziché una
guerra, tanti sono quelli che ogni giorno vengono colpiti. Le ferite poi non
infliggono una eguale morte, ma quella [morte] differisce tanto da questa
quanto l’anima differisce dal corpo; poiché quando l’anima tocca una ferita e
cade, non giace insensibile come il corpo [morto] ma viene quindi tormentata
immediatamente dallo struggimento della mala coscienza; e dopo il trapasso da
questa vita, nell’ora del giudizio viene consegnata alla pena eterna. Che se
taluno poi rimanesse insensibile alle ferite del diavolo, il danno per lui si
accresce appunto per quell’insensibilità; infatti, chi dopo una prima ferita
non prova rimorso, facilmente ne toccherà una seconda e dopo questa un’altra;
ché quell’immondo, qualora incontri un’anima intorpidita e noncurante delle
prime ferite, non cessa di colpirla fino all’ultimo respiro. E se volessi
esaminare il genere di battaglia, la troveresti molto più violenta e svariata;
ché nessuno conosce tanta specie di frode e d’inganno quante colui; quel
maledetto infatti trae da esse la sua maggior potenza; né alcuno potrebbe
nutrire sì implacabile inimicizia contro i suoi più feroci avversari, quale il
maligno nutre contro l’umana natura. Se poi alcuno esamini l’accanimento con
cui quegli combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra
uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà contrapporle alla
furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime e docilissime, tanto
furore quegli esala nell’assalire le nostre anime. La durata poi della
battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua brevità occorrono frequenti
intervalli: il sopravvenire della notte, la stanchezza della strage, il tempo
di prendere cibo e molte altre circostanze permettono al soldato di riposare,
di svestire l’armatura e respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda
e con molti altri mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è
dato mai deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto
incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o cadere e
soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente in piedi armato
e vigilante. Ché quegli senza tregua insiste con tutto il suo campo, spiando le
nostre disattenzioni, adoperando egli maggior diligenza alla nostra rovina, che
noi stessi alla nostra salvezza. Inoltre il non esser egli da noi veduto e il
sopraggiungerci di sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti
danni per chi non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai
più scabrosa di quella.
Commiato,
augurio finale e promessa di amichevole assistenza e di conforto reciproco
XIII.
Qui adunque tu volevi che io assumessi il comando dei soldati di Cristo? ma ciò
sarebbe stato un guidare l’esercito in pro del diavolo: quando colui che deve
porre in
ordine
e tenere in disciplina gli altri, è privo d’ogni esperienza e debolissimo,
tradendo con la sua incapacità quelli che gli furono affidati, farà da capitano
per il diavolo più che per Cristo.
Ma
perché gemi? perché versi lacrime? non è degna di compianto la mia sorte, ma di
letizia e giubilo.
"Non
però la mia, disse, ch’è invece degna d’infinito rammarico! ora soltanto ho potuto
comprendere in quale [abisso] di mali mi hai condotto lo sono venuto da te per
sapere che cosa potessi rispondere in difesa ai nostri accusatori; tu mi
rimandi dopo aver aggiunto affanno ad affanno; già non mi preoccupo più ormai
di ciò che risponderò a quelli in difesa, ma piuttosto di ciò che risponderò a
Dio riguardo a me stesso e alle mie colpe. Ma ti prego e scongiuro, se alcuna
sollecitudine hai delle mie vicende, se alcuna consolazione in Cristo, se alcun
conforto della carità, se viscere di compassione; ben sai che tu più di tutti
m’hai spinto a questo cimento: porgimi la mano, e non cessare un istante di
dire e operare quanto giovi a indirizzarmi, ma più ancora che pee il passato
intratteniamo la nostra intima conversazione".
"E
io sorridendo: e che potrò io darti, quale aiuto ti potrò fornire per
sopportare il peso di tanto ufficio? ma pur se ciò ti è caro, fa’ animo, o
diletto; nel tempo in cui ti sarà dato respirare da quelle cure, io ti sarò
vicino per confortarti, né alcuna cosa tralascerò di quanto è in mio potere.
A
questo punto quegli più dirottamente piangendo si alzò; io abbracciatolo e
baciatolo in fronte, lo rimandai confortandolo a sopportare fortemente la sua
sorte. Credo, dissi, fidando in Cristo che ti ha chiamato e t’ha preposto alle
sue pecorelle, che da questo ministero ti verrà tanta fiducia, che in quel
giorno accoglierai pur me pericolante nell’eterno tuo tabernacolo.
NOTA:
le citazioni sono spesso riportate, dallo stesso Crisostomo, a memoria,
lievemente modificate o abbreviate per motivi stilistici, nei casi in cui sono
testuali è utilizzata la LXX o la Volgata
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