domenica 25 agosto 2013

La chiesa nell’Italia longobarda; Gregorio Magno

di Salvatore Pricoco
estratto da "Storia del cristianesimoL’antichità"
a cura dGiovanni Filoramo e Daniele Menozzi - Editori Laterza

Dopo una marcia di avvicinamento dal Danubio alle Alpi orientali cominciata nella primavera dell'anno precedente, nel corso del 569 dilagarono in Italia i Longobardi. Varcato l’Isonzo e conquistate quasi senza incontrare resistenza le città del Vene­to e della Lombardia, gli invasori si spinsero al sud giungendo si­no a Benevento. In breve cadde sotto il loro controllo gran parte della penisola italiana; restarono ai bizantini le isole, il mezzo­giorno calabro e pugliese, l’esarcato (cioè la striscia di territorio intorno a Ravenna), e il ducato romano, che sembrò più volte sul punto di essere anch’esso occupato, A differenza delle preceden­ti popolazioni germaniche stanziatesi in Italia, i Longobardi non avevano avuto rapporti duraturi con l’impero; le loro strutture so­ciali, politiche, militari e le loro forme di insediamento locale eb­bero con la realtà italiana un impatto assai più sconvolgente e de­strutturante. Anche sotto il profilo religioso l’invasione longo­barda segnò una maggiore rottura nella storia italiana. Gli invasori reintroducevano l’arianesimo, da poco estinto con la fine del­la dominazione gotica: ma un arianesimo più largamente commi­sto a credenze pagane, con una più forte connotazione nazionale e una più radicata ostilità nei confronti del cattolicesimo, religio­ne dell'odiata romanità.
Non è lecito attribuire ai Longobardi un organico programma anticattolico e una mirata manovra di proselitismo ariano. L’aria­nesimo fu la confessione ufficiale della corte di Pavia (dove risiedette un vescovo ariano, l’unico vescovo - si è congetturato - dell’’organizzazione ecclesiastica ariana), ma non riuscì a radicarsi nei territori conquistati. I danni più gravi per la confessione cattoli­ca derivarono dalle distruzioni e dai saccheggi e, più ancora, dal­la decimazione della popolazione e, in particolare, dei ceti diri­genti. Negli attacchi portati alle città furono distrutti chiese e mo­nasteri (anche quello fondato alcuni decenni prima da san Bene­detto a Montecassino), persero la vita preti e monaci. Il clero si assottigliò a tal punto che divenne arduo selezionarvi vescovi di provata capacità e fu talvolta impossibile garantire il culto nelle parrocchie. Cambiò perciò radicalmente il quadro dell’Italia reli­giosa, non solo per le rinnovate tensioni confessionali (tra gli invasori ariani e gli italiani cattolici, e anche all’interno dei cattoli­ci, divisi dallo scisma tricapitolino), ma anche perché, «distrutte e spopolate le città, non poteva più esistere la vecchia religione tipicamente urbana, dominata dalle classi medio-alte - quelle che da sempre esprimevano vescovi e abati -, una religione del dirit­to e delle istituzioni, ma si apriva l’era di una religione nelle cam­pagne, una religione anarchica, ricreata da personaggi periferici, marginali, ignoranti, poveri, perfino straccioni, insomma una re­ligione dei carismi personali e dello Spirito» (G. Cracco). È il qua­dro che esce fuori dai Dialogi di Gregorio Magno.
Ai papi che si succedettero negli anni dell’invasione i Lon­gobardi, prima ancora che un problema religioso con la reintro­dotta confessione ariana, posero un drammatico problema di so­pravvivenza della città e delle sue strutture civili non meno che religiose. Il ducato romano continuò a dipendere dall’impero (fi­no alla metà del secolo Vili, quando scomparirà il rappresentan­te bizantino), in realtà la tutela dell’esarca si esaurì rapidamente all’arrivo degli invasori, dai quali a stento l’esercito bizantino riu­scì a salvare Ravenna, mentre nessuna assistenza fu possibile as­sicurare a Roma. Giovanni III cercò aiuto contro le prime mi­nacce longobarde rivolgendosi al vecchio generale bizantino Narsete, il quale, pur essendo in rotta con il governo imperiale, mos­se da Napoli e venne a Roma. Governò la città per qualche tem­po; nel 571 vi morì, vecchissimo, seguito qualche anno dopo, nel 574, da papa Giovanni. A questo succedette Benedetto I (575- 579). La morsa dei Longobardi si era allentata dopo l’uccisione di re Alboino nel 572 e, due anni dopo, del suo successore Clefi. Roma poté ricevere una nave di grano per alleviare la terribile ca­restia che l’affliggeva. Ma la città tornò ad essere crudelmente esposta e i Longobardi la stringevano nuovamente d’assedio quando Benedetto morì, nel luglio 579. Il suo successore, Pelagio (579-590), di origine gotica, cercò inutilmente aiuto presso i Franchi (primo episodio di una politica di collaborazione che darà frutti nell’età carolingia), poi, nel 585, ebbe modo di nego­ziare una tregua con il nuovo re longobardo Autari, senza riusci­re, tuttavia, a migliorare realmente le terribili condizioni della po­polazione. In una lettera scritta nel 584 a Gregorio, suo legato a Costantinopoli, egli descrive angosciosamente da un lato le dram­matiche condizioni di Roma e del Lazio, indifesi di fronte agli at­tacchi longobardi, dall’altro l'indisponibilità dell'esarca, «che ci ha fatto sapere di non potere far nulla per noi, poiché non può neppure difendere il territorio di Ravenna».. Né l’esarca poteva farsi carico dell’approvvigionamento della città, del pagamento dei funzionari e dei soldati, dell’assistenza pubblica, del riscatto dei prigionieri. Ricadevano così sul papa le responsabilità del go­verno e dell'amministrazione, e Roma e i territori circostanti si trasformavano in un’entità politica a sé stante, in uno «stato», del quale il pontefice si avviava a diventare il sovrano di fatto. Que­sto processo prese forma con Gregorio, il papa succeduto a Pe­lagio all’inizio del 590.
Gregorio nacque intorno al 540, a Roma, da una grande fa­miglia, probabilmente legata alle più gloriose famiglie patrizie ita­liche come i Decii e gli Anicii, e ricca di estese proprietà terriere nel Lazio e in Sicilia. Era anche una famiglia «episcopale», come accade di trovarne con frequenza nei secoli della tarda antichità, e di grandi tradizioni cristiane: vantava due papi, Felice III, che Gregorio chiama atavus, e Agapito; la madre di Gregorio, dopo la morte del marito, e tre zie condussero vita monastica. Prima di darsi alla vita religiosa maturò esperienze amministrative e rico­perse cariche cittadine, forse di prefetto della città in un periodo compreso fra il 572 e il 574. Poi, lasciata ogni carica, dopo lunga riflessione si fece monaco e trasformò in un monastero intestato a sant'Andrea la casa paterna, al Clivus Scauri, sul Celio, dove al­cuni decenni prima papa Agapito aveva progettato con Cassio­doro (che ne dà notizia nella prefazione delle Institutiones) di aprire una scuola di esegesi biblica. Non si è sicuri se egli abbia personalmente assunto la direzione della comunità da lui fonda­ta (i Dialogi ne ricordano come abate un venerabile Valenzione, chiamato a reggere la comunità dalla provincia Valeria), né sem­bra che vi sia stata adottata - come a lungo si è favoleggiato - la regola benedettina. Stando a una notizia del Liber Pontificalis fu Benedetto I a prelevarlo dal monastero di Sant’Andrea e ad av­viarlo alla carriera ecclesiastica ordinandolo diacono. Pelagio II nel 579 lo inviò come suo apocrisario a Costantinopoli. Qui Gre­gorio rimase alcuni anni, fino alla fine del 585 o all’inizio del 586, svolgendo una preziosa azione diplomatica, volta soprattutto a ri­chiamare l’imperatore Maurizio a un maggiore interesse per la si­tuazione italiana, difendendo le posizioni dottrinali della chiesa contro nuove dottrine (come quella del patriarca bizantino Eutichio sulla resurrezione dei corpi) e attendendo alla redazione di opere importanti, come i Moralia in Iob. Tornato a Roma, svolse le funzioni di segretario del papa e per lui redasse documenti di rilievo, per esempio sulla questione dei Tre capitoli, che ancora opponeva alcune chiese a Roma.
Nel febbraio 590 Pelagio II moriva di peste. Il popolo reclamò ed elesse il diacono Gregorio, ma egli riluttò a lungo, cercò di convincere l’imperatore Maurizio (al quale una tradizione conso­lidata attribuiva la conferma del pontefice eletto) a respingere l’in­dicazione popolare e solo dopo sei mesi di vacanza del seggio pon­tificio, nel settembre, si piegò ad accettare il grave compito. Non si trattava di un cliché, del rifiuto che quasi immancabilmente gli agiografi attribuiscono ai vescovi di cui celebrano le gesta per esal­tarne la santa umiltà. Gregorio avrà sempre, durante tutto il suo pontificato, la coscienza di operare in un mondo tragico e di vi­vere l’agonia di una civiltà secolare; egli nutrirà sempre un desi­derio profondo di solitudine e di ritiro spirituale, tanto più acu­to quanto più avvertirà l’angoscia di una responsabilità schiac­ciante. La sua stessa salute, malferma e più volte minacciata da gravi malattie, ne limitava l’azione e fiaccava le resistenze. La città che egli si apprestava a governare non era più né la Roma di Damaso, avviata a diventare la capitale cristiana dell’impero e sede del primo tra i vescovi e successore di Pietro dalla concordia apostolorum e dalla riscoperta dei suoi innumerevoli martiri, né la Ro­ma di Leone Magno, gloriosa di monumenti cristiani e ancora centro della cristianità. Aveva subito quattro assedi; la peste ave­va decimato ripetutamente la popolazione; gli assalti dei Goti ave­vano distrutto monumenti prestigiosi e devastato interi quartieri; delle grandi famiglie che facevano ancora la storia della città nel­l’età di Teoderico e di Cassiodoro restavano pochi discendenti, impoveriti e socialmente declassati. NelleOmelie su Ezechiele, pronunziate nella basilica lateranense tra la fine del 593 e i primi mesi del 594, mentre incombeva la minaccia del quinto assedio ad opera degli eserciti di Agilulfo, Gregorio disegna il quadro di questa Roma umiliata e devastata, che «diventa sempre più calva come un’aquila che ha perduto le piume», perché ha perduto il suo popolo, e che non ha più penne alle ali, «perché sono scom­parsi tutti i suoi potenti». «Dov’è il senato? Dov’è il popolo? Tut­to il fasto delle dignità secolari è estinto... Il senato è assente, il popolo è perito, Roma è vuota e brucia». La profezia di Ezechie­le, nata nella cattività di Babilonia, viene letta alla luce delle scia­gure di Roma e il popolo romano, abbandonato da tutti, è come il nuovo Israele. «Le nostre tribolazioni sono cresciute oltre ogni misura. Siamo circondati da ogni parte dalle spade; temiamo da ogni parte imminente il pericolo della morte»: così si chiude l’ul­timo capitolo delle Omelie, definito da taluni l'elogio funebre di Roma. E tuttavia quest’uomo debole e angosciato riuscì a svol­gere nei quindici anni del suo pontificato un’opera di ecceziona­le ampiezza e novità, caricandosi di una somma enorme di nuovi compiti. Il suo continuo, decisivo contributo all’amministrazione della città e alla gestione politica fece sì che alla sua morte il ruo­lo del pontefice romano si configurasse come quello di sovrano di un nuovo «stato pontificio»; i suoi interventi nelle questioni più vitali della società del suo tempo, della chiesa, della dottrina cristiana non solo gli sono valsi l’appellativo di «grande», ma gli hanno attribuito nei secoli, forse più che a ogni altro papa, l’im­magine del pontefice ideale, custode e difensore del suo popolo, della chiesa, della fede.
Nella mole enorme di incombenze che gravarono su Gregorio dal giorno dell’acclamazione popolare, quelle di più bruciante e continuata urgenza furono provocate sicuramente dall’occupa­zione longobarda e dalla minaccia che essa portava alla sopravvi­venza stessa delle popolazioni. Per risolvere questi problemi drammatici il papa non esitò ad assumersi responsabilità militari e politiche, si occupò di eserciti, di approvvigionamenti, di fug­giaschi, di riscatti. Nel 595, quando il duca di Spoleto, Ariulfo, premendo a nord di Roma interruppe le comunicazioni con Ra­venna, Gregorio prima tentò una difesa militare del territorio ro­mano, poi si risolse a intavolare trattative con lui e patteggiò, an­che a nome dell’imperatore, la ritirata longobarda in cambio di un forte pagamento. L’intervento fu malvisto dalla parte bizanti­na e giudicato addirittura come un tradimento. Gregorio reagì con sdegno: «Offesa gravissima essere ritenuto colpevole di in­ganno per colui che serve la verità». Ma la mossa era sicuramente spregiudicata e apriva la via a una politica di mediazione, alla qua­le da allora il papa attese con tenacia. Dopo questa crisi del 595 nei rapporti con l’impero, Gregorio accentuò l’azione diplomati­ca e missionaria nell’Occidente, come prova l’accresciuta fre­quenza delle sue lettere ai sovrani occidentali. Quando Agilulfo tornò a minacciare Roma, ottenne che l’assedio fosse tolto in cam­bio di un’imposta annua in oro e su questa base nel 598 lo stes­so esarca stipulò una tregua con il re longobardo. Agilulfo veni­va attirato in un processo di distensione, che preludeva alla co­siddetta «conversione» dei Longobardi, anche se questa, in realtà, non si tradusse mai in un passaggio «nazionale» e definitivo alla fede cattolica, come, per esempio, quello dei Franchi, e in una piena integrazione religiosa. Sul trono pavese si sarebbero alter­nati re ariani e cattolici, vescovi ariani sarebbero rimasti in molte città, l’arianesimo avrebbe continuato a sostenere la coscienza dell’identità nazionale longobarda. Ma Gregorio e Agilulfo inaugu­rarono una linea nuova, di non ostilità e di fattiva coesistenza. Il figlio di Agilulfo e della cattolica Teodolinda, Adaloaldo, ebbe il battesimo cattolico; fu consentito all’irlandese Colombano di eri­gere a Bobbio quel monastero che sarebbe diventato un grande centro culturale ed economico; fu gradualmente reintegrato il pa­trimonio ecclesiastico cattolico nei territori occupati dai Longo­bardi e si lasciò libertà di azione ai vescovi cattolici; mutò l’at­teggiamento della corte nei confronti dei Tre capitoli; non furo­no scongiurate del tutto le incursioni, ma la loro minaccia si di­radò, si attenuarono le offese più disordinate e violente nei con­fronti della popolazione italiana. E indicativo del progressivo in­staurarsi di un clima di tranquillità il fatto che, mentre nel 592 il papa alludeva al duca di Benevento, Arechi, come a un nemico astuto e perverso, identificato - con un meccanismo di sovrap­posizione concettuale non infrequente negli scritti di Gregorio - con l’antico nemico, il diavolo, alcuni anni dopo, nell’autunno del 598, chiedesse al medesimo duca di mettergli a disposizione uo­mini e buoi per trasportare dalla Calabria a Roma i travi neces­sari alla riparazione delle chiese di San Pietro e San Paolo.
A spingere Gregorio a questa politica di accordi furono la sol­lecitudine per il suo popolo e la convinzione che ogni accordo non avrebbe retto se gli invasori non avessero sposato la fede cat­tolica; forse, come si è ritenuto, talvolta poté agire in lui l’aspira­zione a diventare il pastore dell’Occidente barbarico per sfuggi­re al cesaropapismo bizantino. Ma sicuramente ci fu anche una diversa, superiore concezione storica e religiosa, una prospettiva escatologica che faceva posto anche ai barbari nel disegno prov­videnziale della storia e imponeva di guardare a loro con occhi nuovi: anche noi fummo pagani, si legge più volte nelle Omelie su Ezechiele, «anche noi nei nostri antenati fummo cultori degli idoli, ma ecco che in virtù dello spirito della grazia ora ricerchia­mo le parole celesti». Alla sua alta visione religiosa ed escatolo­gica, alla sua «teologia politica», Gregorio non concede molto spazio nei suoi scritti, ma essa ne emerge con chiarezza e appare presiedere, pur nel concreto e minuto ordito degli atti e delle ri­soluzioni, ai disegni politici del papa. Egli non cessò mai di con­siderarsi un cittadino della Res publica Christiana, e dunque del­l’impero, di cui non rinnega in nessun caso i valori: «Questa dif­ferenza passa tra i re dei barbari e l’imperatore dei Romani, che i re dei barbari sono signori di schiavi, l’imperatore dei Romani invece è signore di uomini liberi». Senza teorizzare la subordi­nazione dello stato alla chiesa, sostenne il primato dello spiritua­le sul temporale e nel contempo giudicò complementari i due po­teri e ne postulò la cooperazione non solo in virtù della compati­bilità degli scopi, ma anche dell’analogia dell’operato. I paralleli tra il principe e il sacerdote sono frequenti nei suoi scritti; l’uno e l’altro saranno chiamati a rendere conto della propria opera nel giorno del giudizio, l’uno e l’altro collaborano all’attuazione dei piani misteriosi di Dio.
Il problema politico più grave era - come abbiamo detto - quello dei Longobardi. Dall’altra parte Gregorio doveva tener conto della politica dell’impero, dell’operato dell’esarca di Ra­venna, degli strateghi bizantini presenti nelle regioni italiane. Al­tro impegno di grande portata erano i rapporti con i regni roma­no-barbarici della Gallia e della penisola iberica. La linea opera­tiva che Gregorio perseguì su questi tre fronti fu di cercare con­tinuamente (lo abbiamo visto) l’accordo con i Longobardi, di pro­muovere i negoziati tra questi e Bisanzio, di incoraggiare la con­versione delle popolazioni germaniche al cattolicesimo. Di que­sto operato costante e tenace danno testimonianza le numerose lettere scritte da Gregorio all’imperatore, al re e ai duchi longo­bardi, ai sovrani germanici sulle questioni più disparate, quelle che di volta in volta proponevano le urgenze della realtà storica: dai grandi temi della pace, dei negoziati ai livelli di vertice, delle grandi linee della politica ecclesiastica, ai minuti problemi delle diocesi, alle petizioni, alle richieste di soccorso. Si rivolse anche alle regine del tempo, alle imperatrici Costantina, moglie di Mau­rizio (conosciuta personalmente al tempo in cui era apocrisario a Bisanzio), e Leonzia, moglie di Foca, e alle sovrane dei regni ro­mano-barbarici (una prassi, in quest’ultimo caso, assolutamente inconsueta), come la regina degli Angli, Berta, la merovingia Bru­nilde e la longobarda Teodolinda. Con queste due ultime, so­prattutto, le lettere del papa affrontano temi di politica generale o ecclesiastica, come l’opera pacificatrice svolta dalla regina Teo­dolinda, la difesa dell’ortodossia, la richiesta, indirizzata a Brunilde, di appoggio alla missione evangelizzatrice in Inghilterra.
Non meno continuo fu l'impegno posto da Gregorio nella rior­ganizzazione della chiesa, nel suo consolidamento economico, nel riassetto amministrativo. La ricchezza patrimoniale ecclesiastica, sia quella sottoposta direttamente al controllo di Roma, sia quella gestita dai vari vescovadi, era cresciuta nei secoli precedenti in mi­sura imponente e specialmente attorno alle chiese metropolitane si era creata una fitta rete di interessi economici. Ricchissima era di­ventata la chiesa ravennate dopo avere incorporato i beni delle chiese ariane protette da Teoderico, al punto da allestire una flotta commerciale propria per gestire i traffici con i suoi innumerevoli possedimenti dall'Istria alla Sicilia. Il fondo patrimoniale romano, patrimonium sancii Vetri, secondo una nozione già corrente in questa età - costituiva una somma ingente di latifondi, dalla Gallia meridionale alla Sicilia e all’Africa, e la sua gestione mobilitava in apposite carriere, come era avvenuto per i latifondi imperiali, un esercito di conductores, di funzionari, di scribi. A reggere questi pa­trimoni furono chiamati uomini fidati (l’esempio più continuo è quello del suddiacono Pietro, nominato rettore del patrimonio si­ciliano nel 590, appena Gregorio era salito sul trono pontificio), ai quali venne accordato un potere amplissimo, non escluso quello di controllare gli stessi vescovi, ma sui quali il papa esercitò a sua vol­ta un rigido controllo, rivedendo annualmente i conti, dando pun­tualmente istruzioni, non tralasciando di intervenire anche sui par­ticolari della gestione e sui più minuti meccanismi produttivi. L’attenzione maggiore venne riservata al sud (come mostra inequivo­cabilmente il ricco epistolario gregoriano, nel quale è la testimo­nianza più puntuale dell’applicazione infaticabile del papa all’am­ministrazione del patrimonio ecclesiastico; in esso è ben più fitto e continuo il manipolo di lettere indirizzate a vescovi, funzionari pubblici, aristocrazie cittadine, chierici del mezzogiorno), sia per­ché i rapporti patrimoniali con le chiese della Gallia, dell’Italia annonaria, di Ravenna erano resi difficili dai regimi politici e dalle ri­vendicazioni autonomistiche (per esempio del vescovo di Raven­na), sia perché i patrimonia della Sicilia (i più cospicui tra tutti, as­sommanti a un diciannovesimo della superficie dell’isola), della Sardegna, della Corsica e, sul continente, della Calabria e della Campania, erano indispensabili per Roma e al grano e alle derrate provenienti da quelle regioni era affidata la sopravvivenza della sua popolazione. Queste proprietà fondiarie erano la base dell’azione politica del papa. Le ricchezze che esse producevano da un canto - mediante l’oculata circolazione delle terre date in affitto, l’eroga­zione di sussidi e di prestiti, l’approvvigionamento delle popola­zioni, il sostegno dato alle aristocrazie e al clero - radicavano l’o­perato di Gregorio nelle realtà locali, da un altro canto sovvenzio­navano i progetti più ampi, gli interventi a favore di popolazioni lontane, il mantenimento degli eserciti e dell’amministrazione, le relazioni con i principi e i sovrani germanici e con l’impero: era­no, insomma, gli strumenti della grande politica (né a Gregorio mancò la sicura consapevolezza della connessione e interazione tra i più umili e concreti meccanismi produttivi e i disegni più vasti ed elevati).
L’operato di Gregorio incise in modo duraturo anche in mol­ti altri campi. Il papa intervenne con equilibrio, spesso con sa­piente gradualismo, sugli innumerevoli problemi che i mutamen­ti politici e sociali del tempo (specialmente in seguito alla «rottu­ra» longobarda) proponevano o riproponevano in modo nuovo, dalla convivenza con gli ebrei alle sopravvivenze pagane nelle campagne, dal culto delle immagini a quello delle reliquie, dal re­clutamento del clero al miglioramento del suo livello morale, dal­le molte questioni relative alla vita monastica alla riconversione cristiana dei santuari pagani: un’attività instancabile, che il mas­siccio epistolario del papa descrive con preziosa puntualità. Né fu minore il suo contributo alla cultura cristiana ed ecclesiastica.
I   suoi scritti, per i quali è stato giudicato «l’ultimo grande rap­presentante della patristica latina», comprendono opere di ese­gesi testamentaria (come i Moralia in Job, 35 libri a commento dei 42 capitoli del libro di Giobbe, che costituiscono la sua opera più vasta e di più alta dottrina, e alcune raccolte di omelie a com­mento dei vangeli, del libro profetico di Ezechiele, del Cantico dei cantici); il Liber Regulae Pastoralis, uno scritto di alta riflessione sulla dignità episcopale e i suoi obblighi; l’imponenteRegistrum epistularum (quattordici libri per un complesso di oltre 800 let­tere), testimonianza eccezionale dell’operato di Gregorio e dei suoi tempi, e infine i Dialogi, racconti in quattro libri delle gesta miracolose di santi italiani, strutturati a forma di dialogo tra Gre­gorio e il suo amico Pietro, costruiti con un così scoperto ricorso all’affabulazione e al meraviglioso e con uno stile così popolareg­giante da essere ritenuti, come abbiamo già detto, inautentici.
La grandezza storica di Gregorio e del suo pontificato non fu sempre riconosciuta nella tradizione antica. Alcuni accenni del Li­ber Pontificalis hanno fatto sospettare che alla morte del papa la sua memoria sia stata attaccata dal clero romano, risentito per l’in­troduzione di monaci nella curia papale, né è senza significato il silenzio che a Roma sembra avvolgere il papa fino al secolo IX. Ma altrove i suoi scritti furono presto circondati di grande ri­spetto, furono cercati e trascritti con zelo, come nella Spagna e in Inghilterra; alcuni furono tradotti in greco. Le biografie altome­dievali che gli furono dedicate e i giudizi di storici come Paolo Diacono, l’autore dellaHistoria Langobardorum, e Beda, l’autore della Historia ecclesiastica gentis Anglorum, ne disegnarono un al­to profilo di santo e grande evangelizzatore. I moderni, dall’anti­quaria settecentesca all’Illuminismo, dalla stagione fervida dello storicismo alle variegate correnti storiografiche del nostro secolo, hanno tutti - anche quelli meno disposti, per consuetudine di me­todo o per opzione ideologica, a intendere il medioevo nelle sue grandi idealità politiche e religiose - collocato Gregorio Magno a capo sia del lento cammino dell’Europa delle nazioni, sia dell’u­niversalismo medievale e hanno concordemente riconosciuto il si­gnificato epocale del suo pontificato.


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