giovedì 19 dicembre 2013

Lo spirito della Grotta di Betlemme


Betlemme è una piccola cittadina della Palestina, a circa 770 metri di altezza sopra il livello del Mediterraneo. Il suo nome in ebraico, significa “città del pane”. «Ecco – scrive Dom Guéranger – perché il Pane vivo disceso dal cielo (Gv 6, 41) l’ha scelta per manifestarvisi. I nostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti (ivi 6, 49); ma ecco il Salvatore del mondo che viene a sostenere la vita del genere umano per mezzo della sua carne che è veramente cibo (ivi 6, 56)».
Il profeta Michea aveva annunciato che in questa città della tribù di Giuda sarebbe nato il Salvatore del mondo (5, 2 segg.). E Isaia aveva profetato: «Dal tronco di Isai, cioè dalla famiglia di Davide, un giorno spunterà un germoglio e dalla sua radice fiorirà un virgulto, ed in quel giorno la radice di Isai sarà qual vessillo ai popoli» (Isaia 11, 1-10).
All’epoca della nascita di Gesù, in Palestina, soggetta a Roma, regnava Erode, ma con un’autorità limitata. Vero sovrano era l’Imperatore Ottaviano Augusto, all’apice della sua potenza e del suo prestigio. Quando Augusto stabilì un censimento per l’Impero, san Luca attesta che «tutti andavano a farsi registrare ciascuno nella propria città» (Lc 2,3) e siccome Giuseppe era «della casa e della famiglia di Davide, ascese nella Giudea alla città di Davide, che si chiama Betlemme» (Lc 2, 4).
Giuseppe rispettava la legge costituita, anche se mai l’avrebbe anteposta alla legge divina.Quando gli giunse la notizia del censimento non ebbe dubbi sul suo dovere di recarsi nella città natale di Betlemme e di farsi accompagnare nel viaggio, come racconta san Luca, da «Maria sua sposa, la quale era incinta» (Lc 2, 5). San Luca usa il termine “ascese” perché il viaggio per raggiungere Betlemme era lungo e faticoso, specialmente d’inverno, durante la stagione delle piogge. Da Nazareth a Betlemme, si trattava di quattro giorni di cammino, per percorrere 130 chilometri, su una strada montuosa.
Un viaggio che Giuseppe fece a piedi con Maria, con l’aiuto di un asinello su cui erano caricati i loro bagagli. Maria era arrivata al nono mese della sua gravidanza e c’era il rischio di mettere a repentaglio la vita stessa del Figlio Divino. La ragione dell’audace decisione è l’abbandono alla Providenza che sembra caratterizzò la vita di Maria e di Giuseppe. I due sposi non potevano separarsi mentre stava per adempiersi il mistero della Natività. Giuseppe obbedì alla legge dell’Impero e Maria non volle lasciare il padre putativo di Gesù in un momento in cui si avvicinava la nascita del Bambino. Si abbandonarono consapevolmente alla Divina Provvidenza, ma strumento inconsapevole della Divina Provvidenza fu l’Imperatore che fece muovere milioni di uomini, in tutto l’Impero, a servizio di Maria, di Giuseppe e di Gesù, che doveva nascere dove il profeta Michea aveva annunciato: nella città di Betlemme.
Quando Giuseppe e Maria giunsero nella cittadina cercarono di trovare un posto dove alloggiare, ma non lo trovarono, «poiché non v’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2, 7). Il piccolo villaggio era affollato come non mai, a cominciare dal caravanserraglio, un grande spazio a cielo aperto recinto da un muro e formato al suo interno da portici e da stanze che davano sul grande cortile. «Un ammasso di uomini e di bestie, tutto alla rinfusa in cui si cantava, si dormiva, si mangiava» (Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Tipografia poliglotta Vaticana, Roma 1940, p. 274). E’ probabilmente questo il luogo che Luca chiama «l’albergo».
La Madonna e san Giuseppe chiesero probabilmente un luogo appartato, dove poter sostare senza mischiarsi alla confusione, contemplando le cose divine. San Luca dice che «per essi» non c’era posto. Furono forse giudicati fanatici o eccentrici per la loro purezza e il loro spirito di preghiera. Lo spirito del caravanserraglio era uno spirito di confusione e di compromesso. L’ospitalità poteva essere accordata ma solo a condizione di mescolarsi al mondo, al suo frastuono, al suo spirito.
Nel caravanserraglio si discuteva di politica, di affari, di pettegolezzi riguardanti Erode e la sua Corte, ma si era perso l’amore per la verità, per il bene, per la giustizia. Quante ricchezze spirituali avrebbe ottenuto colui che quella notte avesse dato ospitalità al Signore! Quanto sarebbe felice la nostra anima se non chiudesse così spesso la porta alla voce del Signore! Ma l’umanità oggi assomiglia al caravanserraglio, il grande e caotico albergo dove per tutti c’era posto, meno che per la Sacra Famiglia.
Lo sguardo di Giuseppe si posò allora su di una piccola grotta situata un po’ a oriente, sul pendio della collinetta in cima alla quale era costruita l’antica borgata. Serviva da stalla, come tante grotte di quel genere in Palestina e san Luca lo conferma quando parla di una mangiatoia. C’è un contrasto evidente tra la città illuminata, affollata di persone vocianti e il silenzio della grotta. La grotta di Betlemme ricorda le grotte in cui si ritirarono i santi e gli anacoreti che nei secoli rifiutarono il mondo. Ma soprattutto è il simbolo della grotta dell’anima, dell’atteggiamento di raccoglimento interiore che ogni cristiano deve avere di fronte al frastuono del mondo. Fu in questa grotta che nacque il Salvatore e oggi la santa Grotta della Natività  è la gloria di Betlemme.
Nel caos del mondo odierno, chiediamo davanti al Presepio lo spirito della grotta di Betlemme. Lo spirito della grotta non è quello del caravanserraglio, dominato dal caos e indifferente alle cose divine. L’indifferenza talvolta è peggio del vizio: è  la chiusura dell’anima a tutto ciò che è puro, elevato, trascendente. E’ l’ateismo pratico di chi è immerso nei piaceri della vita, nella ricerca del proprio benessere, nelle preoccupazioni del mondo. Gli abitanti di Betlemme non erano come quelli di Sodoma e Gomorra, ma chiusero le porte alla Sacra Famiglia, furono i primi a rigettare Gesù che bussava alle loro porte. Al loro spirito mondano si oppone lo spirito di Betlemme, che è lo spirito con cui Maria e Giuseppe riconobbero nel Bambino Gesù il Re dei Re, il Redentore dell’umanità, il Salvatore del mondo.
Lo spirito di Betlemme è lo spirito di purezza e di intransigenza, è lo spirito di chi è capace di elevarsi, di trascendere le cose del mondo per fondarsi sulla verità e contemplare i misteri divini. Lo spirito di Betlemme è lo spirito degli Angeli, dei Re Magi e dei pastori. Gli Angeli scesero dal cielo per annunciare ai pastori la nascita del Salvatore (Lc 2, 8-14). I pastori erano le creature più semplici. Essi vegliavano nella notte. Custodivano il gregge. Essi sono il simbolo di chi oggi veglia conservando e custodendo la parola di Dio. I Pastori di Betlemme adorarono il Pastore perfetto, l’archetipo di tutti i Pastori, Gesù Buon Pastore, che fin dalla nascita offrì l’olocausto della sua vita per il suo gregge.
Gesù Buon Pastore è il modello di tutti i Pastori della Chiesa che, nel corso dei secoli, vengono così chiamati a sua imitazione ed esempio. Ma quando i pastori abbandonano il gregge o si trasformano in lupi, il gregge dei fedeli deve chiedere lo spirito di semplicità e di fedeltà dei pastori di Betlemme, per non perdere la strada della Grotta, per ritrovare nella santa grotta Gesù bambino, ed adorarlo.
Oggi il mondo è immerso nelle tenebre, e quella che si chiama pastorale ha confuso le idee a molti Pastori della Chiesa. Per questo ci rivolgiamo ai santi pastori di Betlemme, che oggi esultano in Cielo con il Bambino Gesù e chiediamo loro di soccorrere sulla terra un gregge disorientato, di infondere lo spirito di Betlemme in tutti quei fedeli, dall’animo retto, che vogliono incoronare Gesù, Re del mondo, principe e fondatore della pace.
Lo spirito della Grotta di Betlemme

giovedì 5 dicembre 2013

Ambrogio, vescovo; Esposizione dell’Evangelo secondo Luca

Discorso escatologico (Lc 21, 5-33)

Non resterà pietra su pietra che non sia distrutta. Veniva successivamente il passo riguardante la vedova, ma poiché ne abbiamo già trattato nell'opera da noi composta su Le Vedove, ora lo tralasciamo.
Quanto alle parole sopra esposte2, è stato annunziato il vero a proposito del Tempio, costruito da Salomone; esso per prima cosa dev'essere distrutto dai nemici al momento del giudizio;. non c'è nulla, infatti, costruito col lavoro o dalle mani dell'uomo, che gli anni non consumino o la violenza non abbatta o il fuoco non divori. Però c'è anche un altro tempio, edificato con pietre stupende e ornato di privilegi, la cui distruzione sembra che il Signore abbia voluto indicare: voglio dire la Sinagoga dei Giudei, la cui fatiscente costruzione vien demolita quando sorge la Chiesa. E vi è anche un tempio in ciascuno di noi, che crolla quando viene a mancare la fede, e specialmente quando qualcuno adduce falsamente come pretesto il nome di Cristo per espugnare l'intimo affetto.
Ma la spiegazione può anche esser fatta in tal modo da presentare un maggior frutto per me. In realtà a che cosa mi giova conoscere il giorno del giudizio? A che cosa mi giova che venga il Signore, consapevole come sono di peccarti tanto grandi, se Egli non viene nella mia anima, se non fa ritorno nella mia mente, se Cristo non vive in me, se Cristo non parla in me? Per me dunque deve venire Cristo, per me deve realizzarsi la sua venuta. Ora la seconda venuta del Signore giunge quando il mondo viene meno, quando siamo in grado di dire: II mondo è stato crocifisso per me, come io per il mondo.
Ma se un siffatto crollo del mondo sorprende quest'uomo nelle stanze superiori della casa, tanto che il suo soggiorno sia nei Cieli, allora sarà distrutto il tempio corporeo e visibile, la legge corporea, la pasqua corporea e la pasqua visibile, gli azzimi corporei e gli azzimi visibili, oserei dire, perfino, il Cristo di questo mondo, come avvenne a Paolo prima della conversione, poiché, per colui a cui il mondo viene a mancare, il Cristo rimane eterno. Per un uomo cosi il tempio è spirituale, la Legge è spirituale, anche la pasqua è spirituale, poiché Cristo viene ucciso una volta sola; costui si nutre a sazietà degli azzimi che provengono non da una messe terrena, ma dalla messe della giustizia.
Per lui la Sapienza è presente, la Potenza e la giustizia sono presenti, la redenzione è presente; infatti Cristo è morto senza dubbio una volta per sempre, per i peccati del popolo, ma per riscattare ogni giorno i peccati del popolo.
E quando udrete parlare di guerre o avrete notizia di battaglie. Il Signore, essendogli stato domandato quando sarebbe accaduta la distruzione del Tempio e quale fosse il segno della sua venuta, ammaestra circa i segni, ma non pensa di dovere far conoscere il momento. Però Matteo ha aggiunto una terza domanda, facendo si che fosse richiesto dai discepoli sia sul tempo della distruzione del Tempio, sia sul segno della sua venuta, sia su la fine del mondo; Luca invece ha giudicato che ne avremmo saputo abbastanza su la fine del mondo se avessimo appreso per bene quanto riguarda la venuta del Signore.
Ma nessuno più di noi è testimone di queste parole celesti, perché la fine del mondo è sopraggiunta per noi. Di quante guerre abbiamo udito parlare, e di quante notizie di battaglie! Gli Unni sono insorti contro gli Alani, gli Alani contro i Goti, i Goti contro i Taifali e i Sarmati, e nellTlliria i Goti esiliati ci hanno reso esuli della nostra patria; e non è ancora la fine. Quali carestie hanno colpito tutti, e quali pestilenze di buoi e di uomini e di ogni bestiame, al punto che anche se non abbiamo sofferto la guerra, l'epidemia ci ha resi uguali a quanti passano attraverso una guerra! Poiché viviamo nel crepuscolo del mondo, abbiamo, come segni premonitori, i travagli del mondo. Travaglio del mondo è la fame, travaglio del mondo è la peste, travaglio del mondo è la persecuzione.

Ma vi sono anche altre guerre, a cui il cristiano deve far fronte, le battaglie delle contrastanti cupidigie e i conflitti degli istinti, e molto più crudeli sono i nemici di casa nostra che non quelli venuti di fuori. Ora ci pungola l'avarizia, ora ci eccita la libidine, ora ci fa tremare la paura, ora ci sconvolge l'ira, ora ci spinge l'ambizione ora cercano di tentarci gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. In conclusione, si può dire che la mobile sensibilità dell'animo vacillante è incalzata senza "tregua dalle guerre e sconvolta dai terremoti. 

giovedì 21 novembre 2013

RUGĂCIUNILE DIMINEŢII

Sculându-te din somn, fără lene şi cu mintea trează, să te depărtezi de aşternut şi îndată te închină de trei ori, zicând:
Slavă Ţie, Dumnezeul nostru, slavă Ţie.
După aceasta să stai puţin în tăcere, până ce se vor linişti toate simţurile tale şi atunci să faci trei închinăciuni până la pământ şi, de eşti preot, să zici:
Binecuvântat este Dumnenzeul nostru totdeauna, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Iar de nu eşti preot, să zici:
Doamne, Iisuse Hristoase, Fiul lui Dumnezeu, pentru rugăciunile Preacuratei Maicii Tale şi ale tuturor sfinţilor, miluieşte-ne pe noi. Amin.
Şi să zici iarăşi:
Slavă Ţie, Dumnezeul nostru, slavă Ţie.
Împărate ceresc, Mângăietorule, Duhul adevărului, Care pretutindenea eşti şi toate le împlineşti, Vistierul bunătătilor şi dătătorule de viaţă, vino şi Te sălăşluieşte întru noi, şi ne curăţeşte pe noi de toată întinăciunea şi mântuieşte, Bunule, sufletele noastre.
Sfinte Dumnezeule, Sfinte tare, Sfinte fără de moarte, miluieşte-ne pe noi (de 3 ori).
Slavă Tatălui şi Fiului şi Sfântului Duh şi acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Preasfântă Treime, miluieşte-ne pe noi. Doamne, curăţeşte păcatele noastre. Stăpâne, iartă fărădelegile noastre. Sfinte, cercetează şi vindecă neputinţele noastre, pentru numele Tău.
Doamne miluieşte (de 3 ori). Slavă... Şi acum...
Tatăl nostru, Care eşti în ceruri, sfinţească-Se numele Tău, vie împaraţia Ta, fie voia Ta, precum în cer aşa şi pe pământ. Pâinea noastră cea de toate zilele, dă-ne-o nouă astăzi, şi ne iartă nouă greşealele noastre, precum şi noi iertăm greşiţilor noştri. Şi nu ne duce pe noi în ispită, ci ne izbăveşte de cel rău.
Că a Ta este împărăţia şi puterea şi slava, a Tatălui, şi a Fiului, şi a Sfântului Duh. Acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Apoi troparele aceste:
Sculându-ne din somn, cădem către Tine, Bunule, şi cântare îngerească strigăm Ţie, Puternice: Sfânt, Sfânt, Sfânt eşti Dumnezeule; pentru rugăciunile îngerilor Tăi, miluieşte-ne pe noi.
Slavă?
Din pat şi din somn m-ai ridicat, Doamne; mintea mea o luminează, inima şi buzele mele le deschide, ca să Te laud pe Tine, Preasfânta Treime: Sfânt, Sfânt, Sfânt eşti Dumnezeule; pentru rugăciunile tuturor sfinţilor Tăi, miluieşte-ne pe noi.
Şi acum?
Fără de veste Judecătorul va veni şi faptele fiecăruia se vor descoperi, ci cu frică să strigăm în miezul nopţii: Sfânt, Sfânt, Sfânt eşti Dumnezeule; pentru Născătoarea de Dumnezeu, miluieşte-ne pe noi.
Doamne miluieste (de 12 ori), apoi rugăciune aceasta:
Din somn sculându-mă, mulţumescu-Ţi Ţie, Preasfânta Treime, că pentru multă bunătatea Ta şi pentru îndelungă-răbdarea Ta, nu Te-ai mâniat pe mine leneşul şi păcătosul, nici nu m-ai pierdut cu fărădelegile mele, ci ai făcut iubire de oameni după obicei; şi în deznădăjduire zăcând eu, m-ai ridicat, ca să mânec şi să slăvesc puterea Ta. Deci, acum luminează-mi ochii gândului, deschide-mi gura ca să mă învăţ cuvintele Tale, să înţeleg poruncile Tale, să fac voia Ta, să-Ţi cânt în mărturisirea inimii şi să laud preasfânt numele Tău: al Tatălui şi al Fiului şi al Sfântului Duh, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Altă rugăciune:
Slavă Ţie, Împărate, Dumnezeule atotputernice, Care cu purtarea Ta de grijă cea dumnezeiască şi de oameni iubitoare m-ai învrednicit pe mine păcătosul şi nevrednicul, a mă scula din somn şi a dobândi intrare în sfânta casa Ta. Primeşte, Doamne, şi glasul rugăciunii mele, ca şi al sfintelor şi înţelegătoarelor tale Puteri, şi binevoieşte ca, din inimă curată şi cu duh de umilinţă să Ţi se aducă Ţie laudă din necuratele mele buze, ca şi eu să mă fac părtaş fecioarelor celor întelepte, cu luminată făclia sufletului meu, şi să Te slăvesc pe Tine, Dumnezeu-Cuvântul, Cel slăvit în Tatăl şi în Duhul Sfânt. Amin.
Apoi:
Veniţi să ne închinăm Împăratului nostru Dumnezeu.
Veniţi să ne închinăm şi să cădem la Hristos, Împăratul nostru Dumnezeu.
Veniţi să ne închinăm şi să cădem la Însusi Hristos, Împăratul şi Dumnezeul nostru (cu trei închinăciuni).
Apoi îndată Psalmul 50:
Miluieşte-mă, Dumnezeule, după mare mila Ta, şi după mulţimea îndurărilor Tale, şterge fărădelegea mea. Mai vârtos mă spală de fărădelegea mea, şi de ppcatul meu mă curăţeşte. Că fărădelegea mea eu o cunosc, şi păcatul meu înaintea mea este pururea. Ţie Unuia am greşit, şi rău înaintea Ta am făcut, aşa încât drept eşti Tu întru cuvintele Tale şi biruitor când vei judeca Tu. Că iată întru fărădelegi m-am zamislit şi în pacate m-a născut maica mea. Că iată adevărul ai iubit, cele nearătate şi cele ascunse ale înţelepciunii Tale mi-ai arătat mie. Stropi-mă-vei cu isop şi mă voi curăţi, spăla-mă-vei şi mai vârtos decât zăpada mă voi albi. Auzului meu vei da bucurie şi veselie; bucura-se-vor oasele mele cele smerite. Întoarce faţa Ta de către păcatele mele, şi toate fărădelegile mele şterge-le. Inimă curată zideşte întru mine, Dumnezeule, şi Duh drept înnoieşte întru cele dinlăuntru ale mele. Nu mă lepăda de la faţa Ta, şi Duhul Tau cel Sfânt nu-L lua de la mine. Dă-mi mie bucuria măntuirii Tale, şi cu Duh stăpânitor mă întareste. Învăţa-voi pe cei fără de lege căile Tale, şi cei necredincioşi la Tine se vor întoarce. Izbăveşte-mă de vărsarea de sânge Dumnezeule, Dumnezeul mântuirii mele; bucura-se-va limba mea de dreptatea Ta. Doamne, buzele mele vei deschide şi gura mea va vesti lauda Ta. Ca de-ai fi voit jertfă, Ţi-aş fi dat; arderile de tot nu le vei binevoi. Jertfa lui Dumnezeu, duhul umilit; inima înfrântă şi smerită Dumnezeu nu o va urgisi. Fa bine, Doamne, întru bunăvoirea Ta, Sionului, şi să se zidească zidurile Ierusalimului. Atunci vei binevoi jertfa dreptăţii, prinosul şi arderile de tot; atunci vor pune pe altarul Tău viţei.
Apoi
Rugăciunea întâia,
a Sfântului Macarie cel Mare:

Doamne, curăţeşte-mă pe mine păcătosul, că niciodată n-am făcut bine înaintea Ta. Izbăveşte-mă, deci de vicleanul şi fă să fie întru mine voia Ta, ca fără de osândă să deschid gura mea cea nevrednică şi să laud preasfânt numele Tău, al Tatălui şi al Fiului şi al Sfântului Duh, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Rugăciunea a doua,
a Sfântului Macarie cel Mare:

Din somn sculându-mă, cântare de miez de noapte aduc Ţie, Mântuitorule, şi înaintea Ta căzând, strig: Nu mă lăsa să adorm în moartea păcatelor, ci mă miluieşte, Cel ce Te-ai răstignit de voie, şi pe mine, cel ce zac în lene, grăbind mă scoală şi mă mântuieşte, ca să stau înaintea Ta în rugăciuni; iar după somnul nopţii, să-mi luminezi ziua fără de păcat, Hristoase Doamne, şi mă mântuieşte.
Rugăciunea a treia,
a Sfântului Macarie cel Mare:

Sculându-mă din somn, către Tine, Stăpâne, Iubitorule de oameni, scap şi spre lucrurile Tale mă nevoiesc. Mă rog Ţie, ajută-mi cu milostivirea Ta în toată vremea şi în tot lucrul. Izbăveşte-mă de toate lucrurile lumeşti cele rele şi de sporirea diavolească izbăveşte-mă şi mă du întru împărăţia Ta cea veşnică. Că Tu eşti Făcătorul meu şi Purtătorul de grijă şi Dătătorul a tot binele şi în Tine este toată nădejdea mea şi Ţie slavă înalţ, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Rugăciunea a patra,
a Sfântului Macarie cel Mare:

Doamne, Cel ce cu multă bunătatea Ta şi cu îndurările Tale cele mari mi-ai dat mie, robului Tău, de am trecut timpul nopţii acesteia fără ispită de toată răutatea pizmaşului, Tu Însuţi Stăpâne, Făcătorule a toate câte sunt, învredniceşte-mă cu adevărată lumina Ta, ca să fac voia Ta cu inimă luminată, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Rugăciunea a cincea :
Doamne, Dumnezeule, Atotţiitorule, Care primeşti de la puterile Tale cele cereşti cântarea Sfintei Treimi, primeşte şi de la noi, nevrednicii robii Tăi, cântarea Sfintei Treimi şi ne dăruieşte ca, în toţi anii vieţii noastre şi în tot ceasul, Ţie slavă să-Ţi înălţăm: Tatălui şi Fiului şi Sfântului Duh, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Rugăciunea a şasea :
Doamne Atotţiitorule, Dumnezeul puterilor şi a tuturor trupurile, Care între cele de sus locuieşti şi spre cele de jos priveşti; Cel ce ispiteşti inimile şi rărunchii şi tainele oamenilor le ştii cu adevărat; Lumină fără de început şi pururea fiitoare, în care nu este mutare sau umbră de schimbare; Însuţi, Împărate fără de moarte, primeşte rugăciunile noastre pe care le aducem Ţie din gurile noastre cele necurate, în aceast ceas al nopţii, îndrăznind pentru mulţimea milelor Tale. Lasă nouă greşelile ce am greşit înaintea Ta, cu cuvântul, cu lucrul, din ştiinţă şi din neştiinţă. Curăteşte-ne pe noi de toate întinăciunile trupeşti şi sufleteşti, făcându-ne pe noi casă cinstitului şi Sfântului Tău Duh. Şi ne dăruieşte nouă cu inima veghetoare şi curată să trecem toată noaptea acestei vieţi, aşteptând luminata şi sfânta zi a Unuia-Născut Fiului Tău, a Domnului Dumnezeului şi Mântuitorului nostru Iisus Hristos, când va veni pe pământ cu slavă să judece pe toţi şi să plătească fiecăruia după faptele lui. Ca să nu fim aflaţi zăcând şi dormitând, ci priveghind şi sculaţi în lucrarea poruncilor Lui şi să fim gata a intra în bucuria şi cămara slavei Lui celei dumnezeieşti, unde este glasul cel neîncetat celor ce Te laudă şi nespusa dulceaţă celor ce văd pururea frumuseţea cea nespusă a slavei Tale. Că Tu eşti lumina cea adevărată, Care luminezi şi sfinţeşti toate, şi pe Tine Te laudă toată făptura în veci. Amin.
Rugăciunea a şaptea :
Pe Tine Te binecuvântăm, Dumnezeule preaînalte şi Doamne al milelor, Cel ce faci cu noi pururea lucruri mari şi cu anevoie de urmat, slăvite şi prea minunate, care nu au număr. Cel ce ne-ai dat nouă somn spre odihna nepuţintelor noastre şi spre repaos de ostenelile trupului, mulţumindu-Ţi că nu ne-ai pierdut pe noi cu fărădelegile noastre, ci după obicei Te-ai arătat iubitor de oameni şi ne-ai ridicat pe noi a mâneca şi a slăvi stăpânirea Ta. Pentru aceea ne rugăm bunătăţii Tale celei neasemanate: luminează ochii gândului nostru şi ridică mintea noastră din somnul cel greu al lenei şi ne deschide gura noastră şi o umple de laudele Tale, ca să putem în liniste a cânta, a striga şi a ne mărturisi pururea Ţie: Dumnezeului Celui slăvit în toate şi de toţi, Tatălui Celui fără de început, împreună şi Unuia-Născut Fiului Tău, şi Preasfântului şi bunului şi de viaţă făcătorului Tău Duh, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Rugăciunea a opta,
a Sfântului Ioan Gură de Aur:

După numărul ceasurilor nopţii şi ale zilei:
Pentru ceasurile nopţii:
Doamne, nu mă lipsi pe mine de binele Tău cel ceresc. Doamne, izbăveşte-mă de chinurile cele veşnice. Doamne, de am greşit fie cu mintea, fie cu gândul, sau cu cuvântul, sau cu lucrul, iartă-mă. Doamne, izbăveşte-mă de toată neştiinţa şi uitarea, de neîndrăznirea şi de nesimţirea cea împietrită. Doamne, izbaveşte-mă de toată ispitirea. Doamne, luminează-mi inima pe care a întunecat-o pofta cea rea. Doamne, eu ca un om am greşit, iar Tu ca un Dumnezeu îndurător, miluieşte-mă, văzând neputinţa sufletului meu. Doamne, trimite mila Ta în ajutorul meu, ca să preaslavesc preasfânt numele Tău. Doamne Iisuse Hristoase, scrie-mă pe mine, robul Tău, în cartea vieţii şi-mi dăruieşte sfârşit bun. Doamne Dumnezeul meu, deşi n-am facut nici un bine inaintea Ta, dă-mi, după harul Tău, să pun început bun. Doamne, stropeşte inima mea cu roua harului Tău. Doamne al cerului şi al pământului, pomeneşte-ma pe mine, păcătosul, ruşinatul şi necuratul robul Tău, întru împaraţia Ta. Amin.
Pentru ceasurile zilei:
Doamne, primeşte-mă întru pocăinţă. Doamne, nu mă lăsa pe mine. Doamne, nu mă duce pe mine în ispită. Doamne, dă-mi cuget bun. Doamne, dă-mi lacrimi şi aducere aminte de moarte şi umilinţă. Doamne, dă-mi cuget să mărturisesc toate păcatele mele. Doamne, dă-mi smerenie, curăţie şi ascultare. Doamne, dă-mi răbdare şi voie nebiruită şi blândeţe. Doamne, sădeşte în mine rădăcina bunătăţilor şi frica Ta în inima mea. Doamne, învredniceşte-mă să Te iubesc cu tot sufletul şi gândul meu şi să fac în toate voia Ta. Doamne, apără-mă de oamenii gâlcevitori, de diavoli, de patimile trupeşti şi de toate celelalte lucruri necuvioase. Doamne, ştiu că faci precum vrei Tu, deci să fie şi întru mine, păcătosul, voia Ta, că binecuvântat eşti în veci. Amin.
Rugăciunea a noua,
către sfântul înger, păzitorul vieţii:

Îngerule cel sfânt al lui Hristos, către tine cad şi mă rog, păzitorul meu cel sfânt, care eşti dat mie de la Sfântul Botez spre păzirea sufletului şi a păcătosului meu trup. Iar eu, cu lenea mea şi cu obiceiurile mele cele rele, am mâniat preacurată lumina ta şi te-am izgonit de la mine prin toate lucrurile cele de ruşine: cu minciunile, cu clevetirile, cu pizma, cu osândirea, cu trufia, cu neplecarea, cu neiubirea de fraţi şi cu ţinerea de minte a răului, cu iubirea de argint, cu desfrânarea, cu mânia, cu scumpetea, cu mâncarea cea fără de saţ, cu beţia, cu multa vorbire, cu gândurile cele rele şi viclene, cu obiceiurile cele rele şi cu aprinderea spre desfrânare, având osebită voire spre toată pofta cea trupească. O, rea voire a mea, pe care nici dobitoacele cele necuvântatoare nu o au! Dar cum vei putea să cauţi spre mine sau să te apropii de mine, cel necurat? Sau cu ce ochi, îngerule al lui Hristos, vei căuta spre mine, cel ce m-am încurcat aşa rău în lucrurile cele întinate? Sau cum voi putea să-mi cer iertare pentru faptele mele cele amare, rele şi viclene, în care cad în toate zilele şi nopţile şi în tot ceasul? De aceea cad înaintea ta şi mă rog, păzitorul meu cel sfânt, milostiveşte-te spre mine, păcătosul şi-mi fii mie într-ajutor şi sprijinitor asupra pizmaşului meu celui rău, cu sfintele tale rugăciuni, şi împărăţiei lui Dumnezeu mă fă părtaş, cu toţi sfinţii, acum şi pururea şi în vecii vecilor. Amin.
Rugăciunea a zecea,
către Preasfânta Născătoare de Dumnezeu:

Preasfântă Stăpâna mea de Dumnezeu Născătoare, cu sfintele şi preaputernicele tale rugăciuni izgoneşte de la mine, smeritul şi ticălosul robul Tău, deznădăjduirea, uitarea, necunoştinţa, nepurtarea de grijă şi toate gândurile cele întinate, cele rele şi hulitoare de la ticăloasa mea inimă şi de la întunecata mea minte. Şi stinge văpaia poftelor mele, că sărac sunt şi ticălos. Şi mă izbăveşte de multe rele şi aduceri-aminte şi năravuri, şi de toate faptele cele rele mă slobozeşte. Că binecuvântată eşti de toate neamurile, preacinstitul tău nume se slăveşte în vecii vecilor. Amin.
Altă rugăciune către Preasfânta Născătoare
de Dumnezeu:

Împărăteasa mea prea bună şi nadejdea mea, Născătoare de Dumnezeu, primitoarea săracilor şi ajutătoarea străinilor, bucuria celor mâhniţi, acoperirea celor necăjiţi, vezi nevoia mea, vezi necazul meu; ajută-mă ca pe un neputincios, hrăneşte-mă ca pe un străin. Necazul meu îl ştii; dezleagă-l precum vrei, ca n-am alt ajutor afară de tine, nici altă folositoare grabnică, nici altă mângâietoare bună afară de tine, Maica lui Dumnezeu, ca să mă păzeşti şi să mă acoperi în vecii vecilor. Amin.
Apoi:
Cuvine-se cu adevărat să te fericim, Născătoare de Dumnezeu, cea pururea fericită şi prea nevinovată şi Maica Dumnezeului nostru. Ceea ce eşti mai cinstită decât heruvimii şi mai marită fără de asemănare decât serafimii, care fără stricăciune pe Dumnezeu-Cuvântul ai născut, pe tine, cea cu adevărat Născătoare de Dumnezeu, te mărim.
Slavă... Şi acum... Doamne miluieşte (de 3 ori). Părinte, binecuvintează, şi otpustul.
Ceaslov



"Non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta" (Lc 21,6).

Seguiva l`argomento relativo alla vedova; ma siccome ne abbiamo già parlato nel libro che abbiamo scritto sulle vedove (cf. Lc 21,1-4), tralasciamo il commento di questo passo.
Quanto alle parole che dice ora, esse rispondevano a verità per il tempio costruito da Salomone, e che per primo doveva essere distrutto dal nemico all`epoca del giudizio: non c`è infatti opera umana che la vetustà non corrompa, o che la violenza non distrugga, o che il fuoco non consumi. Ma c`è anche un altro tempio, costruito di belle pietre e ornato di doni, di cui il Signore sembra indicare la distruzione: la sinagoga dei Giudei, il cui invecchiato edificio va in rovina al sorgere della Chiesa. E c`è anche un tempio in ciascuno di noi, che crolla se viene a mancare la fede; soprattutto quando si ostenta il nome di Cristo per impadronirsi dei sentimenti interiori.
Può darsi che questa interpretazione sia la piú utile per me. Che mi gioverebbe, infatti, conoscere il giorno del giudizio? A che mi serve, avendo io coscienza di tutti i miei peccati, che il Signore venga, se non viene nella mia anima, se non torna nel mio spirito, se Cristo non vive in me e non parla in me? E` a me che Cristo deve venire, è per me che deve realizzarsi il suo avvento.
Orbene, il secondo avvento del Signore ha luogo alla fine del mondo, allorché noi possiamo dire: "Per me il mondo è crocifisso, e io per il mondo" (Gal 6,14).
Se la fine del mondo trova quest`uomo sul tetto della sua casa (cf. Mt 24,17), e tale che la sua vita sia nei cieli (cf. Fil 3,20), allora sarà distrutto il tempio corporale e visibile, la legge corporale, la pasqua corporale, la pasqua visibile, gli azzimi corporali e visibili; e oso dire anche il Cristo temporale, quale egli era per Paolo prima che l`Apostolo credesse (cf. Gal 6,14): Cristo infatti è eterno per colui che è morto al mondo; per costui il tempio, la legge, la pasqua sono spirituali, poiché Cristo muore una sola volta (cf. Rm 7,14); costui mangia gli azzimi (cf. 1Cor 5,8), non provenienti dai frutti della terra, ma da quelli della giustizia.
Per lui si realizza la presenza della sapienza, la presenza della virtù e della giustizia, la presenza della redenzione: infatti "Cristo è morto una sola volta per i peccati" (1Pt 3,18) del popolo, ma allo scopo di riscattare ogni giorno il popolo dai suoi peccati.


(Ambrogio, In Luc., 10, 6-8) 

martedì 19 novembre 2013

Concilio di Calcedonia o IV Ecumenico

Nel 451, l'Imperatore Marciano convocò a Calcedonia, nel tempio della Santa Eufemia, di fronte a Costantinopoli una nuova riunione di vescovi, che la Chiesa di Costantinopoli e l'Occidente considerarono come il quarto concilio generale. Nel concilio parteciparono 600 vescovi. Presidenti erano i rappresentati del papa di Roma Leone, due vescovi e due sacerdoti. Il sinodo ha deposto e scomunicato Eutiche. Ha pure deposto Dioscoro patriarca di Alessandria.   Il concilio, ha respinto la posizione monofisita che sosteneva l'unione in una della due nature di Cristo. In realtà i monofisiti parlavano di una persona di Cristo. Ma siccome ancora non era una distinzione fra natura e persona, insistevano che Lui aveva anche una natura. La naura divina di Cristo e la sua natura umana erano fuse in una, secondo loro. I vescovi acclamarono il Tomo di San Leone il Grande, Papa di Roma (morto nel 461), in cui c'è una netta distinzione fra natura e persona. Per cui chi afferma due natura in Cristo, avrebbe potuto facilmente dire che Lui aveva solo una persona. Nella loro proclamazione di fede essi dichiararono la loro fede in 'uno e lo stesso Figlio, perfetto nella Divinità e perfetto nell'umanità, veramente Dio e veramente uomo... riconosciuto in due nature senza confusione, senza cambiamento, senza divisione e senza separazione; la differenza tra le nature non è in alcun modo rimossa a causa dell'unione, ma piuttosto si mantiene la peculiare proprietà di ciascuna natura, ed entrambe si combinano in una persona e in una ipostasi'. La Definizione di Calcedonia, si può notare, si rivolge non solo ai monofisiti ('in due nature senza confusione, senza cambiamento'), ma anche ai seguaci di Nestorio ('uno e lo stesso Figlio... senza divisione e senza separazione').
Ma Calcedonia è anche importante per Il Canone XXIII. Questo canone  confermò il Canone III di Costantinopoli, assegnando alla Nuova Roma il posto di onore dopo quello della Roma Antica. Leone respinse questo Canone, ma l'oriente da quel momento ha sempre riconosciuto la sua validità. Il concilio liberò pure Gerusalemme dalla giurisdizione di Cesarea e le diede il quinto posto tra le grandi sedi. Il sistema noto in seguito tra gli ortodossi con il nome di Pentarchia era ora completo: in esso cinque grandi sedi nella Chiesa erano tenute in particolare onore, e un ordine definito di precedenza fu stabilito tra loro: in ordine di rango, Rome, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Tutte e cinque vantavano fondazione apostolica. Le prime quattro erano le città più importanti dell'Impero Romano; la quinta fu aggiunta perché si trattava del luogo dove Cristo aveva sofferto sulla Croce ed era risorto dai morti. Il vescovo di ciascuna di queste città ricevette il titolo di Patriarca. I cinque Patriarcati divisero tra loro in sfere di giurisdizione l'intero mondo conosciuto, a parte Cipro, a cui il Concilio di Efeso accordò l'indipendenza che ha mantenuto fin d'allora

LETTERA DI PAPA LEONE, A FLAVIANO VESCOVO DI COSTANTINOPOLI SU EUTICHE

Letta la lettera della Tua Dilezione (e ci meravigliamo che sia stata scritta così tardi), e scorso l'ordine degli atti dei vescovi, finalmente abbiamo potuto renderci conto dello scandalo sorto fra voi contro l'integrità della fede. Quello che prima sembrava oscuro, ci appare in tutta la sua chiarezza. Eutiche, che pareva degno di onore per la sua dignità di sacerdote, ora ne balza fuori come molto imprudente ed incapace. Si potrebbe applicare anche a lui la parola del profeta: Non volle capire per non dover agire rettamente. Ha meditato l'iniquità nel suo cuore (1).
Che vi può essere infatti di peggio, che essere empio e non volersi sottomettere ai più saggi e ai più dotti? Cadono in questa stoltezza quelli che, quando incontrano qualche oscura difficoltà nella conoscenza della verità, non ricorrono alle testimonianze dei profeti, alle lettere degli apostoli o alle affermazioni dei Vangeli, ma a se stessi, e si fanno, quindi, maestri di errore proprio perché non hanno voluto essere discepoli della verità. Quale conoscenza può avere dalle pagine sacre del nuovo e dell'antico Testamento chi non sa comprendere neppure i primi elementi del Simbolo? Ciò che viene espresso in tutto il mondo dalla voce di tutti i battezzandi non è ancora compreso dal cuore di questo vecchio.
Non sapendo perciò quello che dovrebbe pensare sulla incarnazione del Verbo di Dio, e non volendo applicarsi nel campo delle sacre scritture per attingervi luce per l'intelligenza, avrebbe almeno dovuto ascoltare con attenzione la comune e unanime confessione, con cui l'insieme dei fedeli professa di credere in Dio padre onnipotente, e in Gesù Cristo suo unico figlio, nostro signore, nato dallo Spirito santo e da Maria vergine: tre affermazioni da cui vengono distrutte le costruzioni di quasi tutti gli eretici. Se infatti si crede che Dio è onnipotente e padre, si dimostra con ciò che il Figlio è a lui coeterno, in nessuna cosa diverso dal Padre, perché è Dio nato da Dio, onnipotente da onnipotente, coeterno da eterno; e non è a lui posteriore nel tempo, inferiore per potenza, dissimile nella gloria, diverso per essenza. Questo eterno unigenito dell'eterno padre, inoltre, è nato dallo Spirito santo e da Maria vergine; e questa nascita nel tempo non ha tolto nulla, come nulla ha aggiunto, a quella divina ed eterna nascita, ma fu consacrata interamente alla redenzione dell'uomo, che era stato ingannato,- e a vincere la morte, e a distruggere col suo potere il diavolo, che aveva il dominio della morte (2). Noi non avremmo potuto vincere l'autore del peccato e della morte, se non avesse assunto e fatta sua la nostra natura colui che il peccato non avrebbe potuto contaminare e la morte avere in suo dominio. Egli infatti fu concepito dallo Spirito santo nel seno della vergine Madre, che lo diede alla luce nella sua integrità verginale, così come senza diminuzione della sua verginità l'aveva concepito.
Se poi Eutiche, non era capace di attingere da questa purissima fonte della fede cristiana il genuino significato, perché aveva oscurato lo splendore di una verità così evidente con la propria cecità, avrebbe dovuto sottomettersi alla dottrina del Vangelo. Matteo dice: Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo (3). Egli avrebbe dovuto consultare anche l'insegnamento della predicazione apostolica; e leggendo nella lettera ai Romani: Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato apostolo, scelto Per la predicazione del Vangelo di Dio, che aveva già Promesso attraverso i Profeti nelle sacre scritture riguardo al Figlio suo, che gli è nato dalla stirpe di David, secondo la carne (4), avrebbe dovuto rivolgere la sua pia considerazione alle pagine dei profeti. Imbattendosi nella promessa di Dio ad Abramo, quando dice: nella tua discendenza saranno benedette tutte le genti (5), per non dover dubitare della identità di questa discendenza, avrebbe dovuto seguire l'apostolo, che dice: Le Promesse sono state fatte ad Abramo e alla sua discendenza (6). Non dice: ai suoi discendenti, quasi che fossero molti; ma, quasi che fosse una: alla sua discendenza, che è Cristo. Avrebbe anche compreso con l'udito interiore la profezia di Isaia, quando dice: Ecco, una vergine concepirà nel suo seno e darà alla luce un figlio, e lo chiameranno Emmanuele, che viene interpretato Dio Con noi (7). Ed avrebbe letto con fede le parole dello stesso profeta: Ci è nato un fanciullo, ci è stato dato un figlio, il suo potere sarà sulle sue spalle. E lo chiameranno: angelo di somma prudenza, Dio forte, principe della Pace, Padre del secolo futuro (8); e non direbbe con inganno che il Verbo si è fatto carne in tal modo, che Cristo, nato dalla Vergine, avesse bensì la forma di un uomo, ma non la realtà del corpo di sua madre. Forse egli può aver pensato che nostro signore Gesù Cristo non aveva la nostra natura per il fatto che l'angelo mandato alla beata vergine Maria disse: Lo Spirito santo scenderà su di te, e la forza dell'Altissimo li coprirà della sua ombra. E perciò l'essere santo che nascerà da te sarà chiamato figlio di Dio (9), quasi che, dato che il concepimento della Vergine fu effetto di un'operazione divina, il corpo da essa concepito non provenisse dalla natura di chi lo concepiva. Non così dev'essere intesa quella generazione singolarmente mirabile e mirabilmente singolare, come se per la novità della creazione sia stato annullato ciò che è proprio del genere (umano). Ora, lo Spirito santo rese feconda la Vergine, ma la realtà del corpo proviene dal corpo. E mentre la sapienza si edificava una casa (10), il Verbo si fece carne e pose la sua dimora fra noi (11), con quella carne, cioè, che aveva assunta dall'uomo, e che lo spirito razionale animava.
Salva quindi la proprietà di ciascuna delle due nature, che concorsero a formare una sola persona, la maestà si rivestì di umiltà, la forza di debolezza, l'eternità di ciò che è mortale; e per poter annullare il debito della nostra condizione, una natura inviolabile si unì ad una natura capace di soffrire; e perché, proprio come esigeva la nostra condizione, un identico mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù (12) potesse morire secondo una natura, non potesse morire secondo l'altra. Nella completa e perfetta natura di vero uomo, quindi, è nato il vero Dio, completo nelle sue facoltà, completo nelle nostre. Quando diciamo "nostre", intendiamo quelle facoltà che il creatore mise. in noi da principio, e che ha assunto per restaurarle. Quegli elementi, infatti, che l'ingannatore introdusse, e che l'uomo, ingannato, accettò, non lasciarono alcuna traccia nel Salvatore. Né perché volle partecipare a tutte le umane miserie, fu anche partecipe dei nostri peccati. Egli prese la forma di servo (13) senza la macchia del peccato, elevando ciò che era umano, senza abbassare ciò che era divino; perché quell'abbassamento per cui egli da invisibile si fece visibile, e, pur essendo creatore e signore di tutte le cose, volle essere dei mortali, fu condiscendenza della misericordia non mancanza di potenza.
Perciò chi rimanendo nella forma di Dio fece l'uomo, si fece uomo nella forma di servo. Ciascuna natura, infatti, conserva senza difetto ciò che le è proprio. E come la natura divina non sopprime quella di servo, così la natura di servo non porta alcun pregiudizio a quella divina. Il diavolo, infatti, si gloriava che l'uomo, ingannato dalla sua frode, aveva perduto i doni divini; che era stato spogliato della dote dell'immortalità ed era andato incontro ad una dura sentenza di morte; che, quindi, egli, il diavolo, nei suoi mali aveva trovato un certo conforto nella comune sorte del prevaricatore; e che anche Dio, secondo la esigenze della giustizia verso l'uomo (quell'uomo che aveva innalzato a tanto onore, creandolo) aveva dovuto mutare il suo disegno. Fu necessario, allora, che, nell'economia del suo segreto consiglio, Dio, che è immutabile, e la cui volontà non può esser privata della stia innata bontà, completasse per così dire il primitivo disegno della sua benevolenza verso di noi con un misterioso e più profondo piano divino, e così l'uomo, spinto alla colpa dall'inganno della malvagità diabolica, non perisse contro il disegno di Dio.
Il Figlio di Dio, scendendo dalla sede dei cieli senza cessare di essere partecipe della gloria del Padre, fa l'ingresso in questo basso mondo, generato secondo un ordine ed una nascita del tutto nuovi: secondo un ordine nuovo, perché invisibile nella sua natura divina, si fece visibile nella nostra; perché incomprensibile, volle esser compreso; fuori del tempo, cominciò ad esistere nel tempo; Signore di tutte le cose, assunse la natura di servo, nascondendo l'immensità della sua maestà; incapace di soffrire perché Dio, non disdegnò di farsi uomo soggetto alla sofferenza, infine, perché immortale, volle sottoporsi alle leggi della morte. Generato secondo una nuova nascita, perché la verginità inviolata non conobbe passione e somministrò la materie della carne. Dalla madre il Signore ha assunto la natura non la colpa. E nel signore nostro Gesù Cristo, generato dal seno della Vergine, la nascita ammirabile non rende la natura dissimile dalla nostra. Colui, infatti, che è vero Dio, quegli è anche vero uomo. In questa unione non vi è nulla di incongruente, trovandosi insieme contemporaneamente la bassezza dell'uomo e l'altezza della divinità.
Come, infatti, Dio non muta per la sua misericordia, così l'uomo non viene annullato dalla dignità divina. Ognuna delle due nature, infatti, opera insieme con l'altra ciò che le è proprio: e cioè il Verbo, quello che è del Verbo; la carne, invece, quello che è della carne. L'uno brilla per i suoi miracoli, l'altra sottostà alle ingiurie. E come al Verbo non viene meno l'uguaglianza nella gloria paterna, così la carne non abbandona la natura umana. La stessa e identica persona, infatti, - cosa che dobbiamo ripetere spesso - è vero figlio di Dio e vero figlio dell'uomo: Dio, per ciò, che in principio esisteva il Verbo: e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio (14); uomo, per ciò, che: il Verbo si fece carne e stabilì la sua dimora fra noi (15); Dio, perché tutte le cose sono state fatte per mezzo suo, e senza di lui nulla è stato fatto (16), uomo, perché nacque da una donna sottoposto alla legge (17).La nascita della carne manifesta l'umana natura; il parto di una Vergine è segno della divina potenza. L'infanzia del bambino è attestata dall'umile culla; la grandezza dell'Altissimo è proclamata dalle voci degli angeli. Nel suo nascere è simile agli altri uomini quegli che Erode tenta ampiamente di uccidere; ma è Signore di ogni cosa quello che i Magi godono di poter adorare prostrati. Già quando si recò dal suo precursore Giovanni per il battesimo, perché non restasse nascosto che sotto il velo della carne si celava la divinità, la voce del Padre, tonando dal cielo, disse: Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto (18). A colui, perciò, che l'astuzia del demonio tentò come uomo, a lui come ad un Dio rendono i loro uffici gli angeli. Aver fame, aver sete, stancarsi e dormire, evidentemente è proprio degli uomini; ma saziare cinquemila uomini (19) con cinque pani, dare alla samaritana l'acqua viva, che produca l'effetto in chi beve di non aver più sete (20); camminare (21) sul dorso del mare senza che i piedi sprofondino, e render docili (22) i flutti furiosi (23) dopo aver rimproverato la tempesta: tutto ciò senza dubbio è cosa divina. Come, quindi, per tralasciare molte cose, non è della stessa natura piangere con affetto pietoso un amico morto (24) e richiamarlo alla vita (25), redivivo, al solo comando della voce, tolta di mezzo la pietra di una tomba chiusa già da quattro giorni; o pendere dalla croce e sconvolgere gli elementi della natura, trasformando la luce in tenebre; o essere trapassato (26) dai chiodi e aprire le porte del paradiso alla fede del ladrone (27); così non è della stessa natura dire: Io e il Padre siamo una cosa sola (28), e dire: Il Padre è maggiore di me (29). Quantunque, infatti, nel signore Gesù Cristo vi sia una sola persona per Dio e per l'uomo, altro però è l'elemento da cui sgorga per l'uno e per l'altro l'offesa, altro ciò da cui promana per l'uno e l’altro la gloria. Dalla nostra natura egli ha un'umanità inferiore al Padre; dal Padre gli deriva una divinità uguale a quella del Padre.
Proprio per questa unità di persona, da intendersi come propria di ognuna delle due nature, si legge che il Figlio dell'uomo discese dal cielo, mentre fu il Figlio di Dio che assunse la carne dalla Vergine da cui è nato; e, d'altra parte, si dice che il Figlio di Dio fu crocifisso e sepolto, quantunque non abbia subito questo nella stessa divinità, per cui l'unigenito è coeterno e consostanziale al Padre, ma nella infermità della natura umana. Proprio per questo confessiamo tutti anche nel Simbolo che il Figlio unigenito di Dio è stato crocifisso e sepolto, secondo le parole dell'apostolo: Se infatti l'avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria (30). E lo stesso nostro Signore e Salvatore, volendo istruire con le sue domande i discepoli nella fede: Chi dicono gli uomini, disse, che sia il Figlio dell'uomo? Essi riferiscono le varie opinioni degli altri. E voi, riprese, chi dite che io sia? (31): io, che sono il Figlio dell’uomo, e che voi vedete sotto l'aspetto di un servo e nella verità della carne, chi dite che sia? Fu allora che S. Pietro divinamente ispirato e destinato a giovare a tutti i popoli con la sua confessione, Tu sei il Cristo, disse, il Figlio del Dio vivo (32). E bene a ragione fu chiamato beato dal Signore; e dalla pietra principale trasse la solidità della virtù e del nome, lui che per rivelazione del Padre riconobbe in lui il Figlio di Dio e il Cristo, poiché accettare una cosa senza l'altra, non avrebbe giovato alla salvezza. E vi era uguale pericolo nel credere che il signore Gesù Cristo fosse o solo Dio, senza essere uomo, o uomo soltanto, senza che fosse anche Dio.
Dopo la resurrezione del Signore, poi, che avvenne certamente nel vero corpo, poiché non altri risuscitò se non quegli che era stato crocifisso ed era morto, che altro Egli fece, nello spazio di quaranta giorni, se non rendere pura ed integra la nostra fede da ogni errore? Per questo Egli parlava con i suoi discepoli e, vivendo e mangiando con essi (33), permetteva loro, scossi com'erano dal dubbio, di avvicinarlo e di avere frequentemente contatto con lui, entrò a porte chiuse dai discepoli e col suo soffio diede loro lo Spirito santo (34); e donava luce all'intelligenza e svelava (35) il senso misterioso e profondo delle sacre Scritture; e mostrava (36) ripetutamente la stessa ferita del suo fianco, e i fori dei chiodi, e tutti i segni della recentissima passione, dicendo: Guardate le mie mani e i miei piedi: sono io, toccate: uno spirito non ha carne ed ossa, Come voi invece vedete che io ho (37) perché si potesse costatare che le proprietà della natura divina e di quella umana rimanevano in lui; e così sapessimo che il Verbo non è la stessa cosa che la carne, e confessassimo che il Verbo e la carne costituiscono un solo Figlio di Dio.
Dinanzi a questo sacramento della fede Eutiche si dimostra ben sprovvisto, egli che nell'Unigenito di Dio né attraverso l'umiltà di uno stato soggetto alla morte, né attraverso la gloria della resurrezione ha riconosciuta la nostra natura; né è restato scosso dalle parole del beato Giovanni, apostolo ed evangelista, quando dice: Chiunque confessa che Gesù Cristo è apparso nella carne, è da Dio. E chiunque divide Gesù, non è da Dio; anzi è l'anticristo (38). E che cos'è dividere Gesù, se non separare da lui la natura umana e con vanissime ciance annullare il mistero per cui soltanto siamo stati salvati? Inoltre, chi brancola nelle tenebre per quanto riguarda la natura del corpo di Cristo, bisogna per forza che vaneggi con la stessa cecità anche per quanto riguarda la sua passione. Se, infatti, non ritiene falsa la croce del Signore e non dubita che sia stata vera la morte, accettata per la salvezza del mondo, dovrà pure ammettere la carne di chi crede essere morto. Né potrà rifiutarsi di ammettere che sia stato uomo con un corpo simile al nostro colui che riconosce avere sofferto. Perché negare la verità della carne, è negare la realtà della passione corporea.
Se, quindi, egli accetta la fede cristiana, e non trascura di ascoltare la parola del Vangelo, consideri quale natura, trapassata dai chiodi, sia stata appesa sul legno della croce, e il fianco del crocifisso squarciato dalla lancia; da dove sia sgorgato il sangue e l'acqua (39), perché la chiesa di Dio fosse irrigata da un lavacro e da una fonte. Ascolti il beato apostolo Pietro predicare che la santificazione avviene con l'aspersione del sangue di Cristo (40). Legga, riflettendo, le espressioni dello stesso apostolo, quando dice: Sappiate che non siete stati redenti con l'oro e con l'argento, cose che periscono, dal vostro vano modo di vivere secondo la tradizione dei Padri, ma dal sangue prezioso di Gesù Cristo, agnello Puro ed immacolato (41). E non resista neppure alla testimonianza del beato apostolo Giovanni, che dice: Il sangue di Gesù, figlio di Dio, ci purifica da ogni Peccato (42). Ed anche: Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che Gesù è il figlio di Dio? A lui che è venuto attraverso l'acqua e il sangue, Gesù Cristo,- non nell'acqua solo, ma nell'acqua e nel sangue. Ed è lo Spirito a rendere testimonianza, Poiché lo Spirito è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue. E questi tre sono una cosa sola (43). Naturalmente si deve intendere dello spirito di santificazione, del sangue della redenzione, dell'acqua del battesimo: tre cose che sono una stessa cosa, eppure conservano la loro individualità, e nessuna di esse è separata dalle altre. Perché la chiesa cattolica vive e progredisce di questa fede: che nel Cristo Gesù non vi è umanità senza vera divinità, né divinità senza vera umanità.
Esaminato e interrogato da voi Eutiche rispose: "Confesso che Nostro Signore avesse due nature prima della loro unione; ma che ne avesse una sola dopo l'unione", mi meraviglio come una professione di fede così assurda e perversa non abbia trovato nei giudici una severa riprensione; e che un discorso così sciocco sia potuto passare come se non contenesse nulla di offensivo. Eppure è ugualmente empia l'affermazione: che l'unigenito Figlio di Dio prima dell'incarnazione abbia avuto due nature, e l'altra affermazione: che dopo che il Verbo si è fatto carne, vi sia stata in lui una sola natura.
Perché, dunque Eutiche non debba credere di avere fatto questa affermazione o conforme a verità, o almeno tollerabilmente (per il fatto che non sia stato confutato da nessuna sentenza in contrario), noi esortiamo il tuo amore sempre sollecito, fratello carissimo, perché, se per grazia della misericordia di Dio la causa si va risolvendo in modo soddisfacente, l'imprudenza di un uomo così ignorante sia purificata anche da questa peste del suo pensiero. Egli, come documenta la relazione degli atti, aveva rettamente cominciato a rinunziare alle sue idee quando, costretto dalla vostra sentenza, affermava di ammettere quanto prima non ammetteva, e di aderire a quella fede, da cui prima si era mostrato alieno. Ma per il fatto che egli non volle dare il suo assenso quando si trattò di condannare l'empia dottrina, la fraternità vostra ben comprese che egli rimaneva nella sua perfida opinione, ed era degno di ricevere un giudizio di condanna. Se quindi egli sinceramente ed utilmente si pente di tutto ciò, e riconosce, benché tardi, con quanta ragione si sia mossa l'autorità dei vescovi, se a piena soddisfazione egli condannerà a viva voce e firmando di sua mano tutti i suoi errori, nessuna misericordia, per quanto grande, sarà degna di biasimo. Nostro Signore, infatti, vero e buon pastore, che diede la sua vita per le pecore, e che venne a salvare le anime degli uomini, non a perderle, desidera che noi siamo imitatori della sua pietà. E se la giustizia deve reprimere chi manca, la misericordia non può respingere chi si converte. E’ allora, infatti, che la vera fede è difesa con abbondantissimo frutto, quando l'errore viene condannato anche da quelli che lo sostengono.
Per condurre a termine piamente e fedelmente la questione, abbiamo mandato come nostri rappresentanti i nostri fratelli Giulio, vescovo, e Renato, presbitero del titolo di S. Clemente, oltre a mio figlio Ilario, diacono. Abbiamo aggiunto ad essi Dolcizio, nostro notaio, la cui fedeltà a tutta prova ci è nota. E confidiamo che ci assista l'aiuto divino, perché colui che ha errato, condannato il suo malvagio modo di sentire, sia salvo. Dio ti custodisca sano, fratello carissimo.

DEFINIZIONE DELLA FEDE

Questo santo, grande e universale Sinodo, riunito per grazia di Dio e per volontà dei piissimi e cristianissimi imperatori nostri, gli augusti Valentiniano e Marciano, nella metropoli di Calcedonia in Bitinia, nel tempio della santa vincitrice e martire Eufemia, definisce quanto segue.
Il signore e salvatore nostro Gesù Cristo, confermando ai suoi discepoli la conoscenza della fede, disse: Vi do la mia pace; vi lascio la mia Pace (44), perché nessuno dissentisse dal suo prossimo nei dogmi della pietà, e fosse dimostrato vero l'annuncio della verità. E poiché il maligno non cessa di ostacolare, con la sua zizzania, il seme della pietà, e di trovare sempre qualche cosa di nuovo contro la verità, per questo Dio, come sempre, provvide al genere umano, e ispirò un grande zelo a questo nostro pio e fedelissimo imperatore, e chiamò a sé da ogni parte i capi del sacerdozio, affinché, con la grazia del signore di tutti noi, Cristo, allontanassero ogni peste di errore dalle pecore del Cristo, e le ristorassero con i germogli della verità. Cosa che noi abbiamo fatto, proscrivendo con voto comune le false dottrine, e rinnovando la nostra adesione alla fede ortodossa dei padri; predicando a tutti il simbolo dei 318 [padri di Nicea], e riconoscendo come propri padri coloro che hanno accolto questa sintesi della pietà, e cioè i 150, che si raccolsero nella grande Costantinopoli e confermarono anch'essi la medesima fede.
Confermando anche noi, quindi, le decisioni e le formule di fede del concilio radunato un tempo ad Efeso [43I], cui presiedettero Celestino [vescovo] dei Romani e Cirillo [vescovo] degli Alessandrini, di santissima memoria, definiamo che debba risplendere l'esposizione della retta e incontaminata fede, fatta dai 315 santi e beati padri riuniti a Nicea [325], sotto l'imperatore Costantino di pia memoria, e che si debba mantenere in vigore quanto fu decretato dai 150 santi padri a Costantinopoli [381] per estirpare le eresie che allora germogliavano, e rafforzare la stessa nostra fede cattolica e apostolica.
[A questo punto vennero ripetuti i simboli di fede dì Nicea e di Costantinopoli].
Sarebbe stato, dunque, già sufficiente alla piena conoscenza e conferma della pietà questo sapiente e salutare simbolo della divina grazia. Insegna, infatti, quanto di più perfetto si possa pensare intorno al Padre, al Figlio e allo Spirito santo, e presenta, a chi l'accoglie con fede, l'inumanazione del Signore.
Ma poiché quelli che tentano di respingere l'annuncio della verità, con le loro eresie hanno coniato nuove espressioni: alcuni cercando di alterare il mistero dell'economia dell'incarnazione del Signore per noi, e rifiutando l'espressione Theotocos [Madre di Dio] per la Vergine; altri introducendo confusione e mescolanza e immaginando scioccamente che unica sia la natura della carne e della divinità, e sostenendo assurdamente che la natura divina dell'Unigenito per la confusione possa soffrire, per questo il presente, santo, grande e universale Sinodo, volendo impedire ad essi ogni raggiro contro la verità, insegna che il contenuto di questa predicazione e sempre stato identico; e stabilisce prima di tutto che la fede dei 318 santi padri dev'essere intangibile; conferma la dottrina intorno alla natura dello Spirito, trasmessa in tempi posteriori dai padri raccolti insieme nella città regale contro quelli che combattevano lo Spirito santo; quella dottrina che essi dichiararono a tutti, non certo per aggiungere qualche cosa a quanto prima si riteneva, ma per illustrare, con le testimonianze della Scrittura, il loro pensiero sullo Spirito santo, contro coloro che tentavano di negarne la signoria. Per quelli, poi, che tentano di alterare il mistero dell'economia, e blaterano impudentemente essere puro uomo, quello che nacque dalla santa vergine Maria, [questo concilio] fa sue le lettere sinodali del beato Cirillo, che fu pastore della chiesa di Alessandria, a Nestorio e agli Orientali, come adeguate sia a confutare la follia nestoriana, che a dare una chiara spiegazione a quelli che desiderano conoscere con pio zelo il vero senso del simbolo salutare. A queste ha aggiunto, e giustamente, contro le false concezioni e a conferma delle vere dottrine, la lettera del presule Leone, beatissimo e santissimo arcivescovo della grandissima e antichissimo città di Roma, scritta allarcivescovo Flaviano, di santa memoria, per confutare la malvagia concezione di Eutiche; essa, infatti, è in armonia con la confessione del grande Pietro, ed è per noi una comune colonna. [Questo concilio], infatti, si oppone a coloro che tentano di separare in due figli il mistero della divina economia; espelle dal sacro consesso quelli che osano dichiarare passibile la divinità dell'Unigenito; resiste a coloro che pensano ad una mescolanza o confusione delle due nature di Cristo; e scaccia quelli che affermano, da pazzi, essere stata o celeste, o di qualche altra sostanza, quella forma umana di servo che Egli assunse da noi; e scomunica, infine, coloro che favoleggiano di due nature del Signore prima dell'unione, ma ne concepiscono una sola dopo l'unione.
Seguendo, quindi, i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato (45), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l'umanità, uno e medesimo Cristo signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e signore Gesù Cristo, come prima i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo ci hanno insegnato di lui, e come ci ha trasmesso il simbolo dei padri.
Stabilito ciò da noi con ogni possibile diligenza, definisce il santo e universale Sinodo, che a nessuno sia lecito presentare, o anche scrivere, o comporre una [formula di] fede diversa, o credere, o insegnare in altro modo. Quelli poi che osassero o comporre una diversa formula di fede, o presentarla, o insegnarla, o tramandare un diverso simbolo a quelli che intendono convertirsi dall'Ellenismo alla conoscenza della verità, o dal Giudaismo o da un'eresia qualsiasi, costoro, se sono vescovi o chierici, siano considerati decaduti: il vescovo dal suo episcopato, i chierici dal clero; se poi fossero monaci o laici, dovranno essere scomunicati.

CANONI
I.
I canoni di ciascun sinodo devono osservarsi scrupolosamente.
Abbiamo creduto bene che i canoni stabiliti dai santi padri in tutti i concili tenuti fino a questo momento, debbano conservare il loro vigore.

II.
Che non si consacri un vescovo per denaro.
Se un vescovo fa una sacra ordinazione per denaro, e ridotto, così, ad una vendita ciò che non si può vendere, avesse consacrato per lucro un vescovo, o un corepiscopo, o un presbitero, o un diacono, o qualsiasi altro del clero, o avesse promosso qualcuno, per denaro, all'ufficio di amministratore, o di pubblico difensore, o di guardia, o qualsiasi altro ministero per turpe desiderio di lucro, egli si espone - se il fatto è provato - al pericolo di perdere il suo grado. D'altra parte, quegli che ha ricevuto l'ordinazione non dovrà assolutamente riportare alcun vantaggio da una ordinazione o promozione fatta per guadagno; venga quindi, deposto dalla sua dignità, o dall'ufficio che ha ottenuto con denaro. Se poi qualcuno fa da mediatore in azioni così vergognose e in così illeciti guadagni, se si tratta di un chierico, decada dal proprio grado, se si tratta di un laico o di un monaco, sia colpito da anatema.

III.
Un chierico o un monaco non deve occuparsi di cose estranee.
Questo santo Sinodo è venuto a conoscenza che alcuni che appartengono al clero per turpe guadagno fanno i locatari dei beni degli altri, e si danno ad affari mondani, e, mentre non si danno alcun pensiero del servizio del Signore, corrono invece qua e là per le case dei secolari, e per avarizia assumono il maneggio delle altrui proprietà. Stabilisce, allora, il santo e grande Sinodo che nessuno, in seguito, vescovo, o chierico o monaco possa prendere in affitto beni o anche offrirsi amministratore in affari mondani, a meno che venga chiamato, senza potersi esimere, dalle leggi alla tutela. dei fanciulli o quando il vescovo della città incarica qualcuno di occuparsi delle cose ecclesiastiche, o degli orfani e delle vedove, che non abbiano chi si cura di loro, o di quelle persone che più degli altri abbiano bisogno del soccorso della chiesa, per amore di Dio. Se qualcuno, in avvenire, tentasse di trasgredire quanto stabilito, costui sia sottoposto alle pene ecclesiastiche.
IV.
I monaci non devono far nulla contro la volontà del Proprio vescovo né costruire un monastero, o occuparsi di cose mondane.
Quelli che con spirito vero e sincero intraprendono la vita solitaria devono essere stimati convenientemente: Ma poiché alcuni, col pretesto dello stato monastico, sconvolgono le chiese e i pubblici affari, vanno di città in città senza alcun discernimento, e presumono addirittura di costruirsi dei monasteri, è sembrato bene che nessuno, in qualsiasi luogo, possa costruire e fondare un monastero o un oratorio contro il volere del vescovo della città. I monaci, inoltre, di ciascuna città e regione devono esser sottoposti al vescovo, devono aver cara la pace, e attendere solo al digiuno e alla preghiera, nei luoghi loro assegnati; non diano fastidio né in cose di carattere ecclesiastico né in ciò che riguarda la vita d'ogni giorno, né prendano parte ad esse, lasciando i propri monasteri, a meno che talvolta non sia loro comandato dal vescovo della città per una necessità. Nessuno può accogliere nei monasteri uno schiavo, perché si faccia monaco, contro la volontà del suo padrone. E abbiamo stabilito che chiunque trasgredisce questa nostra disposizione sia scomunicato, perché non si dia occasione di bestemmiare il nome del Signore (46). Bisogna infine che il vescovo della città dedichi le necessarie cure ai monasteri.

V.
Un chierico non deve passare da una chiesa ad un'altra.
Quanto ai vescovi e chierici che passano da una città ad un'altra, si è deciso che conservino tutto il loro vigore quei canoni che sono stati stabiliti dai santi padri su questo argomento.
VI.
Nessun chierico deve essere ordinato assolutamente.
Nessuno dev'essere ordinato sacerdote, o diacono, o costituito in qualsiasi funzione ecclesiastica, in modo assoluto. Chi viene ordinato, invece, dev'essere assegnato ad una chiesa della città o del paese, o alla cappella di un martire, o a un monastero. Il santo Sinodo comanda che una ordinazione assoluta sia nulla, e che l'ordinato non possa esercitare in alcun luogo a vergogna dì chi l'ha ordinato.
VII.
I chierici o i monaci non devono tornare nel mondo.
Coloro che una volta sono stati ammessi nelle file del clero o tra i monaci non devono far parte dell'esercito né ottenere dignità mondane. Di conseguenza, chi tenterà ciò e non farà penitenza, e non tornerà alla vita che prima aveva scelto per Iddio, sia anatema.
VIII.
Gli ospizi dei poveri, i luoghi consacrati ai martiri e i monasteri siano sotto la potestà del vescovo.
I chierici degli ospizi per i poveri, dei monasteri, dei santuari dei martiri siano soggetti all'autorità dei vescovi di ciascuna città, secondo l'uso tramandato dai santi padri, e non ricusino per superbia di essere sottoposti al proprio vescovo. Chi tenterà di trasgredire questa disposizione, in qualsiasi modo, e non si sottometterà al proprio vescovo, se chierico sia punito secondo i sacri canoni, se invece monaco o laico sia privato della comunione.
IX.
I chierici non devono adire i tribunali secolari.
Se un chierico ha una questione con un altro chierico non trascuri il proprio vescovo per adire i tribunali secolari. La causa, invece, sia prima sottoposta al vescovo, oppure, col suo consenso, ad arbitri scelti di comune accordo dalle due parti. Se qualcuno agisce contro queste decisioni, sia soggetto alle pene canoniche. Se un chierico, poi, avesse qualche questione contro il proprio o altro vescovo, sia giudicato presso il sinodo provinciale. Se, finalmente, un vescovo o un chierico avessero motivo di divergenza col metropolita stesso della provincia, si rivolgano o all'esarca della diocesi, o alla sede della città imperiale, Costantinopoli, e presso di questa si tratti la causa.
X.
Non è lecito ad un chierico servire in due chiese di due diverse città.
Non è lecito che un chierico presti il suo servizio nello stesso tempo in due città, in quella, cioè, nella quale fu ordinato, e in quella, nella quale fuggì, credendola migliore, per desiderio di vana gloria. Quelli che facessero così, devono essere richiamati alla propria chiesa, nella quale da principio furono ordinati, ed ivi prestare il loro servizio liturgico. Se, però, qualcuno, si fosse già trasferito da una chiesa ad un'altra, non interferisca in nessun modo negli affari dell'altra chiesa, né nei santuari, negli ospizi per i poveri, nelle case per forestieri che sono sotto di essa. Chi osasse, dopo questa disposizione di questo grande e universale concilio, fare alcunché di quanto è stato proibito, questo santo sinodo stabilisce che decada dal proprio grado.
XI.
Quelli che hanno bisogno di assistenza siano provvisti di lettere di pace; lettere commendatizie si diano solo a chi ha buona reputazione.
Tutti i poveri e i bisognosi di assistenza che devono viaggiare, siano muniti, non senza indagine, di lettere ecclesiastiche o lettere di pace, e non di commendatizie: queste devono essere rilasciate solo a persone di buona reputazione.
XII.
Un vescovo non deve essere fatto metropolita con lettere imperiali, né una provincia deve essere divisa in due.
Siamo venuti a sapere che alcuni, contro ogni norma ecclesiastica, si sono rivolti alle autorità ottenendo che con una pragmatica imperiale una provincia fosse divisa in due, con la conseguenza che in una stessa provincia vi siano due metropoliti. Questo santo sinodo stabilisce che per l'avvenire niente di simile possa esser fatto da un vescovo sotto pena di decadenza dal proprio rango. Quelle città, però, che già avessero ricevuto con lettere imperiali l'onorifico titolo di metropoli godranno del solo onore, così pure il vescovo che governa quella chiesa, salvi, naturalmente, i privilegi della vera metropoli.
XIII.
I chierici non possono esercitare il servizio liturgico in altre città senza lettere commendatizie.
I chierici e i lettori forestieri non devono assolutamente compiere un servizio liturgico in un'altra città senza le lettere commendatizie del proprio vescovo.
XIV.
Chi appartiene all'ordine sacerdotale non può unirsi in matrimonio con eretici.
Poiché in alcune province è permesso ai lettori e ai cantori di sposarsi, questo santo sinodo ha deciso che non sia lecito ad alcuno di loro prendere in moglie una donna eretica. Coloro che avessero già avuto figli da tali nozze, se hanno già battezzato i loro figli presso gli eretici, devono introdurli alla comunione della chiesa cattolica; se non sono stati ancora battezzati, non possono battezzarli presso gli eretici; e neppure permettere che si uniscano in matrimonio con un eretico, con un giudeo, o con un gentile, se la persona che si unisce a colui che è ortodosso non dichiari di convertirsi alla vera fede. Se qualcuno trasgredirà la prescrizione di questo santo concilio, venga assoggettato alle sanzioni ecclesiastiche.
XV.
Delle diaconesse.
Non si ordini diacono una donna prima dei quarant'anni, e non senza diligente esame. Se per caso dopo avere ricevuto l'imposizione delle mani ed avere vissuto per un certo tempo nel ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia anatema insieme a colui che si è unito a lei.
XVI.
Le vergini consacrate a Dio non devono sposarsi.
Non è lecito ad una vergine che si sia consacrata al Signore Iddio, e così pure ad un monaco, contrarre matrimonio. Chi ciò facesse, sia scomunicato. Abbiamo tuttavia stabilito essere in potere del vescovo locale mostrare verso di essi una misericordiosa comprensione.
XVII.
Sulle parrocchie di campagna.
Le parrocchie rurali o di villaggio che appartengono ad una chiesa, rimangano assolutamente assegnate a quei vescovi che presiedono ad esse, specialmente se per un tempo di trent'anni le abbiano amministrate con pacifico possesso. Se poi entro tale tempo sia sorta, o sorga qualche contestazione, è permesso a coloro che affermano di essere stati lesi nei loro diritti, di portare la questione dinanzi al sinodo della provincia. Nel caso che qualcuno venga danneggiato dal proprio metropolita, costui sia giudicato o presso l'esarca della diocesi, o presso il tribunale di Costantinopoli. Se poi una città fosse stata fondata o è fondata dal potere imperiale, anche l'ordinamento delle parrocchie ecclesiastiche segua le circoscrizioni civili e pubbliche.

XVIII.
I membri dell'ordine sacerdotale non possono congiurare o cospirare.
Il delitto di congiura e di cospirazione è proibito anche dalle leggi civili, tanto più dev'essere proibito nella chiesa di Dio. Se, quindi, alcuno, chierico o monaco, prenderà parte a congiure, entrerà in società cospirativi oppure ordirà insidie contro i vescovi o contro i colleghi chierici, sia senz'altro dichiarato decaduto dal suo grado.
XIX.
Due volte all'anno bisogna celebrare i sinodi in ciascuna provincia.
E’ giunto alle nostre orecchie che nelle province non si tengono i sinodi dei vescovi stabiliti dai sacri canoni, e che, di conseguenza, vengono trascurati molti degli affari ecclesiastici che avrebbero bisogno di riforma. Pertanto il santo concilio stabilisce, in conformità ai canoni dei padri, che due volte all'anno i vescovi di ciascuna provincia si riuniscano nel luogo scelto dal vescovo metropolita e trattino le questioni in sospeso. 1 vescovi che non prenderanno parte alle riunioni, standosene nelle loro città pur essendo in buona salute e liberi da impegni urgenti e necessari, siano fraternamente ripresi.

XX.
Un chierico non deve trasferirsi da una città all'altra.
I chierici addetti al servizio di una chiesa, come già abbiamo stabilito, non possono essere addetti alla chiesa di un'altra città; amino piuttosto quella, nella quale furono stimati degni di prestare il loro servizio fin dall'inizio, eccetto quelli che, perduta la loro patria, per necessità hanno dovuto trasmigrare altrove. Se avvenisse che un vescovo, dopo questa disposizione, accolga un chierico appartenente ad un altro vescovo, sia scomunicato tanto chi ha ricevuto, quanto chi è stato ricevuto, finché il chierico che ha emigrato non abbia fatto ritorno alla propria chiesa.

XXI.
Chi accusa i vescovi deve essere di buona fama.
I chierici o laici che accusano i vescovi o chierici non siano ammessi all'accusa semplicemente e senza previo esame, prima deve essere fatta un'inchiesta sulla fama di cui godono.
XXII.
I chierici, dopo la morte del proprio vescovo, non devono appropriarsi dei suoi beni.
Non è lecito ai chierici, dopo la morte del proprio vescovo, appropriarsi dei suoi beni, come del resto è stato interdetto dai canoni antichi; quelli che osassero ciò rischiano di perdere il loro grado.
XXIII.
Che siano cacciati da Costantinopoli i chierici e i monaci forestieri che fanno confusione.
E’ giunto alle orecchie del santo sinodo che alcuni chierici o monaci, senza mandato del loro vescovo, e anzi, addirittura scomunicati da lui, venuti nella città imperiale di Costantinopoli, vi vivono da molto, provocando sommosse, turbando l'ordine nella chiesa, e saccheggiando le case di qualcuno. Pertanto, questo santo sinodo ordina che costoro siano prima ammoniti dal pubblico difensore della chiesa santissima di Costantinopoli, perché se ne vadano dalla città imperiale. Se poi continuano nella stessa condotta senza alcuna vergogna, siano scacciati dal medesimo difensore anche contro la loro volontà, e raggiungano le loro città.
XXIV.
I monasteri non devono diventare degli alberghi.
I monasteri una volta consacrati per volontà del vescovo, rimangano monasteri per sempre, e ciò che ad essi appartiene sia conservato al monastero. I monasteri non devono diventare abitazioni mondane; e chi avrà permesso questo, sia sottoposto alle pene stabilite dai sacri canoni.
XXV.
Una chiesa non deve rimanere priva del vescovo per più di tre mesi.
Poiché alcuni metropoliti, come abbiamo saputo, trascurano le greggi loro affidate, e rimandano le ordinazioni dei vescovi, è sembrato bene al santo sinodo che le ordinazioni dei vescovi debbano essere fatte entro tre mesi, a meno che una assoluta necessità non consigli di prolungare l'intervallo. Chi non agisce così, sarà soggetto alle sanzioni ecclesiastiche. I redditi della chiesa vacante saranno conservati intatti dall'amministratore della stessa chiesa.
XXVI.
Ogni vescovo deve amministrare i beni della propria diocesi attraverso un economo.
Poiché in alcune chiese, come abbiamo sentito dire, i vescovi amministrano i beni ecclesiastici senza un economo, disponiamo che ogni chiesa che ha un vescovo abbia anche un economo, scelto dal proprio clero, il quale amministri i beni della chiesa sotto l'autorità del proprio vescovo. Ciò, perché l'amministrazione della chiesa non sia fatta senza controllo, e, di conseguenza, non vengano dilapidati i beni ecclesiastici, e non ne nasca il disprezzo per il sacerdozio stesso. Se il vescovo non agirà in conformità a queste disposizioni, andrà soggetto alle leggi divine.
XXVII.
Non si deve usare violenza ad una donna a scopo di matrimonio.
Chi rapisce una fanciulla sotto pretesto di sposarla; chi coopera o aiuta chi rapisce, questo santo sinodo stabilisce che, se si tratta di chierici, decadano dal proprio rango, se monaci o laici, che vengano anatematizzati.
XXVIII.
Voto sui Privilegi della sede di Costantinopoli.
Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l'uso, e presentati a lui.
XXIX
Un vescovo allontanato dalla propria sede non deve essere computato fra presbiteri.
I magnificentissimi e gloriosissimi imperatori dissero: "che pensa il santo sinodo dei vescovi consacrati da Fozio, vescovo piissimo, e rimossi dal religiosissimo vescovo Eustazio, e obbligati ad essere, dopo l'episcopato, dei semplici sacerdoti?".
I reverendissimi vescovi Pascasino e Lucenzio e il sacerdote Bonifacio, rappresentanti della sede di Roma, dissero: "ridurre un vescovo al grado di semplice sacerdote, è un sacrilegio. Se, infatti per un giusto motivo essi debbono essere sospesi dall'esercizio dell’episcopato, non devono neppure avere il posto di presbiteri. Se poi sono stati rimossi dalla loro carica senza colpa, devono essere reintegrati nella loro dignità di vescovi".
Il piissimo Anatolio, arcivescovo di Costantinopoli, disse: "quelli che sono stati ridotti dalla dignità vescovile al grado di presbiteri, se sono stati condannati per motivi ragionevoli, certamente non sono degni neppure della dignità di presbiteri. Se poi sono stati ridotti al grado inferiore senza motivo, giustamente, se risulta che sono innocenti, devono riprendere la dignità e le funzioni dell'episcopato".
XXX.
Gli Egizi sono senza colpa Per non aver sottoscritto la lettera di Leone vescovo di Roma.
I magnificentissimi e gloriosissimi imperatori e il gloriosissimo senato dissero: "poiché i piissimi vescovi della chiesa d'Egitto, senza avere affatto l'intenzione di opporsi alla fede cattolica, hanno per il momento rimandato di sottoscrivere la lettera del santissimo arcivescovo Leone, dicendo esser costume nella diocesi d'Egitto di non far nulla di simile senza il volere e la disposizione del loro arcivescovo; e poiché credono che si debba concedere loro una dilazione fino alla consacrazione del futuro vescovo della grande città di Alessandria, ci è sembrato giusto e umano che venga concesso ad essi di rimanere nella città imperiale senza sanzioni, e la richiesta dilazione, fino a che venga consacrato l'arcivescovo della grande città di Alessandria".
Il piissimo vescovo Pascasino, legato della sede apostolica di Roma, disse: "se la vostra Gloria dispone e comanda che si usi a loro riguardo una certa umanità, diano, però, essi la garanzia che non usciranno da questa città, fino a che la città di Alessandria non abbia avuto il suo vescovo".
Allora i magnificentissimi e gloriosissimi principi e il glorioso senato dissero: "sia accolto il voto del santissimo vescovo Pascasino. Quindi, rimanendo nel proprio stato, i piissimi vescovi degli egiziani daranno delle garanzie, se è loro possibile, o faranno fede con giuramento, attendendo l'ordinazione del futuro vescovo della grande città degli alessandrini".

--------------------------------------------------------------------------------
Note
(1) Sal 35, 4
(2) Cfr. Eb 2, 14
(3) Mt 1, 1
(4) Rm 1, 3
(5) Gen 22, 18
(6) Gal 3, 16
(7) Is 7, 44
(8) Is 9, 6
(9) Lc 1, 35
(10) Cfr. Pr 9, 1
(11) Gv 1, 14
(12) I Tm 2, 5
(13) Cfr. Fil 2, 7
(14) Gv 1, 1
(15) Gv 1, 14
(16) Gv 1, 3
(17) Gal 4, 4
(18) Mt 3, 17
(19) Cfr Mt 4, 1.11
(20) Cfr Mt 14, 17.21
(21) Cfr Gv 4, 14
(22) Cfr Mt 14, 25
(23) Cfr Lc 8, 24
(24) Cfr Gv 11, 35
(25) Cfr Gv 11, 39.43
(26) Cfr Mt 27, 45.51
(27) Cfr Lc 23, 43
(28) Gv 10, 30
(29) Gv 14, 28
(30) I Cor 2, 8
(31) Mt 16, 13.15
(32) Mt 16, 16
(33) Cfr At 1, 3-4
(34) Cfr Gv 20, 19.22
(35) Cfr Lc 24, 46
(36) Cfr Gv 20, 27
(37) Lc 24, 39
(38) I Gv 19, 34
(39) Cfr Gv 19, 34
(40) Cfr I Pt 1, 2
(41) I Pt 1, 18
(42) I Gv 1, 7
(43) I Gv 5, 4-8
(44) Gv 14, 27
(45) Cfr. Eb 4, 15
(46) Cfr. Rm 2, 24; I Tm 6, 1