Nella controversia con gli iconoclasti, l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo era uno degli argomenti principali degli ortodossi, quelli di Oriente e quelli di Occidente. Le raffigurazioni del Signore storicamente note, opere dei suoi veneratori che gli erano più o meno contemporanei[1], erano lungi dall’avere, per gli ortodossi, lo stesso significato che aveva l’immagine non fatta da mano d’uomo alla quale la Chiesa doveva dedicare una festa (il 16 agosto). “Questa immagine, precisamente, esprime per eccellenza il fondamento dogmatico dell’iconografia”[2] ed è il punto di avvio di tutta l’iconografia cristiana.
La leggenda dell’immagine non fatta da mano d’uomo è legata al dogma della Tradizione apostolica: “Ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato (…) e noi abbiamo visto e testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci è stata manifestata – ciò che abbiamo visto e sentito, ve lo annunciamo…. (1 Gv 1, 3)”, insiste nel ripetere l’Apostolo.
La Chiesa conserva le tradizioni che, per il loro contenuto, anche se espresso in forma leggendaria, servono a manifestare ed affermare le verità dogmatiche dell’economia divina. Così la venerazione della Madre di Dio e quasi tutte le feste che le corrispondono sono fondate su tradizioni. In altre parole, la Chiesa conserva le tradizioni che contribuiscono ad assimilare i fondamenti dogmatici della fede, che aiutano lo spirito umano a percepirle. Per questo motivo quelle tradizioni, così come quella dell’immagine non fatta da mano d’uomo e del re Abgar sono fissate negli Atti dei Concili e negli scritti patristici, ed entrano perciò nella vita liturgica ortodossa.
La dottrina della Chiesa ortodossa sull’immagine non è stata elaborata dai padri del periodo iconoclastico soltanto, “l’insegnamento relativo all’immagine è sintetizzato nel primo capitolo dell’epistola ai Colossesi, ed è caratteristico che questo insegnamento sia espresso non come pensiero personale di Paolo, ma come inno liturgico della prima comunità cristiana: «immagine di Dio invisibile, primogenito di tutto il creato» (Col 1, 15-18)[3]. Seguendo il contesto, per il contenuto, questo passo dell’apostolo Paolo è analogo alla preghiera eucaristica[4].
E se qui l’Apostolo non indica il legame diretto tra il Figlio in quanto Immagine del Padre e la sua rappresentazione, questo legame è reso manifesto dalla Chiesa: è questo il brano dell’Epistola di san Paolo di cui la Chiesa prescrive la lettura durante la liturgia della festa consacrata all’immagine non fatta da mano d’uomo. Questa liturgia unisce la leggenda del re Abgar “alla traslazione dell’immagine di nostro Signore Gesù Cristo non fatta da mano d’uomo alla città imperiale”, che è il fondamento storico della festa. Le due commemorazioni sono collocate insieme nella liturgia di quel giorno per via del significato che quella immagine ha per la Chiesa.
Nella leggenda dell’immagine inviata al re Abgar, ciò che colpisce innanzi tutto è la sproporzione tra l’episodio in sé e l’importanza che gli attribuisce la Chiesa. Gli Evangeli neppure lo menzionano[5]. D’altronde il fatto che Cristo abbia poggiato un telo sul suo volto imprimendovi i suoi lineamenti non è per nulla paragonabile agli altri suoi miracoli, guarigioni e risurrezioni. I miracoli, inoltre, non sono prova della Divinità di Cristo poiché anche uomini, i profeti, gli apostoli…, compiono miracoli. In qualunque ambito della Chiesa, generalmente, essi non vengono assunti a criteri. Qui, però, non si tratta semplicemente del fatto che il volto di Cristo si sia impresso su un telo, ma di qualcosa di essenziale; quel volto è la manifestazione del miracolo fondamentale dell’economia divina nel suo insieme: la venuta del Creatore nella sua creazione. È l’immagine, fissata sulla materia, di una Persona divina visibile e tangibile, la testimonianza dell’incarnazione di Dio e della deificazione dell’uomo. È l’immagine attraverso cui si può rivolgere la propria preghiera al suo prototipo divino. Non è solo questione della venerazione della forma umana del Verbo divino, ma di vedere faccia a faccia: “immagine terribile glorifichiamo, resi capaci di vederlo faccia a faccia” (Stico dei Vespri).
Solo questo già rende impossibile qualsivoglia confusione tra questa immagine e il sudario di Torino, confusione che riscontriamo talvolta anche negli ambienti ortodossi. Tale identificazione si verifica soltanto quando non si conosce o non si comprende la liturgia della festa[6]. Qui, la questione dell’autenticità del sudario di Torino in quanto reliquia non ci riguarda. Non insistiamo neppure sull’assurdità, sul semplice piano del senso comune, della confusione tra un volto vivo, che con i suoi grandi occhi aperti guarda l’osservatore, e quello di un cadavere: confusione tra un sudario immenso (di m. 4,36 x 1,10 ) con un piccolo telo usato per asciugarsi quando ci si lava. Tuttavia non si può tacere il fatto che tale confusione contraddice la liturgia e quindi il significato stesso dell’immagine. Ebbene questa liturgia si limita a far risalire l’immagine alla storia del re Abgar, che esprime il suo significato per la preghiera e la teologia e sottolinea spesso e insistentemente il legame tra questa immagine e la Trasfigurazione. “Ieri, sul monte Tabor la luce della Divinità inondò i primi tra gli apostoli per confermare la loro fede (…). Oggi, (…) l’immagine luminosa risplende e conferma la fede di tutti noi: là Dio si è fatto uomo…” (Stico tono 4). Ma ciò che qui viene particolarmente sottolineato, è la portata immediata, diretta, per noi fedeli, di quella luce divina apparsa in Cristo: «festeggiamo, come il salmista, rallegrandoci spiritualmente e proclamando con Davide: siamo segnati dalla luce del tuo volto, Signore!» (Stico dei vespri mattutini). Ed ancora: «Per la nostra santificazione ci hai lasciato la raffigurazione del tuo purissimo volto quando già volontariamente ti preparavi alle sofferenze» (Stico alla litania).
L’immagine del Padre non fatta da mano d’uomo che è Cristo stesso, immagine manifestata nel Corpo del Signore e conseguentemente divenuta visibile, è un fatto dogmatico. Per questo motivo, in qualunque modo intendiamo l’espressione “immagine non fatta da mano d’uomo”, che sia l’apparizione di Cristo nel mondo immagine del Padre, che sia immagine miracolosamente impressa da Lui stesso su un telo, che sia immagine fissata nella materia da mani umane – anche se la differenza è immensa –, essenzialmente non cambia nulla. Questo la Chiesa esprime nel megalinario del giorno del Santo Volto: «Te, Cristo, Datore di vita, magnifichiamo e la gloriosissima immagine del tuo volto purissimo veneriamo». Questa glorificazione in nessun caso può riferirsi all’impronta di un corpo morto, ma si riferisce ad ogni immagine ortodossa di Cristo.
Ogni immagine di Cristo contiene e mostra quanto viene veramente espresso dal dogma di Calcedonia: è l’immagine della seconda Persona della Santa Trinità che unisce in sé senza separazione e senza confusione le due nature, divina ed umana. Questo viene testimoniato nell’icona con l’iscrizione dei due nomi, quello del Dio della rivelazione veterotestamentaria: O ΏN(Colui che è); e quello dell’Uomo: Gesù (Salvatore) Cristo (Unto). «Nell’immagine di Gesù Cristo incarnato abbiamo qualche briciola della rivelazione, non un suo particolare aspetto tra gli altri, ma tutta la rivelazione intera nel suo insieme. Giustamente in questa immagine ci è consentito di vedere insieme la manifestazione assoluta della Divinità e la manifestazione assoluta del mondo divenuto uno con la Divinità. Per questo l’apostolo ci prescrive di provare tutto il resto con questa immagine di Cristo incarnato»[7].
«Dirigi i nostri passi alla luce del tuo volto affinché, camminando nei tuoi comandamenti, siamo giudicati degni di vedere te, Luce inaccessibile». (Stico mattutino)
Da: Il Messaggero ortodosso, n° 112, 1989
numero speciale “Teologia dell’icona”
Traduzione dal Francese del prof. G. M.
Palermo, agosto 2006.
[1] Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,18.
[2] Cfr. Vladimir Lossky, «Le Sauveur acheiropoïète» in Le Sens des icônes, Cerf, 2003.
[3] P. Nellas, «Théologie de l'image», Contacts n° 84, 1978, p. 255.
[4] Paragoniamo i due testi:
«Rendete grazie a Dio che vi ha chiamati all’eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha condotti nel regno del Figlio del suo amore nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito del creato. In Lui sono state create tutte le cose che sono in cielo e sulla terra…» (Col. 1, 12-16).
«È giusto e degno cantare lode a te, benedirti (...) Te ed il Figlio tuo unico ed il Santissimo tuo Spirito; dal nulla ci hai portati alla vita, noi che eravamo caduti, tu ci hai risollevati, e mai hai cessato di operare fino a portarci al cielo e a donarci il tuo regno futuro. Di questo ti rendiamo grazie…» (Canone eucaristico della Liturgia di san Giovanni Crisostomo).
[5] Il re Abgar è venerato nella Chiesa armena. Questa Chiesa non possiede un atto ufficiale di canonizzazione, ma la venerazione di Abgar è stata inserita nel nuovo calendario composto nel concilio che ha deciso di non accettare quello di Calcedonia.
[6] Questa confusione risale probabilmente all’opera di J. Wilson, Le Suaire de Turin, linceul du Christ? (Paris, 1978), dove l’«identità» dell’immagine non fatta da mano d’uomo (il Santo Volto) con l’impronta del corpo morto sul sudario è dimostrata con l’aiuto di ogni sorta di figure geometriche tracciate sul volto di Cristo, o ancora con dettagli come il colore del fondo delle icone (di solito avorio o giallo chiaro) che corrisponde al colore del tessuto. Non è possibile, né utile notare tutti gli errori di quest’opera: sono troppo numerosi.
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