Introduzione
La liturgia bizantina, propria delle chiese ortodosse nate da quella di Costantinopoli, ma anche delle chiese greco-cattoliche, conserva alcuni riferimenti indiretti alla presenza e venerazione delle reliquie della Passione di Cristo provenienti da Gerusalemme[[1]]. Tralasciando la questione dell’autenticità, non si può fare a meno di osservare, in riferimento al tema del Convegno, il nutrito elenco di autori e opere greche che fanno menzione e trattano del Mandylion, reliquia del volto di Cristo, ritenuta perduta da taluni studiosi o reliquia dell’intero corpo, identificabile per altri con la Sindone di Torino: la Dottrina di Addai (IV sec.), Evagrio Scolastico, Acta Thaddaei (VI-VII sec.), Andrea di Creta (+726), il patriarca Germano (729), Giovanni Damasceno (a.754), Giovanni di Gerusalemme (754), il concilio di Nicea II (787), Giorgio Sincello (810), Teofane Cronografo (primi sec. IX), il patriarca Niceforo (815), Teodoro Studita (+826), la lettera sinodale dei tre patriarchi (836), Giorgio Monaco (866), Ps.Simeone Magister, Acta Andreae (900), e in particolare Gregorio Referendario (944), la Narratio Edessena (p. 944), il Trattato liturgico (X sec.), Menologio greco (sec X)[[2]].
Se si pensa che la riflessione teologica dei padri e degli scrittori bizantini normalmente s’ispira all’esperienza e alla vita liturgica, della quale fanno parte integrante le icone e le lipsana (reliquie), non ci si stupirà di trovare una relazione senza soluzione di continuità tra questi aspetti, ma anche di riscontrare un richiamo permanente nel simbolismo di alcuni strumenti e momenti della liturgia e dell’anno liturgico.
Inoltre, a questo aspetto teologico-simbolico si aggiunse, negli autori bizantini medievali, l’idea di considerare la liturgia come ‘ripasso’ cronologico della vita di Cristo, sia attraverso l’iconografia, sia l’innodia e i riti liturgici [[3]]. È l’aspetto tipologico e commemorativo della liturgia.
Abbiamo scelto alcuni campioni di quest’aspetto, evidentemente non senza interferenze del primo, convergenti nel richiamare la deposizione e la sepoltura di Cristo, che è poi il fatto all’origine della reliquia della Sindone e di quelle ad essa collegate.
L’Antiminsion
L’eredità di Gerusalemme, raccolta da Costantinopoli, rivive nelle riproduzioni dei luoghi della Città Santa, a cominciare dal sepolcro [[4]]. L’altare bizantino, normalmente di forma quadrata e sempre rivestito, rappresenta proprio il sepolcro di Cristo. Su di esso, verso la fine della liturgia della Parola, si stende l’Antiminsion: un velo rettangolare (che contiene ai bordi piccole reliquie di santi), con la firma del vescovo che lo ha consacrato e qualche altra iscrizione. Vi è rappresentato il Cristo deposto nel sepolcro; in origine invece, vi si trovava soltanto una croce con qualche breve iscrizione o monogramma, come il corporale della liturgia romana. In origine doveva essere un altare portatile: anti-minsion, ciò che sta in luogo della mensa. La prima testimonianza si trova in Teodoro Studita (+826), ma col nome di dusiastìrion(=sacrificatorio, ara). Poteva essere di legno o di stoffa. Man mano l’antiminsion è stato adoperato anche sugli altari consacrati, per diventare poi, dal sec. XIV obbligatorio sempre, sotto pena d’invalidità della liturgia eucaristica.
I Siri usano un pezzo rettangolare di legno, chiamato tablit; altrettanto fanno i Copti (anch’essi lo chiamano dusiastirion) e gli etiopi (che lo chiamano tabot). Tra i Siri sembra essere usato già nel VI secolo. Questo tablit viene consacrato dal vescovo con il myron o crisma. Mai, però, vi si trovano delle reliquie. Ogni altare deve portare questo tablit, il quale, a sua volta, è anche un altare portatile. Gli Armeni non hanno conosciuto questo elemento, anzi vi è una proibizione nel sec. VIII [[5]]. Queste liturgie delle antiche chiese orientali, anteriori alla bizantina, offrono un interessante raccordo con l’ambiente primitivo gerosolimitano e le sue tradizioni aramaiche, ereditate verosimilmente dall’ambiente apostolico.
La Protesis
Nel rito bizantino è chiamata così la preparazione dei doni per il sacrificio eucaristico, che ha avuto una lunga evoluzione fino al sec. XVI. Avviene, prima della Messa, nell’area del santuario dietro l’iconostasi o nella absidiola chiamata anch’essa protesis, senza che i fedeli possano assistervi. In segreto, perché in origine si trattava di preparativi ovvi per la celebrazione e non si facevano in questo momento; in seguito la segretezza si è caricata di significato, forse per ricordare i preparativi del funerale di Cristo avvenuto in fretta al vespro del venerdì, la parasceve, vigilia della Pasqua, che, come ricorda l’evangelista Giovanni (19, 31), quell’anno coincideva col sabato.
Nel primo caso la Protesis è una piccola mensa dove il sacerdote compie la proskomidia(preparazione) del Sacrificio. Il sacerdote e il diacono dopo aver fatto in segreto alcune preghiere davanti all’iconostasi, entrano nel santuario, baciano l’altare e si lavano le mani. Con molteplici riti viene preparato il pane dell’offerta (prosfora) da cui si ritaglia ‘l’Agnello’, un riquadro con le abbreviazioni greche ICXC NIKA (Gesù Cristo vince), mentre con un’unica formula si infonde vino ed acqua nel calice; poi per commemorare i santi, i vivi e i defunti, vengono estratte varie particole dalla prosfora, che vengono deposte insieme all’‘Agnello’ sul disco, un piatto basso; incensate le offerte e coperte con triplice velo, il più grande detto air che simboleggia la pietra del sepolcro, il sacerdote recita l’orazione d’offertorio. Dopo il congedo, il diacono, tracciato un segno di croce col turibolo, fa l’incensazione della Protesis, quindi della Mensa da ogni lato, a forma di croce, recitando a bassa voce:
Nella tomba fosti con il tuo corpo, negli inferi con la tua anima come Dio, in paradiso con il ladrone, e sul trono sei assiso, o Cristo, con il Padre e lo Spirito, tutto riempiendo, tu che non sei circoscritto [[6]].
Se si omette la preparazione delle offerte e l’orazione di offertorio, che in antico non occupavano questo posto, si osserverà che il rito bizantino non differisce molto da quello caldeo [7], proprio della rispettiva chiesa di tradizione aramaica.
Il Grande Ingresso
Abbiamo detto che l’altare, in tutta la tradizione liturgica orientale, è visto innanzitutto come il sepolcro di Cristo. Perciò (e non in senso contrario, sembra) il pane e il vino portati processionalmente dai diaconi all’altare sono immagine della sepoltura di Cristo o del suo ingresso trionfale negli inferi, scortato dagli angeli, per distruggere la morte con la sua morte.
Teodoro di Mopsuestia (+ 428) nella Catechesi XV, descrivendo il solenne rito dell’ingresso dei Doni per l’eucaristia, sviluppando la teologia e i concetti tipologici, che si troveranno poi in tutti gli autori e riti orientali, non esclusi quelli occidentali, dice che è Cristo che viene condotto alla passione e nuovamente disteso sull’altare per essere immolato:
“Devi considerare dunque che è l’immagine delle invisibili potenze che compiono il servizio (Eb 1, 14), rappresentate dai diaconi… Quando essi (i diaconi) li hanno portati (i doni), è sull’altare che li depongono, per il compimento perfetto della passione. Così noi crediamo in proposito che ormai egli (Cristo) è posto sull’altare come nella tomba e che egli ha già subìto la passione. Perciò alcuni diaconi stendono tovaglie sull’altare, mostrando in tal modo una somiglianza con i lini sepolcrali: essi, poi dopo che l’hanno deposto si tengono ai lati e agitano l’air sul suo corpo sacro e vigilano che nulla cada su di lui, mostrando in tal modo la maestà del corpo sepolto, come avviene presso i potenti del mondo, quando su una lettiga accompagnano i corpi dei loro morti…” [[8]].
I diaconi sono gli angeli sempre presenti alla passione, morte e risurrezione del Signore. Questa “liturgia angelica” li rappresenta mentre agitano ventagli, segno d’onore e di adorazione verso Colui che è deposto. “Tutto questo avviene in un grande silenzio” [[9]]. È il raccoglimento che precede l’inizio della liturgia del sacrificio.
Se l’altare è il sepolcro, i doni che vi vengono deposti, secondo il grande catecheta bizantino, sono immagine della sepoltura di Cristo; lo affermano anche Narsai [[10]] e Ps.Dionigi [[11]]; e lo ripeteranno dal VII al XVI secolo Massimo Confessore, Germano di Costantinopoli, Abraham Bar Lipheh, Ps.Giorgio d’Arbela, Nicola Cavasilas. I canti accompagnano la processione angelica descritta, nel ‘grande ingresso’ dei Doni. In particolare l’inno cherubico dalle prime parole: Noi che misticamente raffiguriamo i Cherubini…[[12]]. Un altro canto più antico è nella liturgia greca di S. Giacomo, cantato ora dai bizantini il Sabato Santo. La prima frase richiama il silenzio descritto da Teodoro di Mopsuestia: “Faccia silenzio ogni mortale e stia con timore e tremore…” [[13]].
Ancor prima dell’elaborazione della tipologia del Grande Ingresso, i padri approfondiscono la teologia della discesa di Cristo agli inferi, mistero che gli orientali celebrano specialmente a Pasqua. Tra i numerosi esempi, il testo dello Ps.Crisostomo, sulla santa e grande Parasceve [[14]]: vi è adottato il salmo 23,7-10, in forma dialogica. Questo dialogo si svolge nella notte di Pasqua, secondo l’uso greco-cattolico melkita, davanti alle porte della chiesa ancora chiusa, quando la processione ritorna in chiesa, dopo il lucernario e al canto: “Sorga Dio e i suoi nemici si disperdano…”.
Dopo che il sacerdote ha tolto i veli dal Disco e dal Calice, e li ha collocati al lato della Mensa, prende l’air dalle spalle del diacono e, incensatolo, ricopre i Doni dicendo:
“Giuseppe d’Arimatea deposto dalla croce l’intemerato tuo corpo, lo involse in una candida sindone con aromi e, resigli i funebri onori, lo pose in un sepolcro nuovo” [[15]].
Segue ancora l’incensazione.
I temi che si sviluppano nei canti che accompagnano la processione dei doni e che si ritrovano, come abbiamo visto, in Teodoro di Mopsuestia, ricordano Cristo portato al sepolcro, contemporaneamente re glorioso che discende agli inferi. I Doni, non ancora sacramento, sono segno e immagine del suo corpo e sangue. Deposti sull’altare, per gli antichi autori sono il simbolo della sepoltura di Cristo; invece l’epìclesis, cioè l’invocazione dello Spirito sul pane e vino, e lo zeòn, cioè l’infusione di acqua calda nel vino consacrato, celebrano la risurrezione ad opera dello Spirito Santo.
I Presantificati
L’azione liturgica in cui i fedeli si comunicano con le specie eucaristiche consacrate in una Messa precedente, prende il nome di ‘Presantificati’ [[16]]: ha i suoi prodromi nella primitiva impostazione delle ferie quaresimali e il suo sviluppo all’interno della liturgia del Venerdì Santo.
Un testo attribuito a S. Sofronio di Gerusalemme (+638) ne parla come di una istituzione antica, risalente a S. Giacomo, fratello del Signore, o a Pietro e altri apostoli [[17]]. J. B. Thibaut intravede un’analogia col cap. IX della Didachè [[18]]. Severo d’Antiochia potrebbe aver reso pubblico e generalizzato il rito dei Presantificati, che dalla Siria si sarebbe poi trasferito a Costantinopoli, ove si sviluppò, assumendo il suo carattere bizantino; questo a partire dal patriarca Sergio (617) che lo prescrive sin dalla prima settimana di digiuno quaresimale [[19]].
Il rito dei Presantificati è particolarmente importante all’interno dello sviluppo della liturgia bizantina del Venerdì Santo, che colpisce per la sua ricchezza a confronto con l’austera semplicità romana dell’ufficio dello stesso giorno; soprattutto se si astrae da quanto v’è di influenza orientale in esso, compreso appunto questo rito che non è menzionato dai più antichi Ordines Romani, testi normativi della liturgia latina altomedievale. Solo la chiesa bizantina in oriente possiede questo rito. Ma se ne può intravedere un parallelo nella solenne azione liturgica romana ‘In passione Domini’.
La struttura dei Presantificati ricalca una liturgia vespertina, in quanto commemora la deposizione di Cristo nel sepolcro. Andrebbe collegata a questa la terminologia e la tradizione dei ‘sepolcri’ tra Giovedì e Venerdì Santo nei paesi latini mediterranei.
L’Epitafio
Un lungo ufficio si celebra a sera del Giovedì Santo, poi la veglia, soprattutto delle donne, prosegue fino alle prime ore della notte. Rivivendo il ruolo delle discepole di Gesù alla sua passione e morte, sono esse in genere a preparare l’Epitafio, una arca con l’icona ricamata o il velo dipinto della sepoltura di Cristo: sullo sfondo della Croce che abbraccia tutto l’orizzonte, il piccolo gruppo fedele compone il Corpo vivificante: la Vergine Maria, la Maddalena e le altre donne, Giovanni, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. È chiamata così in riferimento all’uso di deporlo sul tafon, il sepolcro, che nella liturgia bizantina è l’altare. Questo velo, oggetto di specialissima venerazione il Venerdì e il Sabato Santo, per tutto l’anno è custodito in chiesa con cura, in una teca assieme alle sante icone; ma il Venerdì Santo è deposto sull’altare e su di esso si poggia l’Evangelario. Il lavoro delle donne consiste soprattutto nell’intrecciare e comporre fiori a profusione, di ogni genere e specie, destinati a ricoprire interamente l’arca nella quale è posto l’Epitafio. A lavoro ultimato l’arca, abbondantemente cosparsa di profumi, è esposta all’adorazione dei fedeli per tutto il giorno; a sera poi è portata in processione al canto delle lamentazioni. È suggestiva quella che ad Atene scende dal monte Licabetto verso la cattedrale. L’omaggio di fiori e profumi da parte di tutti continua ininterrotto fino alla liturgia della risurrezione.
Anche l’elogio di Gesù morto, cantato nell’ufficio del Sabato Santo davanti al suo sepolcro e presumibilmente composto tra il XII e XIV secolo è chiamato epitafio. Nel Tipikòn della Chiesa di Gerusalemme del 1122, il libro delle rubriche proprio della chiesa bizantina, non si parla di questo genere dienkòmia; mentre sul monte Athos si conservano due veli epitafi del 1346 e del 1397 dove si trovano ricamati quattro tropari degli enkòmia. Si ignorano gli autori; in ogni caso la base su cui furono composti questi testi è molto antica; essi sembrano ispirarsi soprattutto a S. Gregorio Nazianzeno e a S. Romano il Melode. Si chiamano anche thrènoi o epitafioi thrènoi, cioè lamentazioni o lamenti funebri. In greco classico con questo termine si intende soprattutto l’elogio funebre; ma nella lingua liturgica bizantina più abitualmente, come abbiamo visto, significa il velo ricamato che rappresenta il corpo del Signore nell’atto della sua sepoltura.
A vespro del Venerdì Santo, mentre l’Epitàfio è solennemente riposto nell’arca, figura anch’essa del Sepolcro, tutta ricoperta di fiori e profumi, si canta l’apolitikion, ossia un breve tropario di congedo, che condensa il mistero celebrato nel giorno, ritenuto la composizione poetica più antica di ciascuna officiatura:
Il nobile Giuseppe, calato dal legno il tuo corpo immacolato, lo avvolse in una sindone pura con aromi; e gli prestò le ultime cure; e lo depose in un sepolcro nuovo. Alle donne mirofore, stando presso la tomba, l’angelo gridava: la mirra conviene ai mortali; ma il Cristo si è rivelato nemico della corruzione! [20]
Tutto il popolo accorre a rendere omaggio. Ci si prostra due volte fino a terra, facendosi il segno di croce, si bacia il Vangelo e l’immagine di Cristo impressa sul velo, poi di nuovo ci si prostra fino a terra, segnandosi. C’è pure l’abitudine di dare ai fedeli, in segno di benedizione, qualche fiore che abbia toccato la santa immagine. Davanti a quest’arca il sabato santo si cantano gli enkòmia, imitando le sante donne mirofore, che, secondo i vangeli, assistettero alla sepoltura del Signore e all’alba di Pasqua vennero al suo sepolcro per fare sul suo corpo le unzioni di rito. Ma gli angeli, a loro per prime, annunciarono la Risurrezione. Si erano assunte un ufficio funebre nei confronti del Signore, che avevano visto morto, esanime e sepolto, e lui, risorgendo, l’ha tramutato, apparendo loro vivo e rendendole apostole degli apostoli, come le definisce la chiesa bizantina.
L’Epitafio nella sua arca è portato in processione fuori del tempio al canto di un lungo tropario proprio: una lamentazione di Giuseppe che si rivolge a Pilato per ottenere il corpo di Gesù, che sottolinea come:
Con questi discorsi pregava Pilato il nobile Giuseppe e ricevette il corpo del Salvatore; con timore lo avvolse in una sindone con aromi, e depose in una tomba colui che elargisce a tutti la vita eterna e la grande misericordia! [[21]].
La processione notturna è uno dei momenti più forti della pietà popolare in tutto l’anno liturgico.
All’inizio della veglia pasquale, l’Epitàfio è tolto dall’arca e deposto di nuovo sull’altare, dove resterà fino alla vigilia dell’Ascensione.
Conclusione
L’Antiminsion con la rappresentazione della sepoltura di Cristo, la Protesis col simbolismo del suo funerale, il Grande Ingresso dei Doni con la commemorazione della sepoltura e della risurrezione in ogni liturgia domenicale, come i Presantificati nel tempo di Quaresima, sono certamente dettagliati e significativi riferimenti alla sepoltura del Signore, secondo l’impostazione tipologica della liturgia; ma in particolare l’Epitafio potrebbe essere un impressionante indizio della presenza della Sindone a Costantinopoli e delle cerimonie solenni di ostensione. Ma tutta la ricchezza tipologica della liturgia bizantina, a livello iconografico e innografico, si dispiega particolarmente nel medioevo, quando il Santo Volto o Mandylion achiropita, il cui originale non manufatto ma prodotto prodigioso (alcuni ritengono fosse un grande fazzoletto, quello della Veronica o del re Abgar di Edessa, altri la Sindone ripiegata in otto parti, visibile nella parte del volto [22]) transitava da Gerusalemme a Edessa fino a Costantinopoli nel 944. Probabilmente l’antico ufficio dell’Epitafio doveva accompagnare la sua ostensione: scomparso il Mandylion lo si sarà sostituito con l’Epitafio icona o velo. È una ipotesi che attende conferma da ricerche sui manoscritti siriaci e greci. Ma c’è un precedente più celebre: la reliquia della Vera Croce, frazionata, distribuita e moltiplicata per contatto e imitazione.
Nella liturgia bizantina, l’Epitafio, come l’icona del Santo Volto (un velo dipinto, sorretto dagli angeli) potrebbero essere, dunque, indizio del prototipo che fino agli inizi del XIII secolo era custodito dalla Grande Chiesa di Costantinopoli ed oggi noto come la Sindone di Torino.
[1] P. SHERRARD, Constantinople,Iconography of a Sacred City, London 1965 e ID., Athos the Holy Mountain, London 1982.
[2] E. VON DOBSCUTZ, Christusbilder Untersuchungen zur Christlichen Legende, Leipzig 1899; A. - M. DUBARLE,Histoire ancienne du linceul de Turin jusqu’au XIIIe siècle, Paris 1985.
[3] R. BONERT, Les commentaires byzantins de la divine liturgie du VIIe au XVe siècle, Paris 1966, p.37.
[4] Sul simbolismo e il rapporto con l’Anastasi di Gerusalemme: E. HAMMERSCHMIDT E ALTRI, Symbolik der orthodoxen und orientalischen Christentums (Symbolik der religionen, 10), Stuttgart, 1962.
[5] A. RAES, Antiminsion, Tablit, Tabot: POC 1 (1951), 59-70.
[6] La Divina Liturgia, Roma 1967, p.41.
[7] M. MANDALÀ, La protesi della liturgia nel rito bizantino greco, Grottaferrata 1935.
[8] R. TONNEAU - R. DEVREESSE, Les Homélies cathéchétiques de Théodore de Mopsueste [Studi e Testi 145] Vaticano 1949, p.503 ss.
[9] Ibidem.
[10] Hom.17.
[11] De Eccl. Hier. III.
[12] Probabilmente introdotto dall’imperatore Giustino II nel 574 (PG 121, 748B).
[13] V. nota 8.
[14] PG 62,722-4.
[15] La Divina Liturgia, p.91.
[16] N. BUX, La liturgia degli Orientali, Bari 1996, p.149-155.
[17] Commentarius liturgicus, 1, PG LXXXXVII c.3981.
[18] Origìne de la Messe des présanctifiés, EO XIX (1920), 36-49.
[19] Chronicon Paschale, PG XCII, 989.
[20] Liturgia orientale della Settimana Santa, Roma 1974, II, p. 112.
[21] Ibidem, p.171.
[22] Questo potrebbe anche essere all’origine dell’uso della riza, la lamina che spesso ricopre le icone.
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