* Da LOSSKY V., A immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna, 1999, pp. 55-71 (cap. I).
La via negativa della conoscenza di Dio è un procedimento ascendente del pensiero che elimina progressivamente dall'oggetto che vuole raggiungere ogni attribuzione positiva per arrivare, alla fine, a una specie di afferramento per suprema ignoranza di colui che non potrebbe essere un oggetto di conoscenza. Si può dire che è un'esperienza intellettuale di scacco del pensiero davanti all'al di là del concepibile. Di fatto la coscienza dello scacco dell'intelletto umano costituisce un elemento comune a tutto quel che possiamo chiamare apofasi o teologia negativa, sia che essa resti nei limiti dell'intellezione, constatando semplicemente l'inadeguatezza radicale tra il nostro pensiero e la realtà che vuole raggiungere, sia che voglia superare i limiti dell'intelletto, prestando all'ignoranza di ciò che Dio è nella sua natura inaccessibile il valore di una conoscenza mistica superiore all'intelletto, hyper noun.
Il momento apofatico, in quanto coscienza dello scacco intellettuale, è presente sotto forme diverse nella maggior parte dei teologi cristiani (le eccezioni sono rare). Si può dire ugualmente che esso non sia estraneo all'arte sacra dove lo scacco dei mezzi di espressione artistica, intenzionalmente mostrato nell'arte stessa dell'iconografo, corrisponde alla dotta ignoranza del teologo.
Tuttavia, come l'apofatismo iconografico, «antinaturalista», non è un'iconoclastia, così la via negativa, antirazionalista, non è una gnosimachia: essa non può giungere alla soppressione del pensiero teologico senza intaccare il fatto essenziale del cristianesimo ovvero l'incarnazione del Verbo, evento centrale della rivelazione che rende possibile sia l'iconografia sia la teologia.
L'apofasi dell'Antico Testamento, che si esprimeva nel divieto di ogni immagine, è stata soppressa dal fatto che «l'Immagine della sostanza del Padre» si è rivelata, avendo assunto la natura umana.
Un nuovo momento negativo, tuttavia, è entrato nel canone dell'arte delle icone, il cui schematismo sacro è un richiamo al distacco, alla purificazione dei sensi allo scopo di contemplare nell'espressione sensibile la persona divina venuta nella carne. Allo stesso modo, per il pensiero neotestamentario, quel che vi era di negativo e di esclusivo nel monoteismo giudaico si è dissolto di fronte alla necessità di riconoscere in Cristo una persona divina consustanziale al Padre. Ma, affinché la teologia trinitaria divenisse possibile, si è reso necessario che l'apofasi presiedesse allo spogliamento del pensiero, dovendo il pensiero elevarsi a una nozione di Dio trascendente ogni rapporto con l'essere creato e assolutamente indipendente in quel che è dall'esistenza delle creature.
Nonostante il fatto innegabile che gli elementi negativi di uno spogliamento progressivo del pensiero nei teologi cristiani siano generalmente legati nella loro elaborazione alla tecnica speculativa del medio e del neoplatonismo, sarebbe ingiusto vedere necessariamente nell'apofasi cristiana un segno di ellenizzazione del pensiero cristiano. L'esistenza di un atteggiamento apofatico, di un superamento di tutto ciò che concerne la finitudine creata, è implicata nel paradosso della rivelazione cristiana: il Dio trascendente diventa immanente al mondo, ma nell'immanenza stessa della sua economia, che porta all'incarnazione e alla morte sulla croce, si rivela come trascendente, come ontologicamente indipendente da ogni essere creato. È questa la condizione senza la quale non si riuscirebbe a concepire il carattere volontario e assolutamente gratuito dell'opera redentrice di Cristo e in generale di tutto ciò che è «economia» divina, a cominciare dalla creazione del mondo ove l'espressione ex nihilo ha il compito di segnalare proprio l'assenza di ogni necessità ex parte Dei, una qualche contingenza divina, oserei dire, nell'atto della volontà creatrice. L'economia è opera della volontà
mentre l'essere trinitario appartiene alla natura trascendente di Dio.
È l'origine della distinzione tra oikonomia e theologia, la quale risale al IV e forse perfino al III secolo e rimane comune alla maggior parte dei padri greci e a tutta la tradizione bizantina. Theologia, che per Origene era una conoscenza, una gnosi di Dio nel logos, significa nel IV secolo tutto ciò che riguarda la dottrina trinitaria, ciò che può essere detto di Dio considerato in se stesso, al di fuori della sua economia creatrice e redentrice. Per giungere a questa «teologia» propriamente detta, bisognerà dunque andare oltre l'aspetto sotto il quale noi conosciamo Dio come creatore dell'universo, per poter liberare la nozione trinitaria dalle implicazioni cosmologiche proprie dell'«economia».
All'economia nella quale Dio si rivela creando il mondo e incarnandosi, noi dobbiamo rispondere con la teologia, confessando la natura trascendente della Trinità in un'ascesa del pensiero che avrà necessariamente un impulso apofatico.
Ora, noi non possiamo conoscere Dio al di fuori dell'economia nella quale si rivela. Il Padre si rivela per mezzo del Figlio nello Spirito Santo e questa rivelazione della Trinità resterà sempre «economica », nella misura in cui, al di fuori della grazia ricevuta nello Spirito Santo, nessuno potrà riconoscere in Cristo il Figlio di Dio e, attraverso ciò, elevarsi alla conoscenza del Padre. È la via classica della teognosia tracciata da san Basilio nel suo trattato sullo Spirito Santo: «La via della conoscenza di Dio va dallo Spirito uno per il Figlio uno al Padre uno e, in senso inverso, la bontà essenziale, la santità naturale, la dignità regale si diffondono dal Padre per l'Unigenito fino allo Spirito ».1
Allo stesso modo, ogni atto dell'economia divina segue questa linea discendente: dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo. La via della conoscenza, dunque, contrariamente a quella della manifestazione di Dio, non sarà una catabasi, una discesa, ma un'anabasi, un risalire, un'ascesa verso la sorgente di ogni energia manifestatrice, verso la «tearchia», secondo il vocabolario dello pseudo-Dionigi, o verso la monarchia del Padre, secondo l'espressione di san Basilio e di altri padri greci del IV secolo.
A questo livello bisognerà però abbandonare la linea discendente della rivelazione del Padre per il Figlio nello Spirito, per poter riconoscere la consustanzialità delle tre ipostasi al di là di ogni economia manifestatrice. È l'attaccamento esclusivo all'aspetto economico della Trinità, con l'accentuazione del significato cosmologico del Logos, che rendeva la teologia trinitaria prenicena sospetta di subordinazionismo. Per parlare di Dio in sé, al di fuori di ogni legame cosmologico, di ogni coinvolgimento nell'oikonomia rispetto al mondo creato, bisognerà invece che la teologia, la conoscenza che possiamo avere della Trinità consustanziale, sia il risultato di una via di astrazione, di decantazione apofatica attraverso la negazione di tutte le appropriazioni (Bontà, Sapienza, Vita, Amore, ecc ... ) che possono riferirsi alle nozioni delle ipostasi divine sul piano dell'economia,2 di tutti gli attributi che manifestano la natura divina nella creazione. Ciò che sussisterà, al di là di ogni negazione o posizione, è la nozione della differenza ipostatica assoluta e dell'identità essenziale altrettanto assoluta del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E tuttavia i termini e le distinzioni triadologiche - natura, essenza, persona, ipostasi - resteranno ancora impropri, nonostante la loro purezza matematica (o, forse, a causa di tale purezza) e esprimeranno soprattutto l'insufficienza del linguaggio e lo scacco del pensiero davanti al mistero del Dio personale che si rivela trascendente rispetto ad ogni rapporto col creato.
Se ogni teologia trinitaria che vuole essere libera da implicazioni cosmologiche deve ricorrere all'apofasi per poter attribuire alcune sue nozioni all'aldilà di un Dio in sé, potremmo anche domandarci se ogni apofasi che si può trovare presso i pensatori cristiani porti necessariamente a una teologia trinitaria.
Per rispondere a questa domanda sarebbe necessario esaaminare vari casi di utilizzazione del metodo negativo nella teologia, classificandoli secondo i diversi tipi di apofatismo cristiano. Noi speriamo di poter fare un giorno tale indagine, ma per il momento dovremo limitarci a due casi di utilizzazione della via negativa da parte di teologi cristiani: parlerò qui di Clemente d'Alessandria e dello Pseudo-Dionigi.
Il primo, morto all'inizio del III secolo, verso il 215, professò una dottrina trinitaria economica, nonostante alcuni tentativi da lui fatti per superarla. A motivo della sua formazione filosofica egli era molto vicino agli ambienti intellettuali del medioplatonismo. La via remotionis di Clemente, come vedremo, resta nell'ambito di una teologia trinitaria di tipo preniceno. Per quanto riguarda il secondo teologo, il misterioso autore degli Scritti Areopagitici, che è sicuramente vissuto dopo Nicea e dopo i grandi Cappadoci (probabilmente verso la fine del V o l'inizio del VI secolo), la questione dell'esito trinitario della sua apofasi è meno chiara. Infatti, la tecnica dell'apofasi di Dionigi, mutuata dalla tradizione plotiniana, sembra essere necessariamente legata a una concezione dell'Uno trascendente rispetto a tutto ciò che può essere nominato e perciò trascendente anche rispetto alle nozioni trinitarie della teologia cristiana. Ciò è tanto più grave in quanto è proprio l'autore del Corpus dionisiaco che introdusse nella tradizione teologica e mistica, in oriente come in occidente, la via negativa nella sua forma più elaborata, rivestendola dell'autorità del discepolo di san Paolo.
La questione che dovremo porci a proposito di Dionigi, dopo aver preso conoscenza dell'apofasi triadica di Clemente, può essere così formulata: dal momento che l'apofasi o teologia negativa deve prevalere, secondo Dionigi, sulla catafasi o via delle affermazioni, allora i caratteri personali affermati dalla teologia trinitaria dovranno essere negati, come già altre affermazioni relative agli attributi comuni alle tre ipostasi. Se le cose stanno in questo modo, ci si chiederà se l'apofasi di Dionigi, che sembra essere un superamento della Trinità, non supponga un aspetto della divinità che sarebbe superiore al Dio personale della tradizione giudaico-cristiana. Inoltre, essendo l'apofasi un bene comune del pensiero religioso, poiché la troviamo tanto in India quanto nei neoplatonici greci o, successivamente, nella mistica musulmana, sarà lecito vedere nel metodo negativo dionisiaco la consacrazione di una supremazia della mistica naturale sulla teologia rivelata. Un sincretismo mistico si sovrapporrebbe allora alla fede della Chiesa e l'altare pagano del theos agnôstos risulterebbe superiore all'altare cristiano di un Dio rivelato, quello predicato da san Paolo all'Areopago. Il presunto discepolo dell'apostolo dei gentili ha forse operato questo rovesciamento, ellenizzando il Dio della teologia cristiana? Prima di affrontare questa inquietante questione, diciamo qualcosa sull'utilizzazione dell'apofasi da parte di Clemente di Alessandria.
Clemente, come successivamente l'autore degli Scritti Areopagitici, riserva la via negativa a coloro che sono stati iniziati ai misteri cristiani. È una contemplazione di Dio alla quale si giunge attraverso la via delle astrazioni intellettuali, contemplazione che deve corrispondere, secondo Clemente, all'epopteia, il grado più elevato dei misteri eleusini. L'utilizzazione del linguaggio misterico e la preoccupazione di stabilire paralleli tra le tappe della gnosi cristiana e quelle dei misteri ellenici si spiegano a partire dall'atteggiamento di Clemente nei confronti della sapienza greca: essa avrebbe abbondantemente profittato della rivelazione israelitica, plagiando semplicemente Mosè e i profeti oppure ricevendo una rivelazione parziale attraverso l'inganno di un angelo, simile a quello di Prometeo che aveva rubato il fuoco dell'Olimpo per comunicarlo ai mortali. Ciò detto, si capirà la disinvoltura con cui Clemente stabilisce una corrispondenza tra le sacre Scritture e i filosofi, soprattutto Platone, «l'amico della Verità».
Per quanto riguarda l'apofasi, essa risulta quindi implicata, come abbiamo detto, nell'epopteia cristiana che è la «quarta parte», quella «teologica», della «filosofia» di Mosè. Essa segue dunque la parte che Clemente chiama «contemplazione naturale», physikê theôria, e corrisponde a ciò che Platone stesso avrebbe classificato tra i «grandi misteri del vero essere» (tôn megalôn ontôs einai mystêriôn) come pure a ciò che Aristotele chiama meta ta physika (Stromata, 28, 176, 1).
La via negativa attraverso la quale ci si incammina verso la contemplazione è descritta nel quinto libro degli Stromata. Essa si presenta prima di tutto come un'«analisi geometrica». Partendo da un corpo, si elimina per astrazione il volume, la superficie e la lunghezza, per ottenere un'unità puntiforme.
Eliminando poi la posizione del punto nello spazio, il suo topos, si giunge alla nozione di una monade intelligibile che spoglieremo di tutto ciò che può essere attribuito agli esseri intelligibili, per avvicinarci a una certa nozione di Dio.
Questo primo movimento dell'apofasi, che Clemente chiama analisi, lo incontriamo sotto lo stesso nome nei rappresentanti del medioplatonismo del II secolo. Celso, avversario dei cristiani, nell'Alêthês logos, che noi conosciamo soltanto grazie alle citazioni di Origene, pone l'analisi o via delle astrazioni successive tra le tre vie razionali della conoscenza di Dio.
Albino ne ha trattato prima di lui nel Didaskalikos.
Questi filosofi platonici, però, combinavano la via negativa («analisi») con la posizione («sintesi » o conoscenza della causa prima nei suoi effetti), ottenendo così una terza via, quella di «analogia » o di eminenza, per rendere «intelligibile, come sostiene Celso, in una qualche virtù inesprimibile, quel Dio che è al di là di tutto» (Origene, Contra Celsum, VII, 44-45). Clemente di Alessandria, invece, si attiene all'analisi e conserva alla via negativa il suo valore indipendente. Ma l'analisi che approda alla nozione di una monade intelligibile non può bastargli. Come sostiene altrove, nel Paedagogus (1,8), «Dio è Uno e al di là dell'Uno e superiore alla monade stessa» (hen de ho theos, kai epekeina tou henos kai hyper autên monada). Osserviamo che, ben prima di Clemente, Filone, che vedeva nella monade il Logos, immagine perfetta di Dio, dichiarava che Dio è al di là della monade (Legum allegoriae, II, 3; De vita contemplativa, I, 2). Per il filosofo giudaico e per il teologo cristiano, il Dio vivente della Scrittura trascendeva la monade intelligibile e la ricerca apofatica doveva proseguire al di là, nelle tenebre del Sinai. Questa immagine biblica è comune sia a Filone che a Clemente.
Inizia qui il secondo movimento apofatico e nello stesso tempo una teognosia trinitaria che Clemente così tratteggia brevemente: «Ci precipitiamo (aporripsomen) nella grandezza (megethos) di Cristo. Se poi avanziamo per la Santità verso l'Abisso (bathos), avremo una certa conoscenza di Dio che tutto contiene (pantokratôr) conoscendo non ciò che egli è, ma ciò che non è (ouch ho estin, ho de mê estin gnôrisantes: Stromata V, 11)».
Sembra, tuttavia, che Clemente resti sul piano della speculazione quando propone di conoscere Dio in ciò che egli non è. La sua apofasi non ha niente di estatico. Non è una via di unione mistica.
Giunti al vertice degli intelligibili (epi tên koryphên tôn noêtôn) ci rendiamo conto con Platone che, se è difficile trovare Dio, impossibile è esprimerlo (Timaeus, 28 c). Essendo a conoscenza dell'ascesa di Mosè al Sinai, Platone sapeva che la «santa teoria» aveva permesso al legislatore dei giudei di raggiungere le cime intelligibili che sono la «regione di Dio» (chôra tou theou) difficile a trovarsi. Perciò Platone la chiama (plagiando un po' Mosè, secondo Clemente) «regione delle idee», avendo saputo da Mosè che Dio è una regione, poiché contiene tutto (ôs tôn apantôn kai tôn holôn periektikon). Evidentemente è un Platone un po' aristotelizzato, quello cioè del medioplatonismo.
Come in Albino, le idee sono pensieri di Dio e non sussistono affatto al di fuori di lui, pur costituendo, per così dire, il «secondo principio» divino. Per Clemente d'Alessandria questo secondo principio si chiama la maestà o grandezza di Cristo, del Cristo-Logos, luogo delle idee. Bisognerà superarlo per andare «per la Santità» verso l'Abisso del Padre. La Santità designa senza dubbio lo Spirito Santo, perché Clemente precisa successivamente che il Padre non può essere riconosciuto se non per mezzo del la grazia divina e del Verbo che è presso di lui (Strom. V, 12) e che ogni ricerca intellettuale resta «informe e cieca» senza la grazia della conoscenza che viene dal Padre per il Figlio.
Noi ci aspetteremmo che Platone cedesse il passo a Mosè, che il filosofo, dopo aver parlato del Bene trascendente e della «regione delle idee», tacesse infine davanti alla rivelazione del Dio vivente il quale, per mezzo del Figlio, conferisce la grazia della conoscenza, il dono della gnosi cristiana.
In effetti, Platone tace per un momento e lascia la parola a san Giovanni. Giovanni, che secondo Clemente è uno dei più grandi gnostici (con Giacomo, Pietro e Paolo), diceva che nessuno ha mai visto Dio, eccetto il Figlio unigenito che è nel seno del Padre. È lui che ci manifesta Dio. Clemente spiegherà che il seno (kolpos) è l'Abisso, «l'invisibile e l'indicibile» (to aoraton kai arrêton), che Mosè aveva incontrato nella tenebra al di là della «Maestà di Cristo», come ciò che la avvolge, poiché il Padre e Pantokratôr contiene tutto non essendo contenuto da alcuna cosa. Egli è dunque inac5 cessibile e illimitato (anephiktos kai aperantos). Questa è la ragione stessa della trascendenza e dell'inconoscibilità del Padre il quale, per opposizione al Figlio, è chiamato «l'Ingenerato». Dal momento che non c'è niente che nell'ordine della conoscenza possa essere anteriore alla nozione di un Dio ingenerato, la scienza dimostrativa che parte dalle verità anteriori e più evidenti non è qui di alcun aiuto e deve cedere il posto all'apofasi infruttuosa e informe di un agnosticismo senza speranza.
Ma Platone riprende qui la parola per trarre d'imbarazzo il teologo cristiano ricordandogli con discrezione che, se ci è impossibile conoscere Dio con le nostre forze, c'è sempre la risorsa della grazia, questa «virtù data da Dio» di cui egli aveva parlato nel Menone, virtù che è inviata dalla sorte divina, dalla theia moira. La grazia per Clemente è prima di tutto una nuova attitudine conoscitiva, una hexis gnôstikê che procura al cristiano perfetto, allo gnostico (oggi si direbbe allo «spirituale», al «contemplativo») la contemplazione eterna (aidios theôria) cioè la facoltà di vedere faccia a faccia il Dio-Pantokratôr (Strom. V, 11). È il termine dell'apofasi di Clemente d'Alessandria. Essa aveva per oggetto la trascendenza del Paadre. Dopo aver condotto l'intelligenza a un'aporia completa davanti all'abisso trascendente, la ricerca negativa si trova soppressa dalla grazia che il Padre invia per mezzo del Figlio nella «Santità».
Anche se l'apofasi di Clemente è triadica, nella misura in cui essa implica la nozione delle tre persone che non vengono soppresse dalla via remotionis, essa però è determinata soltanto dall'ipostasi del Padre, la sola veramente trascendente in questa prospettiva di «Trinità economica» così vicina agli schemi del medioplatonismo. La nozione dell'ipostasi del Padre si avvicina a tal punto a quella dell'essenza divina che è quasi impossibile dissociarle. Il Padre è illimitato (aperantos) e l'espressione «abisso del Padre» afferma senza ombra di dubbio l'infinità dell'essenza che gli è propria, dell'essenza del «Dio ingenerato», per opposizione al Logos. Quest'ultimo, infatti, pur divenendo il Figlio «generato» en tautotêti, nell'identità (senza dubbio nell'identità essenziale), acquisisce il suo carattere personale «per delimitazione e non per essenza» (kata perigraphên kai ou kat'ousian: Excerpta ex Theodoto, 19,1). Siamo qui in presenza dell'evidente sforzo di andare oltre l'aspetto economico per esprimere l'identità essenziale del Figlio e del Padre trascendente e infinito, il che esclude indubbiaamente dal pensiero di Clemente qualsiasi subordinazionismo trinitario. Ma nell'ordine della teognosia l'opposizione tra l'ipostasi conoscibile del Figlio e l'inconoscibilità del Padre sussiste sempre. Essa è condizionata dall'ambiguità triadologica che consiste nell'opporre l'Ingenerato illimitato alla persona «delimitata» del Figlio generato. Dopo il primo movimento, quello dell'analisi, l'apofasi di Clemente guarda esclusivamente all'inconoscibilità del Padre: le altre due ipostasi, il Figlio e la «Santità» (lo Spirito Santo non distinto dalla grazia e abbastanza in ombra) svolgono il ruolo di mistagoghi, eliminando l'ignoranza naturale grazie alla gnosi dell'Essere traascendente del Padre che essi offrono. Questa apofasi può esssere detta triadica poiché essa non va affatto oltre la nozione del Dio personale in tre ipostasi, ma non è triadologica, perché, avendo per oggetto la trascendenza del Padre-Pantocratôr, questa via negativa non fa niente per trasporre nell'aldilà le nozioni trinitarie. Il pensiero trinitario di Clemente non ha niente di una theologia nel senso che i padri del IV secolo daranno a questo termine, ma ha i suoi meriti nella prospettiva economica che gli è propria.
L'autore del De mystica theologia appartiene a tutt'altra epoca, posteriore al grande «secolo trinitario ». Le ambiguità di Clemente di Alessandria e anche le imprecisioni di un sant'Atanasio sono state del tutto superate nel linguaggio teologico grazie all'opera terminologica dei tre Cappadoci.
L'abisso del Padre è divenuto, nella penna di Gregorio di Nazianzo, «l'oceano dell'essenza indefinita e indeterminata» (Or. XXXVIII, In Theophaniam), espressione che sarà ripresa e diffusa da san Giovanni Damasceno dal quale passerà poi alla scolastica latina (pelagus essentiae infinitae) e che sarà citata da san Tommaso e da altri teologi. Le tre ipostasi si estenderanno all'infinità dell'essenza e lo stesso Gregorio di Nazianzo parlerà dell'«infinita connaturalità dei Tre Infiniti» (Or. XII, In Sanctum Baptisma). Così l'infinità, che per Clemente d'Alessandria era la ragione della trascendenza e dell'inconoscibilità del Padre, diverrà un attributo della natura comune dei Tre. Le tre ipostasi, liberate, spogliate di ogni attributo economico, non conserveranno altro che le proprietà relative di paternità, di filiazione e di processione, quelle indispensabili per rendere possibile il discorso teologico. Ma per liberarsi poi della categoria logica della relazione in quel che essa comporta di limitato, dovuto all'opposizione, la teologia trinitaria si esprimerà antinomicamente: «Essi sono Uno distintamente e distinti congiuntamente, per quanto paradossale possa essere questa formula», dirà Gregorio di Nazianzo (Or. XXIII, De Pace, 8) e san Basilio si sforzerà di mostrare che la Trinità non ha niente a che fare con un numero che serve al calcolo (De Spiritu Sancto, 148d -149b). Un movimento d'apofasi accompagna dunque la teologia trinitaria dei Cappadoci e ultimamente deconcettualizza
i concetti che devono riferirsi al mistero di un Dio personale nella sua natura trascendente.
È il momento di domandarci se l'apofasi di Dionigi possa essere considerata come una theologia suprema, se essa trasferisca nell'al di là del conoscibile la Trinità delle persone divine o se, invece, essa la «superi» nel suo slancio negativo verso un'identità sovraessenziale che sarebbe nello stesso tempo un'unità sovrapersonale. In questo caso l'autore del De mystica theologia sarebbe stato uno strumento docile di un offensivo ritorno del platonismo che egli avrebbe introdotto, nella sua espressione plotiniana, nel cuore stesso della teologia cristiana.
Certamente c'è molto in comune tra la teologia mistica di Dionigi e l'apofasi plotiniana così come è descritta nella sesta Enneade. È la stessa spoliazione progressiva che continua sulla via dell'unione mistica.
Sono pronto a riconoscere qui l'esattezza del rimprovero rivoltomi d'aver un po' esasperato la differenza tra Platino e Dionigi3 in ciò che si riferisce al momento propriamente mistico della loro apofasi, cioè la via unitiva come tale.
Sicuramente in Dionigi essa è dominata dall'aspetto dell'unità, dell'Uno che si oppone ad ogni alterità della quale ci si deve liberare per entrare in unione con «colui che è al di là di tutto» (PG 3, col. 1001 A). Ma ci si potrebbe domandare se la nozione di colui al quale si è uniti non superi quella dell'unità alla quale aspira l'ascesa mistica del soggetto umano. È difficile dissociare l'aspetto mistico e unitivo dell'apofasi dionisiaca dalla sua struttura dialettica. Tuttavia noi esamineremo unicamente quest'ultimo aspetto, quello propriamente intellettuale della via remotionis, per poter rispondere alla domanda: in quale misura l'apofasi dello pseudo-Dionigi resta fedele alle esigenze di una teologia trinitaria?
Il De mystica theologia è un trattato sulla via negativa. Esso occupa quindi il primo posto nel piano che Dionigi stesso dà all'insieme dei trattati sulla conoscenza di Dio.
Tra questi trattati egli ne cita due a noi ignoti dei quali ci si può domandare se sono andati perduti o se si tratta sempliceemente di una finzione letteraria. Assieme al trattato De divinis nominibus, che invece conosciamo, essi dovevano formare il gruppo degli studi «catafatici», affermativi. Il più voluminoso dei tre sarebbe stato la Symbolikê theologia, che avrebbe dovuto esaminare l'applicazione a Dio delle immagini sensibili e interpretare gli antropomorfismi biblici. Il trattato De divinis nominibus che doveva precederlo è più conciso perché ha per oggetto gli attributi intelligibili quali il Bene, l'Essere, la Vita, la Sapienza, la Forza, ecc ... meno numerosi delle immagini. Infine il più breve dei trattati catafatici, il primo dei tre (poiché la via affermativa procede discendendo a partire dalle nozioni superiori), avrebbe portato il titolo di Theologikai hypotypôseis o Istituzioni teologiche.
In questo trattato, scrive Dionigi, «abbiamo celebrato le affermazioni principali della teologia affermativa, mostrando in che senso l'eccellente natura di Dio è detta una, in che senso è detta trina, quel che in essa si chiama paternità e filiazione, ciò che la teologia intende significare quando parla dello Spirito». Non c'è dubbio che le Theologikai hypotypôseis (se questo trattato è mai esistito) avessero per oggetto le proprietà trinitarie, mentre i trattati successivi erano consacrati principalmente allo studio degli attributi della natura comune alle tre persone. Il trattato De mystica theologia nella sua suprema concisione va oltre le Theologikai hypotypôseis e tende alla cessazione di ogni parola e di ogni pensiero per celebrare con il silenzio colui che non può essere conosciuto se non per mezzo del non-conoscere. Sembra dunque che i termini della teologia trinitaria debbano essere alla fine spazzati via dall'apofasi, invece di ritrovarsi nell'aldilà verso il quale la via negativa ci fa progressivamente ascendere.
Infatti, dopo aver enumerato, negandoli, gli attributi intelligibili, nella teologia mistica di Dionigi l'ascesa apofatica non si arresterà davanti alle proprietà - relazioni delle persone divine: la divinità trascendente non è né la filiazione, né la paternità, né alcunché di ciò che è accessibile alla nostra conoscenza (col. 1048 A).
Tuttavia non ci si deve affrettare a concludere la portata sovratrinitaria dell'apofasi dionisiaca.
Sarebbe misconoscere la dialettica che regge la serie delle negazioni e delle affermazioni. La si può definire come una disciplina intellettuale della non-opposizione dei contrari, disciplina che conviene a ogni discorso sulla vera trascendenza, quella che resta «inimmaginabile» per i non cristiani (col. 1000 A B). Non è la via dell'eminenza accennata già nel medioplatonismo, la via verso la quale san Tommaso ha voluto canalizzare l'apofasi dell'Areopagita, per riferire a Dio il significato affermato negando il modo umano di significare. Le negazioni di Dionigi hanno la meglio sulle affermazioni e anche se l'autore del De divinis nominibus permette di formare i superlativi in hyper, questi nomi non significano la natura trascendente in se stessa, ma le sue processioni ad extra (proodoi) o «virtù » (dynameis) nella misura in cui esse trascendono tutte le partecipazioni create e restano unite alla «Sovraessenza» dalla quale si distinguono ineffabilmente. La non-opposizione del negativo e del positivo nella «teologia» propriamente detta suppone dunque, nella dottrina degli attributi, una nozione di unità della natura trascendente che prevale sulle distinzioni, sulle diakriseis delle energie manifestatrici, senza sopprimere tuttavia il loro carattere reale. Il principio di preminenza delle negazioni sulle affermazioni è dunque confermato nel trattato De divinis nominibus. Il Dio trascendente della theologia si immanentizza, per così dire, nella sua economia, per mezzo della quale «le energie scendono fino a noi», secondo l'espressione dei «grandi Cappadoci», platonizzata da Dionigi che parla di dynameis. Per parlare della «Sovraessenza» bisognerà però superare con l'apofasi le manifestazioni economiche ed entrare nella teologia trinitaria, che è il vertice della catafasi secondo il piano della teognosia dionisiaca.
Le poche informazioni che troviamo nel Corpus su ciò che dovrebbe essere il trattato triadologico di Dionigi ci permetttono di affermare che la regola della non-opposizione, che presiede qui all'utilizzazione dell'apofasi, esclude ogni tentativo di ridurre la Trinità delle ipostasi ad una Unità primordiale transpersonale. Nell'ultimo capitolo del De divinis nominibus, consacrato al nome dell'Uno, Dionigi dichiara che «la Deità trascendente è celebrata insieme come Unità e come Trinità.
Essa non è infatti conoscibile né da noi né da alcun essere, né come Unità né come Trinità» (coll. 980 D-981 A). Negati nella loro opposizione, i due termini devono essere presi insieme, in una specie di synopsis o visione simultanea che identifica distinguendo. Continua Dionigi: «Per celebrare con verità tanto ciò che in essa è più che unito quanto la fecondità divina, noi attribuiamo insieme il nome di Unità e quello di Trinità a colui che è al di sopra di ogni nome e che trascende sovraessenzialmente tutto ciò che esiste» (col. 981 A). Il principio di «fecondità divina» (to theogonon) è mantenuto allo stesso livello della «sovraunità», il che suggerisce questa volta la distinzione tra la natura e le ipostasi, senza sottomettere in questo caso la Trinità all'Unità, contrariamente a ciò che è stato detto delle processioni ad extra, dove le diakriseis erano sottomesse alle enôseis.
All'inizio dello stesso trattato, dopo aver riportato quasi letteralmente la conclusione negativa della prima ipotesi del Parmenide (col. 593 A; Parm. 142 a), Dionigi si domanda come si possa parlare dei nomi divini davanti a questa inconoscibilità radicale. Poi, riferendosi al suo trattato triadologico (forse fittizio) aggiunge: «Come ho già detto nelle mie Theologikai hypotypôseis, l'Inconoscibile, il Sovraessenziale, il Bene in sé, Colui che è, cioè l'Enade triadica5 non può essere colta né con le parole né col pensiero» (col. 593 B). La vera trascendenza, che solo i cristiani possono confessare, appartiene dunque all'«Unitrinità» e questo termine contraddittorio deve esprimere la synopsis dell'Uno e del Tre, oggetto del De mystica theologia.
Non si riuscirebbe a raggiungere la Trinità trascendente della theologia per mezzo della nozione di «relazione opposta». Non dimentichiamo che se il Dio dei filosofi non è il Dio vivente, quello dei teologi non lo è che a metà fintantoché l'ultimo superamento non è compiuto. Per questo noi abbiamo visto i termini di paternità e filiazione negati dall'apofasi del De mystica theologia: negati in virtù del principio di non opposizione che presiede a questa tappa suprema della teognosia di Dionigi.
Come opporre le due persone, il Padre e il Figlio, quando bisognerebbe trovare un'opposizione impossibile per la logica umana, l'opposizione dei Tre, per esprimere pienamente il mistero di un Dio personale? E visto che non possiamo opporre i Tre, assolutamente diversi nella loro identità assoluta, la logica dell'opposizione così come il calcolo numerico devono restare al di qua della Trinità consustanziale. La Triade non è forse un'esclusione della Diade, un superamento del principio dell'opposizione di due termini relativi? Essa infatti ci suggerisce una distinzione più radicale di quella di due opposti: una differenza assoluta che non può che essere personale, propria delle tre ipostasi divine, «unite nella distinzione e distinte nell'unione» (col. 641 B; cf. san Basilio, Ep. XXXVIII, 4;6 san Gregorio di Nazianzo, Or. XXIII, 8). L'autore del Corpus sembra qui dipendere strettamente dalla problematica trinitaria propria dei Cappadoci.7
Lo stesso principio di non-opposizione triadica è stato formulato «ermeticamente» da Gregorio di Nazianzo attraverso l'immagine della Monade che si mette in movimento per superare la Diade e fermarsi nella Triade (Or. XXIII, 8-35: PG 36, col. 1160 C; Or. XXIX, 2-36: ibid., col. 76 B). Tributario delle stesse concezioni trinitarie, Dionigi trova al termine della sua teognosia il principio di non-opposizione personale, radice dell'inconoscibilità del Dio-Trinità trascendente, oggetto della «teologia» propriamente detta che non può essere che «mistica».
Concludendo il nostro studio sul metodo negativo e la teologia trinitaria, possiamo constatare che nei due casi qui brevemente esaminati l'apofasi presenta un carattere molto diverso. Determinata dalla trascendenza del Padre-Pantokratôr in Clemente d'Alessandria, essa non riesce a liberare la teologia trinitaria dalle implicazioni cosmologiche dell'economia. Quel che il maestro alessandrino non ha saputo realizzare sarà invece realizzato dall'«abile ignoto» che, dopo i Cappadoci, darà l'ultimo tocco agli schemi triadici della tradizione platonica, identificando il Dio inconoscibile della via negativa con l'«Unitrinità» della trascendenza cristiana.
L'apofasi del De mystica theologia non è determinata dal principio d'identità assoluta dell'Uno che trascende l'Essere. La dialettica delle affermazioni e negazioni non opposte, applicata al dogma trinitario, obbliga a superare l'Uno opposto all'Altro. Non è la Monade impersonale, ma la «Triade sovraessenziale e più che divina» che l'autore del De mystica theologia invoca all'inizio del suo trattato, affinché essa diriga «al di là stesso dell'inconoscenza», verso la via dell'unione con la divinità triunica, il teologo alla ricerca di quel Dio della rivelazione cristiana che trascende l'opposizione tra il trascendente e l'immanente, essendo al di là di ogni affermazione e di ogni negazione.
6 Tale lettera è attualmente identificata con il trattato De differentia essentiae et hypostaseos ad Petrum fratrem di
Gregorio di Nissa: cf. Clavis Patrum graecorum, II, Brepols-Turnhout 1974 [N.d.T.].
7 Questa dipendenza mostrata da CESLAS PÉRA costituisce il merito più grande del suo articolo «Denys le Mystique
et la Théomachia», in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques XXV(1936), 47-50.
1 De Spiritu Sancto: PG 32, col. 153 B. Per evitare le note porremo nel testo, tra parentesi, brevissimi riferimenti.
2 Per esempio quando diciamo: «Il Figlio è Sapienza» o «lo Spirito Santo è Amore».
3 M. de Gandillac, La Sagesse de Plotin, Paris 1952, XVII, nota 3.
4 Trad. di M. de Gandillac, La Sagesse de Plotin, 181.
5 Tên triadikên henada: M. De Gandillac ha felicissimamente tradotto questo termine con l'espressione Unitrinità,
73.
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