giovedì 29 agosto 2013

Riflessioni sul Salmo 50 card. Carlo M. Martini

Tra qualche giorno, per essere esatti il 31 agosto, ricorre il primo anniversario della dipartita del cardinale Carlo Maria Martini. Nacque a Torino, 15 febbraio 1927  e si è addormentato a Gallarate il 31 agosto 2012 è stato un cardinale e arcivescovo cattolico romano italiano.
Biblista ed esegeta, è stato arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. Oltre ad essere stato un uomo di cultura teologica fu anche uomo del dialogo tra le religioni, a cominciare dall’ebraismo, i cui fedeli amava definire “fratelli maggiori”. Fu soprannominato "cardinale del dialogo".
A prescindere dalle sue note caratteristiche personali che possono piacere o meno resta un punto fermo che la sua conoscenza biblica e la sua lucidità critica sono impareggiabili. E' per questo che vogliamo offrire alla vostra attenzione questa riflessione sul salmo 50. Parecchi spunti di riflessione del cardinal Martini connotano l'appartenenza alla chiesa di Roma ma molti di più sono i momenti che trovano possibile apprezzamento a prescindere.


1
Il punto di partenza
Dal Vangelo secondo Luca: 15, 1-10
Si avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro ». Allora Gesù disse loro questa parabola: « Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».
Il tema su cui ci proponiamo di riflettere, facendoci aiutare dalla lettura del Salmo «Miserere », si può intitolare: cammino di riconciliazione.
La scelta del tema
1. C’è un nesso inscindibile tra la riconciliazione sociale e politica e la conversione del cuore.
a. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni, senza conversione del cuore.
b. Come pure non c’è conversione del cuore – e quindi anche cammino di penitenza cristiana – senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.
2. Esiste un itinerario penitenzialeLa conversione del cuore non è una realtà semplice, puntuale: comprende delle tappe che non si possono disattendere o saltare a piacere. C’è un itinerario che è fatto secondo il cuore dell’uomo e che noi siamo invitati ad imparare, per ripercorrerlo.
3. C’è una missione ecclesiale verso il mondo. Essa grava su di noi e si precisa, prendendo contorni via via più chiari, mentre percorriamo il cammino penitenziale. Attraverso questo cammino chiediamo a Dio di renderci maggiormente attenti e responsabili circa i problemi della riconciliazione umana e cosmica.
Per tutti questi motivi mi è sembrato importante riflettere, insieme con voi, sul cammino di riconciliazione.
Il Miserere
Il Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
Esso attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, commentato da Gregorio Magno; è divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi. Esso è quindi il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato in musica. Celebri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni.
È soprattutto il salmo che ha accompagnato le preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita. Il Miserere è la preghiera dell’uomo di sempre, appartiene alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità.
Possiamo ripetere, facendola nostra, la preghiera di Charles de Foucauld:
Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera quotidiana. Diciamo spesso questo salmo, facciamone spesso la: nostra preghiera; esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. Esso parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini.
L’iniziativa divina
I primi versetti del Salmo 50 ci introducono con queste parole: .
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nel tuo grande amore cancella. il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato.
Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è l’iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.
I vocaboli che la versione italiana usa per indicare ciò che l’uomo ha fatto – il peccato, le colpe – non rendono adeguatamente la lingua originale. Infatti, nel testo ebraico sono tre parole diverse che andrebbero lette così: «…cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, “tirami fuori” da ogni mio smarrimento ». Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell’uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.
Alle parole che indicano lo sbandamento dell’uomo fanno riscontro tre appellativi divini: « Pietà… misericordia… amore ». C’è il peccato dell’uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l’insistenza non è sull’uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull’infinità di Dio. Cerchiamo di riflettere brevemente sui vocaboli che definiscono il Dio della misericordia e della bontà.
Chi è Dio
La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: « Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».
Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.
La seconda parola è « misericordia ». È interessante notare che l’espressione è: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia» o « perché sei misericordioso ». Il salmista sottolinea la sproporzione infinita, che l’uomo intuisce senza comprenderla, della misericordia divina. In ebraico il termine è hésed ed ha una lunga storia ricca di significato. Indica, infatti, l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore. Si potrebbe anche tradurre con « gentilezza», nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai. Dio è colui che io non conosco, ma per il quale sono importante, per il quale è importante – secondo la parola di Gesù – ogni capello del mio capo.Nulla avviene in me senza un’attenzione della tenerezza di Dio. Noi traduciamo hésed con « misericordia» perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando noi siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, strani, poco attraenti e forse pensiamo che Dio fa bene a non ricordarsi di noi, farebbe bene a castigarci.
La terza parola è « nel tuo grande amore ». In ebraico si dice «rahammìm» e significa «il cuore, le viscere». È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria. Questo attributo di Dio è qualcosa che può capire chi ha amato un’altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: « secondo la tua grande passione per l’uomo, abbi misericordia, o Dio ».
Questi tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50, che è un inno a incontrare Dio così com’è. Partendo dalla contemplazione dell’iniziativa divina per l’uomo, ci invita prima di tutto ad avere una grande e giusta idea di Dio.
Domande per noi
Nascono per noi alcune domande.
Ho una giusta idea di Dio? Lo incontro così com’è? È importante questa prima domanda perché chi non ha una giusta idea di Dio non ha neanche una giusta idea di sé, né degli altri.
Nel cap. 15 del Vangelo secondo Luca, leggiamo che « i farisei e gli scribi mormoravano» di Gesù perché riceveva e mangiava con i peccatori (cfr. Lc. 15, 1.10). È questo il tipico atteggiamento di chi non ha una giusta idea di Dio, di chi considera Dio vendicativo, permaloso, irritabile. E spesso, non accettando noi stessi, finiamo col credere che Dio non ci accetta fino in fondo. È vero che a volte ostentiamo una grande sicurezza, quasi una spavalderia, asserendo che non abbiamo alcun bisogno di Dio. Tuttavia in altri momenti sorge in noi quella profonda insicurezza che è alla radice di ogni uomo e che è il segno della sua creaturalitàNell’ambito religioso essa si esprime appunto con il senso di un Dio un po’ cattivo, di un Dio che non mi dà giustizia, che richiede troppo da me, che mi ha messo in circostanze troppo difficili oppure che è troppo difficile Lui stesso e non si lascia raggiungereAl fondo di tutti questi sentimenti c’è, probabilmente, la persuasione che Dio non mi ama così come sono, che non è contento di me.
La grande rivelazione del Salmo 50 è, invece, che Dio mi ama come sono, che mi accetta fino in fondo, che è adesso gentile con me, cortese, attento, premuroso e tenero.
Tutto questo l’ha compreso bene il pastore della parabola lucana là dove si legge: «Ritrovata (la pecora perduta), se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (15, 5-6). L ‘ha compreso la donna che, ritrovata la dramma smarrita, invita le amiche e dice: « Rallegratevi con me» (15, 9). Gesù conclude la parabola: « Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (15, 10). Ciascuno di noi dovrebbe poter dire: Dio ha gioia in me, ha gioia per me, io rappresento qualcosa di molto importante per lui. Ecco che cosa significa avere un’idea giusta di Dio, partire col piede giusto nel cammino della riconciliazione.
Seconda domanda: ho qualche idea sbagliata su Dio?
Abbiamo già detto che i farisei e gli scribi che mormoravano di Gesù avevano un’idea sbagliata di Dio. Emerge in noi, con frequenza, qualche lamentela profonda, che magari non osiamo dire a nessuno e di cui ci vergogniamo? Ci ribelliamo contro Dio, abbiamo dentro di noi qualche conto aperto con Lui?
Terza domanda: che cosa posso fare per correggere l’idea sbagliata che ho di Dio? Per correggere quei sentimenti deformati della mia coscienza a suo riguardo?
Uno dei modi è certamente l’ascolto della sua Parola, la lettura meditata della Scrittura che riporta a verità i sentimenti spesso rattrappiti nell’espressione spirituale della lode a Dio. Cercherò allora di tradurre le parole del Salmo: «Fammi grazia, o Dio, secondo la tua grande passione per l’uomo. Nella tua tenerezza cancella le idee sbagliate che ho su di te! Mi dispiace, o Padre, di averle coltivate: Tu solo puoi darmi l’idea giusta perché come posso conoscerTi se non Ti riveli e se il Tuo Figlio non apre in me la conoscenza di Te? ».
Infine, l’ultima domanda: ho qualche idea sbagliata sul prossimo? Come posso fare per correggerla?
L’idea sbagliata che possiamo avere su Dio si ripercuote in idea sbagliata sul prossimo. Questo avviene non quando lo critichiamo, perché qualche volta il prossimo è criticabile (lo siamo un po’ tutti!), ma quando ci lamentiamo all’infinito di qualcuno, quando non ci va mai bene una persona o una situazione. Allora vuol dire che non abbiamo assunto l’atteggiamento giusto, quello che Dio ha verso di noi e che è comprensivo, creativo, capace di guardare con occhio nuovo, tenero, positivo, la situazione. Spesso si creano tra le persone dei blocchi emotivi per cui tutto ciò che un altro fa è sbagliato: talora le nostre stesse confessioni sono lamentele su altriSe avessimo un’idea giusta di Dio, essa opererebbe in noi in modo di farci guardare i difetti degli altri con occhio diverso, capace di abbracciarli positivamente in una visuale creativa, come Dio fa con noi. Perché non imitare Dio mettendoci alla sua scuola? Invece di domandarci all’infinito perché l’altro mi ha trattato casi, perché mi ha fatto quella tal cosa, proviamo a chiederei: che cosa posso fare per lui, come posso cambiare il cuore, l’animo, la vita, il sorriso di questa persona?


2
Il riconoscimento della situazione
Dal Vangelo secondo Luca,: 15,11-32
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso sud padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».
Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto. Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre. Ma tu vuoi la sincerità del cuore e, nell’intimo m’insegni la sapienza.
Le parole dei primi versetti del Salmo, su cui ci siamo soffermati, ci introducono nella sezione centrale di questo Salmo che si può, utilmente, dividere in tre parti.
La prima parte è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all’indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi insegni la sapienza.
La seconda parte esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.
La terza parte è il progetto per l’avvenire. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà.
Con termini a noi più abituali possiamo chiamare: 1. esame di coscienza il riconoscimento della situazione; 2. richiesta di perdono la supplica; 3. proposito il progetto per l’avvenire. Sono tre momenti chiaramente distinti nella lettura, anche semplicemente nella differenza dei verbi.
Verso la verità di noi stessi
Tre sono i soggetti che vengono presentati in azione.
Il soggetto che appare più di frequente è la stessa personal’io. Io riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.
Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in cui l’uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha concepito mia madre.
Il terzo soggetto dell’azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il Tu: ovvero Dio stesso.
C’è quindi l’io che riconosce, c’è una determinazione generale della situazione di colpa, c’è il Tu con cui termina questa prima parte e che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu, nell’animo mi insegni la sapienza.
Cerchiamo di riflettere innanzi tutto sulle parole che hanno per soggetto il Tu, per poter poi comprendere meglio quelle che precedono.
Nel testo ebraico l’espressione « Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu ami la verità nell’oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l’uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.
«Tu mi insegni sapienza nel segreto.» La sapienza è una delle realtà più alte e più; profonde dell’Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.
Ecco la chiave della prima parte del SalmoDio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell’oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progettoCosì facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia. La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell’anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all’autenticità di quello che io veramente sono.
Il dialogo con il Tu
Se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano all’inizio: « Contro di te, contro te solo ho peccato ». Ho fatto ciò che non va davanti a te.
A prima vista ci appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l’emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore oltre che adultero.
Eppure l’insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conosceva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che gliela rinfaccia. Tuttavia, quando gli vengono apertamente detti gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza. Peccando contro l’amico con il tradimento, con l’infedeltà e con l’adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua: «Contro di te, contro te solo ho peccato». L’espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figlio prodigo: « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te ». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Lc. 15, 11-32).
L’uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l’immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.
Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati oggi a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro ad ogni uomo, ad ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell’uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità. Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato ».
La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell’uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente del senso di colpa.
Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori. Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l’esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l’analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.
In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l’uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell’uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.
Come ‘è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti » giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito»dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l’uomo totalmente diverso: Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un’esistenza nuova.
Domande per noi
Abbiamo visto che l’esame di coscienza è il lasciare emergere quella verità di noi stessi che Dio, nella sua bontà, ci insegna. Le parole del Salmo possono rinnovare dentro di noi il senso religioso, forse stanco di atti ripetuti e non capiti fino in fondo.
Vi propongo allora due domande semplicissime e utili per prepararsi al Sacramento della Riconciliazione:
- Che cosa non vorrei avere sulla coscienza? Che cosa mi pesa, mi avvilisce, mi opprime, mi fa essere quello che non vorrei? Lasciamo che emerga ciò che ci viene come risposta a questa domanda con semplicità, senza ricorso immediato a formule imparate. È infatti la verità di noi stessi che sta nascendo come supplica, come desiderio, come immagine giusta o sbagliata di noi.
Come avrei voluto essere e non sono stato? Come avrei voluto comportarmi nelle situazioni che ora mi pesano? Da qui comincia il dialogo, che chiarisce le motivazioni e i giudizi, ricostruendoci dall’interno, in quell’opera di creazione, esaltata nella seconda parte del Salmo, su cui mediteremo in uno dei prossimi incontri.
Dopo queste domande, suggerisco quattro riflessioni:
Quando ho fatto l’ultima volta l’esame di coscienza? L’esame di coscienza mi dà noia, mi disturba oppure mi lascia contento? Per capire meglio il significato di questo interrogativo vi può aiutare la lettura del seguente testo che traggo dall’autobiografia di S. Ignazio di Loyola:
Pensando alle cose del mondo provava [il Santo scrive in terza persona, pur parlando di se stesso] molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava, si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi; dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro, e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demònio, l’altro di Dio.
È quindi importante chiedersi se l’esercizio dell’esame di coscienza ci pesa oppure se ci lascia contenti.
Considero l’esame di coscienza un’iniziativa divina di dialogo, cioè un colloquio con un Tu? Oppure lo ritengo una fastidiosa e faticosa analisi della psiche? Mi abituo a considerarlo un dialogo in cui parlo, ascolto, mi esprimo con fiducia, con la gioia di essere accettato, accolto e riabilitato a partire da ciò che sono?
- Se trovo difficoltà nell’esame di coscienza, che esprime un modo di essere irrinunciabile dell’uomo che vuole prendere coscienza di sé, mi lascio aiutare dalla Chiesa nel dialogo penitenziale? La viva tradizione della Chiesa ci parla a lungo del cammino di conversione necessario ad ogni uomo, ad ogni comunità. Ci parla anche dei momenti di questo cammino, di cui fa parte la capacità di riconoscere autenticamente ciò che c’è in noi e di viverlo limpidamente davanti a colui che, in nome di Dio, ci ascolta in un dialogo paterno.
Il Signore è pronto a trasformare la nostra, vita se la mettiamo nelle sue mani e auguro a ciascuno di vivere questa esperienza, che è una delle più belle che l’uomo possa fare.
3
Il dolore dei peccati
Dal Vangelo secondo Luca: 22, 54-62
Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: «Anche questi era con lui ». Ma egli negò dicendo: «Donna, non lo conosco! ». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di loro! ». Ma Pietro rispose: «No, non lo sono! ». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questo era con lui, è anche lui un Galileo ». Ma Pietro disse: « O uomo, non so quello che dici ». E, in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. All’ora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E uscito pianse amaramente.
Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.
Per completare la riflessione sulla prima parte della sezione centrale del Salmo 50, meditiamo sulle parole: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio ». Esse ci permettono di entrare nel tema del dolore dei peccati.
La parola « dolore », pronunciata nel contesto del Sacramento della Riconciliazione, può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione. È il ricordo di sentimenti talora spremuti a fatica; l’incertezza che ci può prendere se abbiamo avuto o non abbiamo avuto veramente il dolore in qualche nostra confessione; il senso di colpa per non riuscire, almeno ci sembra, a provare un dolore vivo dei peccati commessi e il ritardare forse, per questo, la confessione.
Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolòre nel corpo, malgrado non lo voglia. Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierei il sonno. Che cos’è dunque il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto viva e presente, del dolore fisico o morale?
Il giudizio su di sé
Vorrei cominciare da qualche riflessione generale. Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire. Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.
Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l’ho fatto e non l’approvo. Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.
Saper fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C’è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se, nelle nostre confessioni, siamo portati ad accusare gli altri ed a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano.
E d’altra parte è vero che, forse per una certa abitudine al Sacramento della Riconciliazione, il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non vaNon ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra. Più di frequente il pentimento è bloccato perché non siamo affatto convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero.
In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.
Che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?
È chiaro che il cammino da fare è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi ad una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.
Invece di cominciare subito con la confessione propriamente detta, può essere opportuno cominciare ad instaurare un semplice colloquio amichevole che permette di esprimere la difficoltà di fondo, di dare voce a questa difficoltà e di farci aiutare a chiarirla. Sarebbe errato fermarsi alla difficoltà lasciandosi ipnotizzare da essa.
Con queste tre riflessioni, siamo ancora ai preliminari di quello che è il dolore cristiano dei peccati: esso scatta e prende forma ad un livello superiore di coscienza e vogliamo cercare di comprenderlo meditando le parole del Salmo 50.
La parte lesa
Che cosa vuol dire concretamente: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio?». Noi interpretiamo spontaneamente questo versetto mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Uria, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi.
Questa interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello. La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono. Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.
È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell’uomo: l’uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano destra della sua fiducia.
Se noi chiediamo in che maniera l’offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell’Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce patte lesa e inizia la sua azione contro l’oppressore con queste parole: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Es. 3, 7-8 ). Ci risponderà ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: «In verità vi dico… non l’avete fatto a me » (cfr. Mt. 25, 31-46).
Il pianto di Pietro
C’è un brano del Vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l’esperienza del dolore del peccato che abbiamo meditato nelle parole di Davide. È l’episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: « In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte“. E uscito pianse amaramente» (Lc. 22,-54-62).
Perché Pietro scoppia in pianto? Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po’ annebbiata, di avere fatto una cosa sbagliata, di essersi disonorato; di avere tradito un amico. Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest’uomo e lui va a morire per me! È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l’ha demeritata, che fa scattare il contrasto.
Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall’incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l’uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia.
Domande per noi
La rivelazione del nostro peccato con il dolore che ne consegue deriva dall’incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l’infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso. .
Possiamo chiederci:
Per che cosa posso dire, in verità, dentro di me: « Contro di te, contro te solo ho peccato? ». Che cosa emerge nella mia coscienza quando rifletto su queste parole?
Quali di queste cose che emergono sono lesioni dell’immagine di Dio in altri, sono rifiuto di attenzione, di ascolto, di aiuto, di stima? Ho colto, riesco a cogliere il rapporto tra la lesione di un altro e la lesione della mia amicizia e alleanza con Dio, che si è instaurata nel Battesimo e che vivo nell’Eucaristia?
Sono consapevole della potenza riabilitativa del mio perdono? Anch’io, come Gesù, posso perdonare, posso fare rivivere, posso ridare fiducia e onorabilità.
Riesco a farlo? Invoco lo Spirito Santo per essere, intorno a me, partecipe del potere riconciliatore di Cristo?
E possiamo dire insieme:
« Concedi, Signore, a noi che cerchiamo la via della penitenza, di entrare nel giusto cammino e concedi che questo entrare sia non soltanto per noi ma per tutta la città che spiritualmente è qui presente e cammina con noi. Tu, Signore, che hai donato il dolore del peccato a Davide e a Pietro, concedi la grazia di un dolore profondo a noi e alla nostra città per tutto ciò che ti offende».

4
La supplica
Dal Vangelo secondo Giovanni: 8, 1-11
Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: « Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei ». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? ». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore ». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più ».
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso
Le parole costitutive della seconda parte del Salmo sono una supplica, una invocazione, una grande preghiera. Ne meditiamo solo alcune perché esprimono l’autentico grido di chi conosce Dio e impara a conoscere se stesso e vogliamo chiedere al Signore la grazia di poter condividere questo autentico grido.
Sono le parole che troviamo alla fine della seconda parte: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso»
L’epiclesi dello Spirito
Cominciamo da una particolarità linguistica che non appare nella versione italiana: siamo di fronte a tre invocazioni di richiesta dello Spirito Santo; da parte dell’uomo. Il versetto tradotto con « sostieni in me un animo generoso », infatti, nel testo ebraico si legge: «rafforzami col tuo Spirito generoso », oppure: « Poni in me uno Spirito generoso ». La supplica domanda lo spirito saldo, lo Spirito santo, lo spirito generoso ed è una vera e propria epiclesi.
L’epiclesi liturgica è la preghiera che nella celebrazione eucaristica si fa, al momento della consacrazione, allo Spirito Santo perché scenda in maniera creativa sul pane e sul vino, rendendoli Corpo e Sangue di Cristo. La liturgia, oltre a questa invocazione eucaristica dello Spirito, ha, in alcune preghiere del canone, un’altra epiclesi comunitaria in cui si chiede che lo Spirito scenda sulla comunità e ne faccia una cosa sola in Cristo. Qui siamo di fronte ad una epiclesi penitenziale, ad una invocazione dello Spirito perché scenda sulla persona che prega e la trasformi. È quindi il momento culminante del Salmo, come la consacrazione è il momento culminante dell’Eucaristia.
Una nuova creazione
Proviamo ora a riflettere su due domande parallele di cui una: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» è all’inizio dell’epiclesi dello Spirito e l’altra: «Rendimi la gioia di essere salvato» è nel contesto dell’epiclesi stessa.
Qual è la domanda fondamentale? Crea in me.
Il verbo creare è il primo della Scrittura: « In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn. 1, 1). È parola che la Bibbia riserva per Dio solo: non è mai usata per un’azione umana, è esclusiva dell’azione divina che dal nulla pone in essere, dell’azione divina che fa qualcosa di assolutamente nuovo.
La domanda è quindi di un’ azione creatrice, di una novità che Dio solo può porre nell’uomoE la parola « crea in me » è parallela con l’altra: « rendimi la gioia ». Nell’ebraico si legge: « Fa’ ritornare, fa’ risorgere in me la gioia ». Non si chiede qualcosa di assolutamente nuovo ma si chiede di far ritornare quel momento creativo originario che è il Battesimo. Il Sacramento della Riconciliazione è la richiesta di essere reimmersi nella forza creativa dello Spirito battesimale, è una nuova esperienza del Battesimo, che per nostra colpa abbiamo perduta.
Per questo il Sacramento della Riconciliazione non può avere il suo pieno effetto se non abbiamo vissuto profondamente l’esperienza dell’annuncio evangelico, la forza del kerygmaCome si può restituire ciò che non c’è mai stato o che c’è stato in maniera fiacca, slavata e generica? Come è possibile ritrovare la forza del Battesimo se non è mai stata percepita in un atto di impegno personale e autentico?
Il cammino di conversione penitenziale deve essere un cammino che ci permetta di ritrovare quella forza sorgiva del Battesimo che forse alcuni non hanno mai esperimentato perché non hanno espresso, in modo personale e coerente, la loro donazione a Dio. Quella donazione che siamo chiamati ad esprimere nel Sacramento dell’Eucaristia, nel Sacramento della Confermazione, nella professione di fede, in un corso di Esercizi Spirituali che ci faccia comprendere la forza del messaggio salvifico di Dio. Senza questa prima esperienza, la Confessione è privata del mordente che dovrebbe avere come nuova azione di Dio che riconduce l’uomo nella pienezza dell’immersione nello Spirito Santo, propria della grazia. del Battesimo e della Cresima.
La gioia cristiana
Qual è l’oggetto dell’atto creativo e restitutivo che si chiede a Dio di compiere? È un cuore puro, è la gioia.
La Scrittura indica la gioia come l’esperienza fondamentale del cristiano, esperienza che corrisponde ad un cuore puro, pulito, ad un cuore che non si accusa perché è stato immerso nell’amore del Padre, perché ha visto Dio Padre buono che lo ha accolto e rifatto completamente.
La gioia è l’esperienza fondamentale che dovremmo recepire in noi. Eppure tante volte, ripensando alla nostra esperienza cristiana, dobbiamo leggerla come esperienza che si trascina stancamente. Non perché la gioia non sia dentro di noi – in noi, infatti, c’è la forza dello Spirito Santo e tutti l’abbiamo – ma perché non la esprimiamo, non le apriamo la via e così resta nascosta, quasi impercettibile.
Lo spazio alla gioia è il momento della preghiera, dell’adorazione, del silenzio, del canto, del dialogo sul Vangelo; è il momento del sacrificio, del dono di sé, della rinuncia; è il momento del canto interiore. In questi momenti la gioia, che non è nostra bensì dono gratuito di Dio, scoppia dentro di noi fino a sorprenderci. « Crea in me, o Dio, un cuore puro… rendimi la gioia di essere salvato.. » È la gioia della salvezza di Dio che mi accoglie, mi ama e mi salva.
È la gioia della donna adultera di cui parla il Vangelo di Giovanni (8, 1-11). Questo brano non si trova in molti manoscritti dei Vangeli, pur essendo antichissimo e pur facendo parte della primitiva catechesi cristiana. Non vi si trova perché, probabilmente, è stato ritenuto pericoloso, dal momento che non mette abbastanza in luce lo sforzo penitenziale della donna adultera! Sembra un brano che faciliti la colpa, il peccato, la deviazione morale. Tuttavia chi lo ha letto in questo senso e lo ha poi tolto da molti manoscritti e codici delle Scritture, non ha capito il perdono creativo di Dio, la forza rinnovatrice del suo Spirito nel cuore dell’uomo, la capacità che Dio ha di fare un uomo diverso, non semplicemente come risultato dello sforzo della buona volontà umana ma per il potere creativo dello Spirito.
La gioia, che la donna quasi non esprime a parole, è l’immagine di ciascuno di noi, salvato  realmente dalla morte da una parola di perdono di Cristo.
La certezza del perdono
Il proposito che possiamo fare non è semplicemente una scommessa sul futuro, non è una previsione di ciò che saremo perché nessuno è profeta su di sé, non è la certezza di riuscire a dominarsi pienamente.
Il proposito è la certezza della forza che emerge dal condono di Dio. Se Dio mi ama, se Dio mi perdona, io posso chiedergli: Signore, fammi essere diverso! Desidero, e tu lo sai, essere altro da ciò che sono stato! Il proposito è in questa supplica che a poco a poco lasci spazio alla gioia e alla forza dello Spirito dentro di me. È l’esperienza di S. Agostino:
Ma tu, o Signore, guardasti all’abisso della mia morte e, nel profondo del mio cuore, distruggesti l’abisso della corruzione… Come subito mi apparve soave l’essere privo di quelle false dolcezze che prima avevo paura di perdere ed ora invece mi era gioia il lasciarle! Eri tu che le allontanavi da me, tu, o dolcezza vera e somma; le allontanavi e penetravi tu al loro posto, tu più dolce di ogni voluttà ma non per la carne ed il sangue; tu più luminoso di ogni luce ma intimo più di ogni segreto; tu sublime più di ogni grandezza, non per quelli però che sono alti di se stessi. Ormai il mio spirito era libero dalle dolorose preoccupazioni dell’ambizione e del guadagno e della lebbra di passioni inquiete e libidinose. Balbettavo le prime parole a te, mia lucé, ricchezza e salvezza, o Signore Dio mio (Dalle Confessioni, IX, 1).
Domande per noi
Propongo tre domande per la riflessione:
Ho fiducia che Dio possa creare in me un cuore nuovo? Oppure vivo rassegnato alla mia debolezza, dicendomi che non c’è niente da fare perché sono fatto così?
Ho fiducia nella forza battesimale dello Spirito che è in me e che il Sacramento della Riconciliazione ricrea, con atto creativo, dentro di me? Qui possiamo pregare: « Signore, accresci la mia fede. È poca ed è per questo che sono sempre lo stesso. Mi rassegno troppo facilmente ad essere ciò che sono mentre Tu mi chiami ad accettare di essere molto amato da Te, chiamato da Te a qualcosa che io desidero dal più profondo di me stesso ».
Ho fiducia che Dio possa creare cuori nuovi? Questa domanda concerne il modo con cui guardo gli altri. Spesso li guardo come incorreggibili e le loro azioni come ormai inevitabili e non faccio niente per aiutarli perché non ho fiducia nella forza creativa dello Spirito. Spesso mi lamento degli altri, non prego per loro, ritengo di aver subito dei torti e penso che, mentre io posso convertirmi, per loro non ci può essere il dono della conversione.
Do spazio alla gioia della mia salvezza? Le permetto di esprimersi? In che cosa potrebbe esprimersi in me? Forse in un momento di riflessione silenziosa e quotidiana su una pagina del Vangelo; forse in un sacrificio affrontato con decisione; forse in una parola di perdono e di amicizia concessa francamente e senza reticenze.
Preghiamo gli uni per gli altri perché il nostro cuore si apra alla gioia della salvezza che viene dal Signore, alla gioia di ciò che Dio opera in noi. Preghiamo perché il nostro cuore sappia credere alla forza divina di salvezza e possa avere la pazienza e l’amore di essere, se il Signore lo vuole, strumento di questa forza di salvezza.
5
La confessione dei peccati
Dal Vangelo secondo Luca: 18, 9-14
Disse ancora questa parabola per alcuni the presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come,gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermato si a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato ».
Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
A questo punto delle nostre. riflessioni sul Salmo 50 siamo in grado di comprendere meglio in che cosa propriamente consiste la « confessione» dei peccati. Il tema è molto importante per il nostro cammino di riconciliazione. D’altra parte l’accusa dei peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre un senso di disagio e pone diverse domande. Cerchiamo innanzitutto di specificare il disagio e le domande.
Il disagio per il contenuto dell’accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora al sacerdote dicendo: « Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ». Altre volte, al contrario, non sappiamo come esprimerci: « Mi aiuti perché non so come dire, sono confuso, ho dentro qualcosa di grosso ma non so proprio come dirlo ».
Il disagio che nasce dalla forma, dall’atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa un’autoaccusa: Ho commesso questo, ho fatto quest’altro, sono colpevole della tal cosa.
In un quadro più psicologico, l’accusa sfocia in un’autocritica che rischia di scivolare verso l’autogiustificazioneMi sono cioè autocriticato così bene da essere riuscito a chiarirmi a me stesso e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dioil perdono diventa accessorio, aggiuntivo e di fatto così si rinnega il Vangelo del perdono.
Oppure si cade nell’eccesso opposto, nell’autolesionismoci si accusa allora senza fine, con una pervicacia, con una crudeltà verso se stessi che è segno di un non equilibrato senso della confessione dei peccati.
Nascono quindi le domande sul valore: che valore ha l’accusa dei peccati? Quale valore costruttivo della personalità contiene? Perché è necessaria l’accusa? Non è meglio lasciare che ciascuno dica dentro di sé in maniera generica: ho peccato!? Oppure non è meglio che lo riconosca attraverso un gesto, battendosi il petto, senza entrare in un dettaglio faticoso e talora fastidioso come è la confessione dei peccati? Sono dunque problemi che riguardano il contenuto, la forma, il valore dell’accusa.
Il contenuto della confessione
Nella nostra riflessione ci lasciamo guidare dal versetto 6 del Salmo 50 che abbiamo già meditato e che dice: « Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto ».
La prima cosa che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico. Qui non c’è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho sbagliato.
Siamo piuttosto in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male « ai tuoi occhi».
L’ambito non è di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso: l’ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.
E tuttavia il dialogo appare generico. Ci sembra generico come generiche sono altre espressioni del Salmo: Riconosco la mia colpa (quale colpa?); il mio peccato mi sta sempre dinanzi (quale peccato?); contro di te, contro te solo ho peccato. Il Miserere, stranamente, non specifica la realtà della colpa e del peccato e suscita in noi la domanda: è necessario, è utile andare più in là? Non potremmo fermarci a questa dichiarazione generica che è, in fondo, anche quella del pubblicano del Vangelo: « Dio, abbi pietà di me peccatore! »?
In realtà, la Sacra Scrittura ci dà, in altri passi, degli esempi di confessioni meno generiche. In alcune pagine abbastanza note, ad esempio nel cap. 9 del libro di Esdra, vediamo che, a partire da un peccato specifico che riguarda il costume sociale del popolo di Israele, segue prima un’accusa: Hanno profanato la stirpe santa con le popolazioni locali, i magistrati e i capi sono stati i primi a darsi a questa infedeltà. E poi nasce la preghiera di confessione: «Caddi in ginocchio, stesi le mani al mio Signore e dissi: Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te, mio Dio, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa» (9, 5-6) . Vengono quindi espresse tutte le conseguenze di queste colpe e infine si riprende la descrizione specifica di quanto è avvenuto: «Abbiamo abbandonato i tuoi comandi che avevi dato per mezzo dei tuoi servi… il paese di cui andate a prendere possesso è un paese immondo… noi non abbiamo obbedito ai tuoi comandi di purità, benché tu, Dio nostro, ci abbia punito meno di quanto meritavamo ». È un esempio, che sarebbe interessante esaminare particolarmente, di una confessione specifica di ciò che è avvenuto e di ciò di cui ci si pente. Un’altra celebre confessione delle ribellioni specifiche di Israele la troviamo al cap. 9 del libro di Neemia: Tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… Anche quando si sono fatti un vitello di metallo fuso e hanno detto: Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto, e ti hanno insultato gravemente, tu, nella tua misericordia, non li hai abbandonati nel deserto (9, 17-19).
Ci sono dunque nella Scrittura, qui e altrove, degli esempi di confessione dove l’accusa esprime la realtà di cui ci si sente colpevoli davanti a Dio. Se noi, dopo aver riflettuto su questi esempi, ritorniamo al Salmo 50 e lo leggiamo nel contesto del Salterio in cui è posto, ci accorgiamo che siamo anche qui di fronte ad un’accusa specifica, ben determinata che si trova nel Salmo immediatamente precedente e che, con il 50, sembra costituire un’unità liturgica. I Salmi 49 e 50 (50 e 51 nella numerazione ebraica) erano, infatti,una liturgia penitenziale che iniziava con l’accusa circostanziata da parte di Dio e con l’accettazione di questa accusa da parte dell’uomo.
Ascoltiamo la requisitoria che Dio fa nel Salmo 49:
Se vedi un ladro corri con lui e degli adulteri ti fai compagno. Abbandoni la tua bocca al male e la tua lingua ordisce inganni, Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e dovrei tacere?.. (vv. 18 ss.).
Il Salmo 50 ‘emerge chiaramente come rispostaRiconosco la mia colpa… Contro di te, contro te solo ho peccato… sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.
E poi segue la preghiera:
Purificami con issopo e sarò mondato… fammi sentire gioia e letizia.
Da tutte queste parole della Scrittura, possiamo cogliere quanto sia la Parola di Dio che redarguisce l’uomo e lo interpella sul suo peccato.
L’esame di coscienza – ora possiamo coglierlo meglio – è il mettersi di fronte alla Parola di Dio non come quadro etico di riferimento, ma come Parola che interpella, che rimprovera con quella forza d’amore che le è propria per fare emergere la scintilla della salvezza e la possibilità del perdono.
Il contenuto dell’accusa non è un cercare a tastoni qua e là qualcosa da dire, non è il faticare nel dire, non si sa come, qualcosa che abbiamo dentro: è un rispondere all’interpellanza della Parola di Dio che ci illumina e ci rimprovera. Lasciandoci interpellare e rimproverare dalla Parola noi ci mettiamo nella condizione umile, semplice e chiara di confessare: Sì, è vero, questo l’ho fatto, Signore: hai ragione, ma tu crea in me un cuore nuovo!
Questo non vuole evidentemente dire che l’accusa dialogica debba sempre riferirsi materialmente a una parola del Vangelo. È una risposta a Dio che si rivolge a noi con amore e con forza. Dio ci ama e per questo non ci blandisce, non ci lusinga con parole vane o vanamente consolatorie, ma ci interpella con la forza della Scrittura, del magistero della Chiesa, della parola di coloro che ci amano e ci parlano a nome di Dio. Il processo che cambia l’uomo in verità non è un giostrare con peccati fittizi o con atteggiamenti imprendibili: è un metterei nel quadro dell’Alleanza e riconoscere che l’Alleanza, come interpellanza di Dio, ci trova spesso mancanti in questo dialogo di amore e richiede un dialogo di pentimento e di riconciliazione.
L’atmosfera della confessione: la « todà »
Se leggiamo attentamente i Salmi 49 e 50, che abbiamo collegato in una unità liturgica, notiamo che la radice ebraica a cui si fa riferimento per indicare la confessione, è la parola todà oppure todarabbà, che vuol dire: grazie.
Ogni volta che in Israele si chiede un favore o si va a comperare qualche cosa, la risposta è: todà, grazie; todarabbà, grazie tante. Questa è la parola-chiave dei due SalmiSignifica non solo «grazie» ma pure « lode», confessione di lode e ancora confessione di peccato. La parola è sempre la medesima.
La riflessione sulle grandi preghiere di accusa e di confessione che troviamo nella Scrittura, come quelle di Esdra e di Neemia e poi quella del cap. 3 di Daniele, ci fa scoprire che c’è una sintesi di lode, di ringraziamento e di accusa:
Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te. Dal giorno dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli.Ma nella nostra schiavitù Tu non ci hai abbandonato, Tu ci hai fatto rivivere, ci hai fatto grazia, hai liberato un resto di noi; il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi, ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù (Esd. 9, 6-8).
La confessione e la lode si alternano: l’atmosfera è quella della «confessio laudis» e della «confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita, non quella dell’autolesionismo e dell’amarezza. Del resto, chi conosce bene il libro delle Confessioni di S. Agostino, sa come questo grande Santo ha potuto congiungere meravigliosamente, nella sua opera, la confessione di lode con la confessione dei propri peccati.
Leggiamo un esempio ancora dalla preghiera di Neemia:
Alzatevi, benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il Suo nome glorioso, che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode… Tu, Tu solo sei il Signore. Ma noi ci siamo comportati con superbia: i nostri padri hanno indurito la loro cervice, si sono rifiutati di obbedire. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… hai concesso il tuo spirito buono. Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati. Al tempo della loro angoscia hanno gridato à Te e Tu li hai ascoltati (cfr. Ne. 9).
Questa lunga preghiera è un continuo intreccio di lode, di ringraziamento, accusa e riconoscimento della colpa in cui l’uomo trova la sua verità, trova l’umiltà e la gioia di riconoscere la sua povertà davanti a un Dio grande e buono.
Sarebbe anche bello soffermarsi a commentare, nello stesso senso, il cap. 3 del libro di Daniele là dove è riportata la preghiera di Azaria:
Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri, Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto. Noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te; non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato! (vv. 25 ss.).
La preghiera è simile al nostro Salmo 50, ne riprende alcune espressioni ampliando il senso di lode e di confessione del peccato. Il confessarsi nella lode era talmente abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come gli altri uomini» (Lc. 18, 9-14). L’errore del fariseo, che pure inizia con la todà, sta nel congiungere la «confessio laudis » con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano, con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire: Tu sei grande, misericordioso, potente e io sono povero. Tu mi salvi e io ti lodo per la tua grande potenza. Ecco dunque l’atmosfera, il tono, il ritmo che dovrebbe avere la nostra confessione: l’atmosfera della todà.
Il valore del perdono
Personalmente mi è stato molto utile, per chiarire i non pochi problemi riguardo al tema del perdono di Dio o del giudizio salvifico di Dio sull’uomo, distinguere, nel Nuovo Testamento, tre tempi. Nel linguaggio neo-testamentario si direbbe: tre « kairòi », tempi della Storia di salvezza, diversi l’uno dall’altro, in cui Dio esercita il giudizio sull’uomo peccatore.
a) Un primo tempo è quello del perdono battesimale. È il perdono o condono esercitato sull’uomo che fa il primo passo per entrare nell’Alleanza chiedendo il Battesimo. È il primo grande perdono di Dio che si può chiamare meglio un condono « totale»Dio decide in assoluta gratuità di concedere grazia e misericordia: non pone alcuna condizione, neppure un minimo di buona condotta, perché tutti hanno peccato e tutti hanno bisogno della misericordia divina. Chiede soltanto la fede nel Figlio suo, Messia e Salvatore: se credi in Gesù Cristo, fatti battezzare e sarai salvo. Il peccatore è perdonato qui con un perdono fondamentale e viene creato così di nuovo, viene fatto figlio, entra nell’Alleanza. È un giudizio dall’Alto di assoluto condono rispetto alla condizione umana di peccato.
b) Un secondo tempo è quello del perdono penitenziale o del giudizio salvifico di perdono nel dialogoUna volta che l’uomo è entrato nell’Alleanza con Dio rinascendo come cristiano nella Chiesa mediante il Battesimo, se egli manca gravemente agli impegni della nuova Alleanza, ferisce Dio, Cristo, la Chiesa e il giudizio di salvezza gli è offerto in un colloquioMentre prima del Battesimo non occorre colloquio salvifico né accusa dei peccati, per chi è già entrato nell’Alleanza il giudizio salvifico postula il dialogo. La Parola di Dio redarguisce l’uomo che riconosce il suo torto specifico, si riconosce peccatore, chiede di essere rinnovato dalla potenza dello Spirito («Crea in me, o Dio, un cuore nuovo») e Dio ricrea il cuore del peccatore. C’è quindi l’accusa del peccato e l’atto di perdono in un dialogo tra Dio e l’uomo che si svolge nell’ambito della Chiesa, di quella comunità che è stata ferita dalla rottura dell’Alleanza.
c) Un terzo momento è quello del giudizio retributivo. Il Nuovo Testamento vi accenna chiaramente e non dobbiamo trascurarlo se non vogliamo svilire il dono di Dio.
Alla fine di una tappa storica, alla fine di una esistenza singola, alla fine della storia, il Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti, per dare a ciascuno secondo la sua condottaNel giudizio retributivo non c’è più condono né dialogo: c’è il giudizio secondo verità. La serietà del dialogo penitenziale di accusa sta nel porsi giustamente, in maniera corretta, tra il condono battesimale globale, in cui l’uomo è salvato con la semplice adesione di fede a Cristo; e il giudizio finale in cui l’uomo viene, rigorosamente pesato secondo le sue opere. Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e aiuta l’uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi con fiducia al giudizio di Dio. C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale: in esso si rivela la bontà di Dio che, mediante la Chiesa, restituisce gradualmente l’uomo alla coscienza della sua dignità e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori.
Domande per noi
Propongo quattro domande per la riflessione personale.
Mi lascio redarguire dalla Parola di Dio? Considero la Parola non soltanto come istruttiva, consolatori a ma anche come Parola che mi interpella e mi ammonisce, divenendo il punto di partenza del dialogo penitenziale?
Vivo l’accusa dei peccati come vero dialogo con la Chiesa nell’ambito dell’Alleanza? O la vivo, invece, come monologo affrettato in cui faccio semplicemente un’autoaccusa, un autolesionismo che mi lascia freddo e amaro?
So unire la «confessio vitae» con la «confessio laudis », sia nella preparazione alla confessione che, talora, nella confessione stessa, dicendo: desidero ringraziare Dio perché è stato buono con me e di fronte a ciò che Egli ha fatto per me risalta ciò che io non ho saputo fare per Lui o che ho fatto contro di Lui? So unire la « confessio laudis » con la « confessio vitae », in modo da rendere il mio dialogo ricco e vero come il dialogo del Salmista, come il dialogo delle preghiere penitenziali dell’Antico Testamento che abbiamo ricordato?
So rimproverare altri? La domanda forse può stupire: in realtà deriva come conseguenza sociale di ciò che abbiamo detto, nell’ambito familiare, professionale e civile. Capisco che la Parola di Dio non è soltanto stimolo, consolazione ma è anche rimprovero, forte e pieno di amore? E non c’è cosa più difficile che fare un rimprovero vero e pieno di amore! Per questo molta gente, oggi, preferisce passare sopra, preferisce lamentarsi, criticare davanti o dietro le spalle, preferisce accusare vanamente e genericamente. Sono pochi coloro che hanno la forza di fare un rimprovero modellato sulla Parola di Dio, cioè vero, giusto, penetrante, capace di scuotere e, insieme, pieno di amore, capace di instaurare un dialogo di speranza, un riconoscimento che accoglie, che sa vedere ciò che si è fatto e quindi restituisce alla verità quella persona che, forse, noi ci accontentiamo solo di denigrare o di criticare perché non vogliamo veramente il suo bene. Nel tempo del Nuovo Testamento era molto comune la pratica della correzione fraterna, pratica che poi si diffuse nella Chiesa mentre oggi sembra un po’ dimenticata. « Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te, va’ e correggilo da solo a solo e avrai guadagnato il tuo fratello. »
Quante volte noi non facciamo così! Quante volte non affrontiamo il nostro fratello con amore, per aiutarlo! Abbiamo paura di amare così come Dio ci ama.
Preghiamo allora gli uni per gli altri dicendo:
« Signore, aprici gli occhi perché noi possiamo conoscere la ricchezza delle tue parole e possiamo esprimerla come a te piace. Donaci di ritrovare la gioia della tua presenza!
Signore, aiutaci a fare una confessione sacramentale che ci riporti nella verità e ci dia la forza di partecipare alla tua Parola che ama, rimprovera e salva!
 ».
6
La penitenza
Dal Vangelo secondo Luca: 19, 1-10
Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore! ». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto ». Gesù gli rispose: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo, il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».
Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione,
Vogliamo cercare il volto del Signore meditando su alcune delle parole finali del Salmo 50 là dove dice: « Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione » (v. 21).
In realtà, gli esegeti si pongono il problema se questi ultimi versetti, a partire dal v. 17, e soprattutto il v. 20, appartengano o no al Salmo. Alcuni li ritengono un’appendice liturgica, di carattere nazionale, che a questo punto si aggiunge per trasformare un canto di supplica individuale in un canto collettivo. Si parla, infatti, di Sion, di Gerusalemme, delle sue mura e dei sacrifici: tutte realtà che riguardano il culto del tempio e la stessa vita civica. Nei versetti precedenti, invece, c’è una persona che dialoga con Dio in un crescente cammino di riconciliazione.
Risonanze politiche del Salmo
Ci troviamo dunque di fronte ad una visuale ampia, allargatanella quale il cammino individuale va a sfociare nella vita liturgica dell’intera comunità di Israele, anzi dell’intera città.
Potremmo dire che siamo chiamati a meditare sulle risonanze comunitarie e sociali del Salmo penitenziale e del cammino di riconciliazione che esso ci propone. Non c’è riconciliazione sociale, civile, politica senza la conversione dei cuoreE viceversa che non c’è conversione del cuore senza ripercussione sulla collettività.
È su questo sfondo che desideriamo approfondire il momento del Sacramento della Riconciliazione che è chiamato appunto la «penitenza» o « soddisfazione ». Si tratta cioè di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote confessore ci chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della nostra conversione.
La penitenza
Quando io, come ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla « penitenza », sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote. Egli, infatti, si domanda: Quale penitenza è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti? Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, un suo momento di grazia? Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico? Ecco che allora il confessore spesso sfugge a questa difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo. Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del Sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall’abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.
D’altra parte sono convinto – e lo siamo tutti – che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza. È vero che gli è vicina in ogni tappa del Sacramento: nell’esame di coscienza aiutando con le domande; nel momento del « dolore» suggerendo le parole; invitando al proposito con l’esempio dei santi; soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore. Nel momento di suggerire la « penitenza », però,la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi vicina al cammino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità.
Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti. degni di penitenza », segno di un cuore che si vuole rinnovare. Abbiamo così individuato il problema emergente dalla lettura degli ultimi versetti del Salmo.
L’uomo Zaccheo
Tenendo ora presente la difficoltà che la « penitenza» pone al sacerdote che amministra il Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Lc 19, 1-10). Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l’uomo e Gesù: è un racconto storico singolare perché esprime una realtà permanente.
In questo incontro, l’uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterneche sono, alcune, la premessa e, altre, la conseguenza della parola di perdono di Gesù.
a) L’azione interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. È un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare « estatico »,che fa’ uscire cioè Zaccheo fuori di sé. Non è infatti spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, ad imporgli di fare le cose che sta facendo! È un profondo desiderio che lo muove dal di dentro e che è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un’azione esterna.
b) L’azione esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un alberoStupisce che un uomo come lui, un impiegato ben noto e odiato, si metta a correre per la strada, e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario. È una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria. Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua ».
Questa parola di familiarità sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.
a)    L’azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
b)   L’azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinariaLa parola di Zaccheo: «Signore, dò la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di « penitenza» della sua riconciliazione.
Gioia e proposta della penitenza
Tuttavia ci sono ancora due sottolineature da fare in questo cammino di Zaccheo.
Innanzitutto la gioia con cui compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi, diremmo, sconsideratamente generoso, al di là di ogni calcolo. Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l’altra metà non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall’amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è di lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione. Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.
La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuoi fare e Gesù l’approva.Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui. Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di « penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). È la sua personale, storica, precisa penitenza.. Gesù l’approva e gli dice: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa ».
Possiamo ritornare alla nostra domanda iniziale: Quale penitenza adeguata al cammino di chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione? Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza? La risposta suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza. Invece di chiedere a me stesso, a me sacerdote: « che cosa devo dare come penitenza? », posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo fratello che è venuto da me: « quale penitenza credi che ti sarebbe utile? quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo momento al tuo cammino? ». Ciascuno, quindi, è in grado di aiutare il confessore nello stabilire una penitenza che sia segno ed espressione di un autentico itinerario penitenziale. Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, formale, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto; suggerire qualche volta che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito Santo di purificazione, invocandolo nei nostri incontri con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo… non privarmi del tuo Santo Spirito, rendi mi la gioia di essere salvato… ».
Domande per noi
Vorrei allora proporre due domande per la vostra riflessione silenziosa.
La gioia di Zaccheo accompagna in me il Sacramento della Riconciliazione? E se non lo accompagna abitualmente, qual è la causa?Parlo evidentemente di una gioia profonda, non superficiale, di una gioia che potrà anche essere tenue nella sua risonanza sensibile e che però al fondo ci deve essere e deve muovere lo spirito alla generosità.
Se non c’è questa gioia di fondo, il motivo va forse ricercato in qualche modo sbagliato di vivere il cammino di riconciliazione, a cui abbiamo accennato. Un’idea sbagliata di Dio, della sua misericordia, della sua iniziativa di amore; oppure un non affidarsi abbastanza alla Chiesa nel nostro cammino; o un dolore che non parte da un vero dialogo con Gesù, da una contemplazione interiore del Padre. Sono diversi motivi che ciascuno può evocare per comprendere come mai la gioia non accompagna abitualmente il Sacramento della Riconciliazione.
- La seconda domanda richiede una riflessione silenziosa più lunga: se io dovessi suggerire al sacerdote confessore una penitenza adatta per me, in questo momento della mia vita, che cosa direi? Questa è una domanda esigente perché ci impegna ad individuare non solo le nostre mancanze, i peccati ma anche le inclinazioni negative, ad individuare quegli atti e quei gesti che possono colpire alla radice il male che c’è in me. Gesti di penitenza quindi che sono un frutto degno della conversione personale. Se mi accorgo, ad esempio, che i miei peccati, le mie mancanze derivano dall’egoismo, affiorerà come penitenza adeguata un atto di generosità autentico, che mi costa davvero. Se mi accorgo che alcuni miei peccati derivano da pigrizia, emergerà come penitenza una vittoria sulla mia pigrizia, sulla golosità, sulla curiosità, sulla morbosità, su tutto ciò che rende la mia vita pigra, pesante, neghittosa. Se mi accorgo che le mie mancanze derivano da antipatie; dalla non accettazione di alcune persone, allora emergerà come penitenza un gesto di attenzione per queste persone, un gesto semplice ma che mi coinvolga davvero.
Preghiamo il Signore dicendo:
« Signore, noi vogliamo offrirti frutti degni di penitenza non solo per noi ma per la Chiesa intera, per tutta l’umanità, per tutta questa città, perché ci sentiamo corresponsabili del cammino di conversione dell’umanità intera. Sciogli, o Signore, i nostri cuori, la nostra lingua, le nostre mani perché possiamo conoscere ciò che veramente è segno di un cammino nuovo, ciò che è un passo avanti deciso verso di Te! Non permettere che cadiamo nell’abitudine, nella pigrizia, nella monotonia: rendici santamente inquieti perché mediante un cammino serio ed autentico verso di Te possiamo ritrovare in noi la sorgente della gioia. Te lo chiediamo per noi e te lo chiediamo per ciascun uomo e per ciascuna donna che nella nostra città, vive ed opera ».
7

Testimoniare la misericordia
Dal Vangelo di Giovanni: 4, 1-39
Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: « Dammi da bere ». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: « Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? ». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: « Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: . “Dammi da bere! “, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva ». Gli disse la donna: « Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i ‘suoi figli e il suo gregge? ». Rispose Gesù: « Chiunque beve di quest’ acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna ». « Signore, gli disse la donna, dammi di quest’ acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. » Le disse: « Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui ». Rispose la donna: « Non ho marito ». Le disse Gesù: « Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero ». Gli replicò la donna: « Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite, che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare ». Gesù le dice: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità ». Gli rispose la donna: « So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa ». Le disse Gesù: « Sono io, che ti parlo ».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: « Che desideri? », o: « Perché parli con lei? ». La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: « Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ». Uscirono allora dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: « Rabbì, mangia ». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: « Qualcuno forse gli ha portato da mangiare? ». Gesù disse loro: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato, altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro ». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: « Mi ha detto tutto quello che ho fatto ».
Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. …la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
Siamo giunti all’ultimo dei nostri incontri e vogliamo riflettere sulla necessità di essere testimoni della misericordia divina, di vivere la missione della misericordia. Ci ispiriamo ad alcune tra le parole della parte finale del Salmo 50, là dove viene espresso appunto il proposito di missionarietà: « Insegnerò agli erranti le tue vie..: la mia lingua esalterà la tua giustizia… apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Colui che ha percorso il cammino della penitenza sente questa missione come momento conclusivo di ciò che ha fatto e che ha vissuto.
L’esperienza del salmista
Notiamo innanzitutto che il salmista esprime il suo impegno missionario in una maniera precisa, che corrisponde all’itinerario da lui percorso: farò capire a chi è senza strada che una strada c’è, anzi che tu, o Signore, gli stai venendo incontro. Lo farò capire non come uno che fa una lezione o una esortazione ma come testimone di ciò che è avvenuto a me.
Ecco allora la forza di questa testimonianza: chi ha percorso un genuino cammino penitenziale, può aiutare altri a capire che c’è una via d’uscita: e non semplicemente una via d’uscita generica o stoica o eroica ma una via d’uscita in cui Dio stesso viene incontro, in Gesù, come è venuto incontro a me. Più di una volta si verifica nella vita, infatti, che proprio chi è uscito da qualche tenebroso tunnel ha una singolare capacità di dire ad altri: coraggio, anche per te c’è sicuramente una via di uscita!
Questa viene espressa dal salmista in modo aperto e libero, quasi gli fosse ridata la parola. Le tre realtà che segnano la parola umana – la lingua, le labbra, la bocca – vengono qui coinvolte nell’impegno di esprimersi missionariamente. Lingua, labbra, bocca si aprono non per una imposizione, non perché il testimone sente un dovere che grava sopra di sé, bensì per una effusione che gli viene dalla pienezza che ha dentro di sé. Sappiamo molto bene che una testimonianza a mezza bocca è poco efficace, talora è quasi una controtestimonianza. Quella invece che viene dall’esultanza della lingua, dal bisogno della bocca che si apre, dalle labbra che si muovono con gioia, è veramente degna di essere rispettata e di essere ascoltata.
Possiamo subito domandarci: com’è la mia testimonianza? È una testimonianza a mèzza bocca, in cui le labbra si muovono a fatica e annaspo in cerca delle parole? In questo caso non nasce da una esperienza: nasce piuttosto da qualche cosa che non è ancora entrato dentro di me.
Oppure, è una testimonianza spontanea, libera, gioiosa, in cui le parole vengono fuori da sole? In questo caso sta operando in me la tua grazia, Signore, è il tuo Spirito che mi apre la bocca perché io possa cantare le tue lodi con amore, perché io possa insegnare che c’è una strada a coloro che ritengono non ci sia più niente da fare. Apri sempre, Signore, la mia bocca soprattutto di fronte alle situazioni difficili nelle quali mi accade di rimanere muto, di non sapere cosa dire e addirittura mi sembra che davvero non ci sia speranza!
L’esperienza della Samaritana
Il Vangelo secondo Giovanni, al c. 4, ci presenta un altro esempio di una bocca che si apre alla testimonianza convinta e convincentela donna samaritana.
È un brano che si potrebbe commentare ripercorrendo, in qualche maniera, le tappe che hanno segnato i nostri incontri, perchéanch’esso indica un cammino penitenziale, un momento in cui la persona giunge alla verità di se stessa di fronte a Cristo e alla verità di Cristo come salvatore e come amico.
E alla fine del cammino, ritroviamo l’apertura del cuore e delle labbra: « La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».
Notiamo la finezza del particolare: « lasciò la brocca ». Questa donna era venuta per attingere acqua, la brocca era la sua ricchezza, ad essa era legata la sua vita quotidiana: eppure in questo momento tutto è dimenticato e la brocca slabbrata, abbandonata sul ciglio del pozzo, è come il segno di una esistenza da cui la donna è ormai uscita, è il segno di un incubo che ha lasciato dietro di sé. A somiglianza dei due discepoli di Emmaus, che interrompono la cena a metà, si alzano e corrono verso Gerusalemme, la Samaritana rifà la strada, corre in città e va ad annunciare quello che le è accaduto. Lo annuncia con parole piuttosto maldestre, in verità: «Che sia forse il Messia? ».
Di per sé non è un annuncio molto efficace, almeno da un punto di vista teologico. Eppure queste parole sono una testimonianza efficacissima perché derivano da una esperienza vissutaLa gente ha davanti una persona che non parla con parole imparate, che non ripete una lezione, ma che parla quasi smozzicando le frasi e però con il cuore e l’affanno di chi ha avuto un’esperienza formidabile, che a fatica si può comunicare. Alla Samaritana si sono aperte le labbra, si è sciolta la lingua e, in una esplosione di gioia, parla con semplicità e con verità della misericordia di Dio verso di lei.
Proclamare la misericordia
Di fronte all’esperienza del salmista e della donna samaritana, noi dobbiamo domandarci quale sia la nostra testimonianza missionaria di misericordia. A noi, infatti, è chiesto di testimoniare quella grazia che ci ha attratto nel cammino penitenziale fatto insieme in questi esercizi.
Nell’enciclica « Dives in misericordia », Giovanni Paolo II esprime questo dovere, che ci compete, in due momenti.
In un primo momento parla del dovere generale della testimonianza:
Occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio in tutta la sua missione, sulle orme della tradizione dell’antica e della nuova Alleanza e, soprattutto, dello stesso Gesù Cristo e dei suoi apostoli (Dives in misericordia, VII).
Testimoniare la misericordia è dunque un dovere del nostro tempo. Il Papa sembra quasi avere l’impressione che la Chiesa abbia bisogno di essere esortata, soprattutto oggi, a prendere coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio.
In un secondo momento indica come si deve dare testimonianza e sottolinea tre modi:
Professandola in primo luogo come verità salvifica di fede e necessaria ad una vita coerente con la fede.
Cercando di introdurla e di incarnarla nella vita, sia dei suoi fedeli, sia, per quanto è possibile, in quella di tutti gli uomini di buona volontà. I
Infine la Chiesa… ha il diritto e il dovere di richiamarsi alla misericordia di Dio, implorandola nella preghiera (ibidem).
È facile comprendere come noi possiamo rendere testimonianza alla misericordia di Dio professandola.
Ogni volta, infatti, che ci accostiamo al Sacramento della Riconciliazione, noi facciamo anche una «confessio fidei », cioè proclamiamo che Dio è Signore della nostra vita, è più grande del nostro peccato, che la sua misericordia trionfa sulla fragilità dell’esistenza umana e sul buio dell’uomo: confessiamo quindi e proclamiamo la misericordia di Dio.
Incarnare la misericordia
Il secondo modo suggerito dal Papa per testimoniare la misericordia divina è più difficile. Non è cosa da poco incarnare nella vita la misericordia di Dio. Anzi, è talmente difficile che talora ci lascia perplessi e sgomenti, ci lascia davvero senza parole e senza capacità di muoverci in questo cammino di missione e di testimonianza. D’altra parte, se non riusciamo a dare testimonianza della misericordia di Dio, ne va della credibilità della Chiesa e della nostra vita di cristiani.
Vorrei fare capire questa difficoltà riflettendo su tre situazioni nelle quali possiamo trovarci.
a) Situazioni o casi ordinari. Che cosa vuol dire introdurre, incarnare la testimonianza della misericordia? Concretamente vuol dire mettere in pratica la domanda del « Padre nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ». Vuol dire saper perdonare, saper comprendere, saper capire, voler perdonare settanta volte sette. E questo è già difficile, per tanti motivi che conosciamo bene. È così difficile che spesso noi lo emarginiamo, questo impegno di perdonare, anche dal nostro orizzonte morale e rimane quindi come qualcosa di inadempiuto a cui non guardiamo in faccia. Eppure è testimonianza necessaria, quotidiana, della misericordia ricevuta da Dio: «Se non perdonerete a chi vi ha fatto del male, neppure il Padre vostro perdonerà a voi» (cfr. Mt. 6, 15).
b) Situazioni o casi più complessi. Sono i casi nei quali c’è in gioco la reciprocità. Dove, cioè, non basta perdonare, quasi fossimo noi soltanto a concedere il favore ad un altro, ma bisogna farsi perdonare, chiedere perdono, assumere l’atteggiamento di chi riconosce che se, è stato offeso ne ha però dato- occasione, che se è stato oggetto di qualche ingiustizia, anche lui però si è comportato in maniera non pienamente giusta. Tutto questo è molto difficile.
C’è un altro caso di reciprocità assai difficile nella vita quotidiana ma che è assolutamente necessario pèrché forma, per così dire, il tessuto della vita. Ne abbiamo già accennato in un precedente incontro. Non basta cioè perdonare, ma bisogna saper camminare con un altro, bisogna saper correggereLa correzione fraterna, così importante per la comunità cristiana, e praticata nella Chiesa primitiva, richiede molto amore e molta umiltà. Tuttavia spesso noi la eliminiamo dal nostro orizzonte di agire perché ci appare troppo rischiosa, impossibile, inefficace e in tal modo non diamo sufficiente testimonianza alla misericordia di Dio.
Vorrei che ciascuno, a partire da me, si interrogasse sinceramente: come viviamo queste occasioni di dare testimonianza, con i fatti, con le opere e non solo con le parole, alla misericordia di Colui che ci ha amato, che ci riabilita, che ci accoglie, che ci rifà dall’interno, che ha fiducia in noi?
c)            Ci sono, infine, le situazioni o i casi conflittuali. Intendo per casi conflittuali quelli in cui ci sembra che la misericordia esiga un certo comportamento mentre l’ordine e la giustizia ne esigono un altro.
Sono certamente situazioni estremamente difficili e non sempre riusciamo a trovare la soluzione soddisfacente: sono situazioni che causano nella Chiesa, nella società, ,nelle famiglie delle grandi sofferenze. Cercando di vivere la misericordia si arriva addirittura a temere di, fare torto o danno ad altri o al bene comune: nasce allora un conflitto tra i valori, almeno apparente, che ci costringe, nella nostra povertà storica; a non saper scegliere oppure a scegliere qualcosa che risulta insoddisfacente, in un caso o nell’altro. Chiunque vive in mezzo a delle responsabilità si imbatte in molti di questi casi che fanno soffrire nella misura in cui ci accorgiamo di quanto siamo lontani dall’essere lungimiranti e veri nella nostra misericordia. Questa sofferenza dobbiamo offrirla a Dio perché è la sola cosa che possiamo fare.
Ci sono poi dei casi in cui il compiere un atto di misericordia comporta un uscire da quel minimo di possesso di noi, che pure è necessario, e allora non lo compiamo. Quante volte persone generose arrivano ad un limite e riconoscono di non poter andare oltre, di non potere fare di più! È il limite intrinseco alla nostra fragilità umana che addolora moltissimo. Andare oltre un certo limite equivarrebbe a spossessarsi di sé e si cadrebbe nell’opposto di quello che si, vorrebbe fare. Questa misura di prudenza necessaria ci fa cogliere come sia difficile dare storicamente una testimonianza pienamente luminosa della misericordia. Non ci resta allora che soffrire e implorare, per noi e per gli altri.
Implorare la misericordia
Il Papa, infatti, nella « Dives in misericordia », dopo aver detto di cercare di introdurre e di incarnare nella vita la misericordia, aggiunge che bisogna « implorarla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che gravano sull’intero orizzonte della vita dell’umanità contemporanea ». Dobbiamo essere certi che questa implorazione è resistenza attiva e vera al male e che dispiace profondamente al nemico di Dio. Mi ha molto colpito un brano di Simone Weil là dove scriveva:
Non è così difficile rinunciare a un piacere, pur inebriante, o sottomettersi a un dolore, pur violento. Lo si vede fare quotidianamente da gente molto mediocre. Ma è infinitamente difficile rinunciare anche a un leggerissimo piacere, esporsi a una semplicissima pena solo per Dio; per il vero Dio, per colui che è nei cieli e non altrove. Poiché, quando lo si fa, non si va alla sofferenza ma alla morte. Una morte più radicale della morte carnale e che fa orrore alla natura stessa.
Invece, è proprio questo il momento di vincere il male: credere, cioè, al valore di una implorazione che non ha un’efficacia immediata connessa col suo esercizio. La nostra preghiera di implorazione, soprattutto nei casi-limite nei quali ci pare di non potere fare altro, è un vero modo di resistere al male. Non dobbiamo dunque avere paura della sterilità e abbandonare la preghiera, come spesso siamo tentati di fare, perché non ci riesce di scuotere immediatamente il male. È per questa nostra implorazione sofferta, che talora ci angoscia fino alle lacrime, che Dio ci darà modo di vedere come usare, anche in quei casi, la misericordia e l’amore e come aiutare veramente coloro che possiamo assistere con il dono di noi stessi.
Conclusione
Ecco che cosa significa e che cosa comporta nella vita essere testimoni della misericordia divina: « Insegnerò agli erranti le tue vie ». Riconoscendo che siamo tutti molto lontani da questa testimonianza seria della misericordia, dobbiamo ritornare alla preghiera creativa del Salmo 50:
« Crea in me, o Dio, un cuore puro» perché non l’ho e tu devi crearlo in me come cosa nuova;
« Rinnova in me uno spirito saldo» là dove il mio spirito si adagia nella fatica e nella paura;
« Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me uno spirito pronto» a essere testimone della tua misericordia di fronte a tanti miei fratelli e sorelle che aspettano questa testimonianza di Te, Padre misericordioso, che mi hai amato e mi hai chiamato, che mi hai fatto camminare quest’anno insieme a molti altri in un cammino di conversione e di misericordia.
Vorrei concludere con le parole di Charles de Foucauld che nel primo incontro abbiamo ripetuto facendole nostre. Dopo aver indicato il Miserere come preghiera in cui l’esperienza dell’uomo è spiegata a se stessa, preghiera quotidiana che innalza l’uomo verso Dio, diceva:
[Questa preghiera] parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini. È dunque una preghiera universale da cui nessuno è escluso e da cui la storia umana, nella sua verità, riceve un coinvolgimento e una presenza degli uni negli altri. In questa preghiera, cioè, noi ci ricordiamo, ci perdoniamo, ci aiutiamo, ci sosteniamo nel cammino difficile della conversione evangelica, nella strada faticosa di chi vuol dare un volto storico credibile a CristoRecitando il Salmo 50 noi viviamo questa fatica e insieme la gioia immensa dello Spirito che si riversa nella nostra esistenza e cresciamo verso l’unità misteriosa di Dio, del Cristo nella storia.
Chiedo al Signore che attraverso la recita del Salmo 50, attraverso il ricordo di questo Salmo che ciascuno di noi conserverà nel cuore, noi possiamo conservare anche la memoria dei momenti meravigliosi che abbiamo vissuto, di questa fraternità nella fede, di questa umiltà nella richiesta di perdono, della fiducia che Lui, il Signore, ci fa camminare illuminati dallo splendore del suo volto e sostenuti dalla grazia del suo Spirito.



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