domenica 25 agosto 2013

Giovanni Crisostomo "De sacerdotio" Libri I° II° III°

Libro primo
Prologo
Amicizia di Giovanni e Basilio
I. Io avevo molti amici veraci e sinceri, i quali perfettamente conoscevano e osservavano le leggi dell’amicizia; ma uno fra gli altri molti vi era, il, quale tutti superandoli in intimità, studiava di lasciarne indietro di tanto, quanto essi distavano dalle persone semplicemente mie conoscenti. Questi era stato sempre in mia compagnia; avevamo intrapreso gli stessi studi sotto gli stessi maestri; eguale era fra noi la bramosia e diligenza per le esercitazioni retoriche a cui ci dedicavamo; eguale l’aspirazione e generata dallo stesso obbietto. Né solo al tempo in cui frequentavamo i nostri maestri, ma allorquando, toltone commiato, bisognava consigliarsi circa la miglior carriera da scegliere, anche in questo caso ci trovammo d’accordo. Esistevano inoltre fra noi altri rapporti indissolubilmente costanti. Poiché né l’uno poteva menare maggior vanto dell’altro circa l’importanza del luogo natio; né la sorte aveva dato a me ricchezza soverchia e a lui estrema povertà; ma anche la proporzione dei beni di fortuna eguagliava l’identità delle nostre intenzioni; egualmente distinto era il casato di ciascuno, ed eravamo unanimi in ogni pensiero. Se non che, quando fu deciso di dedicarci alla santa vita dei monaci e alla verace filosofia, non fu eguale per noi questo giogo; mentre dalla sua parte la bilancia alleggerita si elevava, io tuttora inceppato nei desideri mondani, trascinavo in basso la parte mia, e la impedivo di sollevarsi, opprimendola di vaneggiamenti giovanili. Qui pertanto durava bensì costante fra noi tutto il resto, come per l’innanzi, l’amicizia, ma la comunanza di vita venne spezzata, non essendo possibile intrattenere conversazioni fra persone che non condividevano le medesime cure. Quando poi anch’io un poco cominciai a emergere dal flutto della vita mondana, quegli mi accolse a braccia aperte, ma non riuscivo ancora a mantenermi di fronte a lui nell’eguaglianza in che ero stato sempre per l’innanzi. Poiché egli, superandomi d’età e dimostrando gran zelo, saliva più in su di me ed era tratto ad altezze grandi. Tuttavia essendo egli buono e facendo molto caso della mia amicizia, segregandosi da tutti gli altri s’intratteneva continuamente con me; e anche prima egli avrebbe voluto farlo, ma, come dissi, glielo impediva la mia indolenza. E per certo, uno che soleva sedere a giudice nel dicastero e che andava pazzo per gli spettacoli del teatro, non si sarebbe adattato a trovarsi sovente insieme con chi se ne stava di continuo inchiodato sui libri senza mai dare neanche una capatina in piazza. Per tal motivo egli stava separato da me; e poi che una buona volta mi ebbe guadagnato allo stesso regime di vita, d’un tratto soddisfece il desiderio concepito da lungo tempo, né tollerava d’abbandonarmi per ben che piccola parte della giornata, e finì per esortarmi affinché, lasciando ciascuno di noi la propria casa, avessimo ad abitare in comune; e a ciò m’aveva egli persuaso, e già si stava per attuare il disegno.
La madre si oppone al ritiro di Giovanni con l’amico Basilio
II. Ma i continui lamenti di mia madre mi impedirono di dare a lui questa consolazione, o piuttosto, di ricevere da lui questo dono. Poiché, inteso ch’essa ebbe questo mio disegno, prendendomi per mano mi condusse nelle sue stanze; indi fattomi sedere vicino, sul letto nel quale ella mi aveva dato alla luce, cominciò a versare copiose lacrime, e, più pietose delle lacrime, aggiunse poi le parole, in simile modo meco lagnandosi: "Io, diceva, o figliolo, non potei godere a lungo delle virtù di tuo padre ciò essendo piaciuto a Dio; poiché la morte di lui che tenne dietro alla tua nascita, fece te orfano c piombò me in una precoce vedovanza e nei malanni a quella connessi, tali che solo chi li ha sofferti può adeguatamente comprenderli. Non si può immaginare a quale bufera e a quale tempesta soggiace una fanciulla che, appena uscita dalla dimora paterna e inesperta di affari, venga d’improvviso gettata in un cordoglio intollerabile e costretta a sobbarcarsi a cure superiori all’età sua e alla sua stessa natura. Deve infatti, io credo, sorvegliare la negligenza dei servi e porsi in guardia dalle loro malizie; sventare le insidie dei parenti, tollerare fortemente i soprusi degli esattori e la loro esosità nell’esigere il pagamento delle imposte. Se poi il defunto si dipartì lasciando prole in tenera età, se è una bambina, anche in tal caso ciò arreca molte preoccupazioni alle madri, sebbene non incomba la necessità di grandi spese, né il timore dell’indigenza. Ma se si tratta di un figlio maschio, la riempirà ogni giorno di mille timori e di innumerevoli cure; lascio da parte i sacrifici di denaro che è costretta a sostenete, volendogli procurate una distinta educazione. Ciò nonostante, nessuna di queste difficoltà mi poté indurre a legarmi in seconde nozze e introdurre un secondo marito nella dimora di tuo padre: ma mi rimasi sola nella tempesta e nel turbine, né mi sottrassi al ferreo crogiolo della vedovanza, e ciò anzitutto in forza dell’aiuto venutomi dall’alto, poi perché non piccola consolazione mi recava in mezzo a quelle distrette, il vederti sempre a me vicino e il serbarmisi in te vivamente riprodotto il gentile riflesso delle sembianze del defunto; per questo e per essere tu ancora bambino né capace di articolare parola, in quell’età nella quale maggiormente i figli sono di diletto a’ parenti, mi fosti causa di grande consolazione. Né potresti incolparmi d’aver io bensì sopportato fortemente la vedovanza, ma assottigliati d’altra parte a te i beni paterni per sopperire alle necessita vedovili; cosa che io vidi toccare a molti figli travagliati da orfanezza. Io tutte le tue sostanze serbai intatte, mentre nulla risparmiai di ciò che occorreva spendere per la tua educazione, sopperendovi con i miei beni e con la dote che recai dalla mia casa. Né devi credere che io dica questo per fartene debito; ma in compenso di ogni cosa ti chiedo un solo favore, di non infliggermi una seconda vedovanza, né ridestare in me l’ambascia ornai sopita; aspetta sino a che io muoia: forse fra poco me ne andrò. I giovani possono nutrire speranza di giungere fino ad una tarda età, ma noi vecchi null’altro omai aspettiamo se non la morte. Quando adunque m’avrai consegnata alla terra e riunita con le ossa del padre tuo, allora intraprendi pure lunghi viaggi e naviga quel mare che ti piacerà; niuno te ne farà ostacolo; ma fin che io respiro stattene a me vicino. Né voler offendere senza ragione Iddio col procurare un tanto cordoglio a me che niuna ingiuria t’ho arrecata. Poiché se tu puoi muovermi rimprovero che io ti distragga fra cure materiali e ti costringa ad assumere la tutela della tua sorte, in tal caso senza badare alle leggi di natura, né all’educazione da me ricevuta, né all’intimità, né ad altra cosa qualsiasi, fuggimi pure quale insidiatrice e nemica; ma se invece io faccio di tutto per renderti massimamente agevole il cammino di questa vita, se altro non fosse, almeno questo vincolo ti trattenga al mio fianco. Ché se pure innumerevoli altri tu dica che ti sono amici, niuno ti permetterà di godere tanta libertà, poiché nessuno v’è a cui tanto stia a cuore la tua onoratezza, come a me".
Basilio insiste nel suo proposito. Improvvisa designazione all’episcopato. Giovanni si sottrae a insaputa dell’amico
III. Queste ed altre cose ancor più toccanti disse la madre a me ed io riferii all’amico. Egli però, non solo non se ne turbava, ma vie più insisteva nella proposta che prima mi aveva fatta.
Mentre noi discutevamo intorno a ciò, pregandomi egli continuamente e non avendo io per anco dato il mio assenso, d’un tratto una certa novella che giunse al nostro orecchio ci gettò ambedue nello sgomento: la novella era che noi avevamo da essere elevati alla dignità dell’episcopato. Io all’udire ciò fui preso da timore e ansietà: da timore di essere forzato anche contro mio volere; da ansietà perché non potevo raccapezzarmi, per quanto cercassi, donde mai fosse venuta a quelle persone una simile idea a mio riguardo; ché scrutando me stesso non trovavo nulla che fosse meritevole di quella dignità. Frattanto quell’impareggiabile amico recatosi da me in privato e confidandomi la cosa come se io nulla ne avessi per anco udito, mi pregava che anche in questa circostanza noi dovessimo dimostrarci di pieno accordo nell’agire e nel deliberare, come prima sempre avevamo fatto; soggiungeva che egli m’avrebbe accompagnato in qualunque parte avessi voluto condurlo, sia che fuggissimo, sia che dovessimo essere eletti. Vedendo io pertanto il suo zelo, e stimando di recare danno a tutta la comunità ecclesiastica qualora, a cagione della mia inettitudine privassi il gregge di Cristo d’un giovane così buono e così adattato per esercitare il governo degli uomini, non gli svelai il mio disegno riguardo a quella faccenda, sebbene per lo innanzi non avessi mai sopportato che rimanesse a lui nascosta qualsiasi parte delle mie intenzioni; ma dicendo che bisognava rimandare ad altro tempo la decisione, poiché per allora la cosa non era urgente, lo ebbi tosto persuaso di non pensare a ciò e di starsi tranquillo sul conto mio, che certo sarei stato d’accordo con lui qualora ci trovassimo in simile circostanza. Trascorso non molto tempo, giunto colui che doveva consacrarci ed essendomi io nascosto, egli non sapendo nulla di ciò, venne condotto via con una ragione plausibile; ricevette pertanto il giogo, confidando, da quanto gli avevo promesso, che io l’avrei senz’altro seguito, anzi credendo di venirmi addietro. E intanto alcuni fra i presenti, vedendolo triste per esser stato preso, lo ingannarono dicendo essere cosa strana che colui il quale sembrava a tutti più impetuoso, e alludevano a me, cedesse con molta calma al giudizio dei padri, e al contrario colui che era più assennato e modesto s’incaponisse e riluttasse, agitandosi, ricalcitrando e contraddicendo. Avendo poi egli ceduto a queste parole, appena seppe che io ero fuggito, venne presso di me, e dopo essersi rimasto a lungo costernato, alfine si sedette vicino e voleva pur dire qualcosa, ma trattenutone dall’ansietà, né potendo adeguare colla parola l’agitazione da cui era preso, tosto che apriva la bocca per parlare, n’era impedito, essendo la parola troncata dalla confusione prima di uscire fuori dai denti. Vedendolo io pertanto lacrimoso e tutto ripieno di turbamento e sapendone la cagione, mi posi a ridere per il gran piacere che provavo, e tenendogli la destra mi sforzavo di baciarlo, lodando Iddio che avesse fatto riuscire bene il tranello e secondo il mio desiderio. Ma egli come mi vide raggiante di gioia, e come prima intese d’essere stato da me ingannato, più fortemente si rodeva e si adontava.
Lagnanze di Basilio per l’inganno dell’amico
IV. Alfine riavutosi alquanto da quel turbamento di spirito: "Se anche, disse, hai posto in non cale i fatti miei e ormai non fai più nessun conto di me, per qual motivo non so, dovevi pur darti pensiero almeno della tua riputazione. Ora hai aperto le bocche di tutti, e ognuno va dicendo che tu hai rifiutato questo ministero per mondano attaccamento, né v’è alcuno che pensi a scolparti da simile accusa. A me poi non dà l’animo neanche di mostrarmi sulla piazza, tanti sono quelli che mi vengono incontro e ogni giorno mi fanno rimproveri. Se poi mi vedono apparire in qualche parte della città, prendendomi a quattr’occhi quanti sono con noi in rapporti di familiarità, versano su di me la maggior parte delle accuse. Poiché, dicono, conoscendo tu la sua intenzione né a te era mai nascosto nulla de’ suoi disegni non dovevi celarla a noi, ma rendercene informati; chè non ci sarebbe affatto mancato il mezzo di prenderlo. Onde io, che proprio ignoravo che tu da lungo tempo andassi maturando tale progetto, mi vergogno e arrossisco di rispondere a coloro, per timore che non abbiano a stimare la nostra una finta amicizia. E se anche è così, come non v’ha ormai dubbio, né potresti negarlo dopo quello che mi hai fatto, è pur cosa prudente il celare le nostre magagne agli altri, che hanno buona opinione di noi. Io rifuggo adunque dallo spiattellare loro in faccia la verità, dicendo come stanno fra noi le cose; sono quindi costretto a tacere e chinare gli occhi a terra, cercando di evitare e fuggire gli incontri, Ma se io pure sfuggirò alla prima accusa, sarò poi tacciato di menzogna, perché certo non vorranno credere mai che tu abbia collocato Basilio al livello di coloro ai quali non è lecito confidare i tuoi secreti. Or non voglio far troppe parole su ciò, poiché a te è così piaciuto; ma riguardo al resto, come potremo noi sopportare la vergogna? chi ti accusa di arroganza, chi di vanagloria; quelli poi fra i nostri accusatori che si mostrano più accaniti, ti addossano l’una e l’altra colpa, e aggiungono che tu hai fatto ingiuria a quelli che ti avevano proposto alla dignità. Aggiungono ancora esser ben giusto che quelli soffrano tale affronto da noi e che ne meriterebbero di maggiori; perché lasciati da parte tanti e tali altri candidati, prendono fanciulli ancor ieri e ieri l’altro ingolfati nelle affezioni mondane, e se appena abbiano per qualche tempo portato in giro gli occhi bassi, vestito panni bruni e ostentato compunzione, d’improvviso li elevano a una si augusta dignità, a cui neppure avrebbero sognato di giungere mai; mentre uomini che hanno durato in penitenza dalla prima età fino all’estrema vecchiezza, rimangono fra i sudditi, e comandano a loro gli imberbi che potrebbero esser loro figli, ignari delle leggi secondo le quali si deve questo governo esercitare. Queste ed altrettali dicerie ripetendo, mi stanno continuamente ai panni. Io non ho che rispondere in difesa a queste imputazioni, e però ti prego di suggerirmelo. Poiché io non credo già che tu abbia perpetrata questa tua fuga ingenuamente e senza un piano premeditato, affrontando l’inimicizia di sì alti personaggi, ma che ciò tu abbia fatto con qualche calcolo riflesso e con qualche idea preconcetta; onde io mi penso che avrai pronti gli argomenti per la tua difesa. Di’ adunque, se v’è qualche giusto pretesto che possiamo addurre ai nostri accusatori. Dell’ingiuria da te arrecatami non cerco alcuna ragione, né per avermi ingannato, né per avermi tradito, né di quanto nel passato ho fatto per te. Io veramente avevo preso, per così dire, l’anima mia e postala nelle tue mani; tu invece hai usato meco in guisa tanto subdola, come se avessi dovuto porti in guardia da un nemico. Per certo, se riputavi vantaggiosa questa nostra elezione, non dovevi privare te di tale vantaggio; se poi la credevi dannosa, dovevi allontanare il danno anche da me, che pur dicevi di apprezzare più d’ogni altro. Invece facesti il possibile per farmici cascare, e ti fu mestieri dell’inganno e della finzione verso chi soleva sempre fare e dire ogni cosa con te senza sotterfugi e con piena sincerità. Ma, come ho detto, non voglio rampognarti di questo ora, né rimpiango la solitudine in cui mi hai posto, troncando quelle conversazioni comuni, da cui sì gran piacere e non piccolo vantaggio tante volte ritraemmo. Lascio da parte ogni cosa, sopportando in silenzio e mitemente: già non facesti mitemente tu, ponendomi in non cale; ma da quel giorno in cui ricambiai d’affetto la tua amicizia, mi ero imposto questa legge, di non chiederti ragione di qualunque offesa piacesse a te di recarmi. Che poi non lieve danno tu m’abbia inflitto, lo sai tu stesso, seppure ti sovviene delle parole che gli estranei dicevano di noi e di quello che noi stessi dicevamo: cioè che grande vantaggio era per noi l’essere concordi e il farci riparo della reciproca affezione. E gli altri tutti asseveravano che pur a molti non poco frutto avrebbe portato la nostra unanimità. Io per vero non mi pensavo, per quanto dipendeva da me, di portar frutto ad alcuno; ma ben ritenevo che assai ci avrebbe giovato per non essere agevolmente sopraffatti da coloro che avessero voluto muoverci guerra. E non cessavo mai di ricordarti che l’età nostra è perversa; molti ci tendono insidie; l’amore sincero è sparito e vi è sottentrata la peste della gelosia; procediamo in mezzo ai tranelli e siamo esposti come coloro che combattono sugli spalti della città. Numerosi e da molte parti sopraggiungono quelli che sono pronti a rallegrarsi dei nostri mali, qualora alcuno ce ne accada, e niuno v’è che alle nostre sciagure vorrebbe partecipare, o pochissimi per certo. Guardati pertanto che, essendo noi discordi, non ci tocchi gran derisione, o peggio ancora, qualche malanno. "Il fratello sorretto dal fratello è come città forte e come un regno sbarrato"(Prv. 23,19); non voler dissolvere questa fraternità sincera, né infrangere la barra. Queste e molte altre cose io ti venivo sempre dicendo, nulla sospettando mai di simile, ma stimando i tuoi sentimenti verso di me saldi e intatti, e volendo suggerire rimedi non necessari a uno spirito sano; non mi pensavo certo, come sembra, che porgevo medicine a chi in realtà era malato. Ma, misero me, che neppure così trassi giovamento, né m’ebbi miglior sorte per questa mia gran previdenza! Gettando via in un fascio tutti quegli ammaestramenti, anzi neppur accogliendoli nel cuore, spingesti me inesperto in mezzo al pelago, come una nave priva di zavorra, senza pensare alle fiere tempeste che dovrò sostenere. Ché se mi occorrerà talora d’aver a sopportare calunnia o scherno o altra insolenza ed oltraggio ed è forza che. ciò m’accada, presso chi potrò cercare rifugio? a chi confidare i miei timori? chi vorrà assumere la mia tutela e, reprimendo gli oltraggiatori e impedendo loro di più oltre farmi ingiuria, mi conforterà e mi aggiungerà lena per tollerare l’ignoranza altrui? Nessuno v’è ormai, poi che tu ti rimani lontano da questo fiero o conflitto, né ti dà l’animo di udirne pur anco il frastuono. Or comprendi qual male hai commesso? riconosci ora, dopo aver inflitto il colpo, qual mortale ferita mi recasti? Ma questo lasciamolo, ché non si può disfare quel che oramai è fatto, né è dato trovare l’adito quand’è chiusa ogni via. Dimmi piuttosto: che cosa ho da dire agli estranei? come rispondere alle loro accuse?".
Fine del prologo. Prima parte della difesa di Giovanni. L’inganno può essere opportuno e lecito
V. Fa’ cuore, dissi, non solo sono pronto a dar ragione di tutto, ma mi studierò di giustificarmi, come saprò meglio, anche di quello onde mi accusi senz’ammettere giustificazione. Anzi, se ti piace, da questo appunto prenderò la mia difesa, perché sarebbe cosa sconveniente e molto irragionevole se, preoccupandomi dell’opinione degli estranei e adoperandomi in ogni modo per distruggere le imputazioni che ci muovono, non riuscissi a tranquillizzare il mio più diletto amico (colui che pur dicendosi da me ingiuriato, usò meco tanta moderazione da non voler neppure chiedermene conto, ma dimenticando le sue querele si preoccupa solo de’ fatti miei), dimostrandogli che non gli ho fatto alcuna ingiustizia; e sembrassi per tal modo più trascurato a suo riguardo di quanto egli si mostrò sollecito verso di me. In che dunque ti ho fatto ingiuria? Poiché da questo punto ho deciso di muovere nel pelago della mia difesa; gli è dunque perché t’ho ingannato e t’ho celato la mia intenzione? Ma io ti dico che ciò fu per tuo vantaggio e per vantaggio di coloro ai quali io ti ho consegnato mediante l’inganno. Infatti, se in ogni caso la frode è un male e in nessuno modo mai è da farne uso, allora io sono pronto a subire la pena che a te piacerà di richiedere; o meglio, poiché tu non sosterresti di infliggermela, io stesso pronuncerei contro di me quella condanna che i giudici recano contro i colpevoli quando questi vengono presi da’ loro accusatori. Se invece la frode non è sempre dannosa, ma diviene buona o cattiva a norma dell’intenzione di chi l’adopera, cessando di imputarmi l’inganno, tu devi dimostrare che questo io feci per tuo svantaggio; che se ciò non è, lungi dal muovere. biasimi e querele, le persone assennate dovrebbero per giustizia saper grado all’ingannatore. Ora l’inganno ben adoperato e applicato con retta intenzione è talmente vantaggioso, che molti dovettero spesso sottostare a pena per non averlo messo in opera.
Esempio tolto dall’arte militare
VI. Se ti piace di cercare fra i capitani da lunga pezza celebrati, troverai che la maggior parte di loro vittorie fu effetto di stratagemmi e vedrai pure che sono più lodati costoro di quelli altri i quali vinsero pugnando in campo aperto. Questi infatti pagando la vittoria con molto dispendio di denaro e di uomini, diedero vantaggio al nemico, di guisa che nulla giovò loro l’aver vinto, ma i vincitori furono in non minore angustia dei vinti, per via dei soldati da loro perduti e dell’erario esaurito. Inoltre non è dato loro di godersi la gloria delle armi, perché non piccola parte di essa tocca ai caduti nella battaglia i quali, pur vinti nei corpi, rimangono tuttavia vincitori nelle anime, e se era dato loro di serbarsi incolumi fra i colpi dei nemici e sfuggire così alla morte, non avrebbero certamente rallentato di coraggio. Ma il duce che riuscì a vincere mediante l’inganno, infligge ai nemici, oltre lo scacco, la derisione; perocché la lode di sagacia non tocca questa volta ad ambedue le parti come la lode della forza nel primo caso, ma qui il premio è tutto intero dei vincitori, e, ciò che non vale meno, essi serbano intera alla città la gioia della vittoria. Sono infatti cose diverse la ricchezza e il numero dall’accortezza della mente: quelle, col continuo usarne durante la guerra, si dissipano e lasciano all’asciutto i loro possessori; questa invece quanto più uno l’adopera, tanto più aumenta. Né solo durante la guerra, ma anche in tempo di pace può esservi grande e urgente bisogno d’usare l’inganno, non solo nei pubblici affari, ma anche in casa la moglie verso il marito e viceversa, il padre verso i figli, l’amico con l’amico e pur verso il padre i figlioli. La figlia di Saul non riuscì a trarre suo marito dalle mani del padre suo, se non usando verso di lui l’inganno. Il fratello di lei poi, volendo a sua volta salvare dal pericolo estremo quegli che già da lei era stato salvato, nuovamente pose in opera le stesse armi a cui la donna aveva ricorso.
Esempio tolto dall’arte medica
VII. Qui Basilio: Ma ciò non mi riguarda punto, disse; poiché io non sono per te nemico né avversario, né del numero di coloro che perpetrano l’ingiustizia, ma tutto all’opposto: perché essendomi io rimesso sempre al tuo consiglio, ti seguii là dove tu avevi indicato.
Ottimo e impareggiabile uomo, soggiunsi, appunto per questo io dissi prima che non solo in guerra ne solo contro i nemici, ma anche in pace e coi più intimi è buona cosa usare la frode. Per persuaderti poi che questa giova non solo a chi l’adopera, ma pure a chi la subisce, va’ e domanda a qualche medico con quali mezzi essi liberano gl’infermi dai loro malanni, e udrai che non solo con l’arte allontanano i morbi, ma che vi sono casi nei quali appigliandosi allo stratagemma e venendo con esso in soccorso all’arte, possono talora ricondurre l’infermo a sanità. E infatti, quando l’irritabilità dei malati e la perversità del male stesso non s’adattano ai consigli dei medici, allora é mestieri vestire la maschera dell’inganno per celare la vera natura delle cose, come accade sulle scene. Ti narrerò, se ti piace, uno stratagemma fra i molti che udii essere stati usati dai cultori dell’arte medica. Era sopraggiunta a un tale d’improvviso una gran febbre e l’ardore andava crescendo; il malato rifiutava i calmanti che gli si davano per sedarla e pregava con molta insistenza chi si recava a fargli visita, affinché gli porgesse vino in copia e gli desse di poter saziare quella brama mortale. Or chi gli avesse soddisfatto questo desiderio, non solo gli avrebbe vie più accesa là febbre, ma avrebbe gettato quell’infelice in preda al delirio. Allora, vacillando l’arte né avendo alcun rimedio ed essendo posta al tutto da un canto, vi sottentrò l’inganno, facendo prova di sua benefica efficacia, come tosto udrai. Il medico, preso un vaso di terra cotta uscito di fresco dalla fornace, lo immerse in grande quantità di vino; indi trattolo fuori vuoto e riempitolo d’acqua, ordina di oscurare con molte tende la stanza ove giaceva l’infermo, affinché la luce non palesasse l’inganno, e gli porge quindi il vaso da bere, come se fosse pieno di vino puro. Quegli, prima ancora di averlo tra mano, subito ingannato dal profumo che se ne spandeva, non sofferse neppure d’investigare su ciò che gli era porto, ma fidandosi all’odore e illuso dall’oscurità, spinto dalla brama tracannò con grande avidità il liquido e saziatosi spense tosto l’ardore che lo soffocava, scampando così dal pericolo imminente. Vedi il vantaggio dell’inganno? Ché se si volesse addurre tutti gli stratagemmi dei medici, non la si finirebbe più. Né solo coloro che curano i corpi, ma anche fra coloro che danno opera a curare le infermità spirituali, si può trovarne di quelli che spesso usarono tale rimedio. Con questo infatti il beato Paolo acquietò quella moltitudine di Giudei; con tale intenzione pure circoncise Timoteo colui il quale aveva mandato a dire ai Galati che Cristo non avrebbe giovato per nulla ai circoncisi; onde si sottopose alla Legge colui stesso che stimava un danno la giustificazione della legge dopo la fede in Cristo. Grande è invero l’efficacia dell’inganno, purché non venga adoperato con intenzione maligna; anzi non inganno si deve dire questo modo di agire, ma piuttosto una certa economia e saggezza, un’arte capace di trovare molte vie d’uscita nei luoghi impervi, e di correggere anche le negligenze dell’anima. Poiché io non chiamerei omicida Finees, sebbene d’un sol colpo uccidesse due persone; e neppure Elia in seguito ai cento soldati e a’ loro duci, e al torrente di sangue che fece scorrere con la strage dei sacerdoti idolatri. Che se ciò ammettiamo e se le azioni di coloro che quelle cose compirono, si considerano per se stesse, separatamente dall’intenzione, taluno potrà, se gli talenta, chiamare Abramo uccisore di suo figlio, ed il nipote ed il discendente di lui parimenti incolperà di misfatto e d’ingiustizia: perocché in tal guisa l’uno conquistò la precedenza naturale e l’altro trasferì le ricchezze degli Egizi nell’esercito degli Israeliti. Ma no, non é certo così: lungi tale empietà! Ché non solo li riteniamo incolpevoli, ma anzi, per queste stesse loro azioni li ammiriamo, poiché Dio stesso ne li lodò. Ed invero si deve chiamare giustamente ingannatore colui che usa il ripiego con fine ingiusto, non chi vi ricorre con retto consiglio. Ma d’altra parte spesso torna utile l’ingannare, per ritrarre da tale artificio i maggiori vantaggi: onde colui che vi s’induce con retto fine, cagionerebbe gravi mali a chi non venisse ingannato.
 Libro secondo
L’inganno diede occasione a Basilio di manifestare il suo amore a Gesù Cristo
I. Avrei potuto dire molto di più per dimostrare che si può usare l’efficacia dell’inganno anche in bene, e che questa non dovrebbe chiamarsi frode, ma piuttosto una certa mirabile economia. Ma poiché le cose dette sono ormai sufficienti per darne la prova, sarebbe importuno e noioso il protrarre più a lungo il discorso. Toccherebbe ora a te il dimostrare che io ho usato un tal mezzo contro al tuo vantaggio.
E Basilio: Ma quale vantaggio, disse, mi recò questa tua economia o saggezza o come meglio ti piaccia di chiamarla, perché io debba credere che in realtà non fui da te ingannato?
E qual maggior guadagno, soggiunsi, che l’essere veduti a compiere quelle opere che Cristo stesso disse essere segni dell’amore a Cristo, E per vero, rivolgendosi al corifeo degli Apostoli: Pietro, dice, mi ami tu? e affermandolo questi, soggiunge Cristo: Se mi ami, pascola le mie pecore. Il maestro interroga il discepolo se lo ama, non già per esserne informato, come ne avrebbe avuto bisogno colui che penetra i cuori di tutti? ma per insegnare a noi quanto gli stesse a cuore il governo di questo gregge. Ora, essendo ciò palese, sarà pur palese la conseguenza, cioè che grande e incomparabile mercede sarà serbata a chi si dedica a quest’impresa, che tanto è apprezzata da Cristo. Che se noi, qualora vediamo alcuno prendersi cura dei nostri armenti, consideriamo come segno di affezione verso di noi la cura usata verso di quelli, sebbene si tratti di cose acquistate con denaro; colui che ha riscattato questo gregge non con ricchezza od altro valore, ma con la sua propria morte e ne diede in prezzo il suo stesso sangue, con qual mercede ricambierà quelli che si occupano nel pascolare questo gregge stesso? Per ciò appunto, avendo il discepolo risposto: Tu sai, o Signore, che io ti amo, chiamando l’amato stesso in testimonio del suo amore, il Salvatore non si accontentò solo di questo, ma aggiunse la dimostrazione dell’amore. Non voleva già Egli allora che Pietro gli significasse la proporzione dell’amor suo, ciò è a noi noto per molti indizi, ma Voleva dimostrare piuttosto quanto Egli ami la sua Chiesa; e volle che Pietro e tutti noi lo apprendessimo, affinché ancor noi le dedicassimo tutte le nostre cure. Per qual ragione infatti Dio non risparmiò il suo unigenito figliolo, ma quel solo che aveva lo donò? certo per riconciliare a sé coloro che gli s’erano inimicati e formare un popolo scelto. Per qual motivo poi Cristo versò il suo sangue? certo per riacquistare quelle pecore che ha affidate a Pietro e a’ suoi successori. A buon diritto e giustamente pertanto disse Cristo: "Chi é mai quel servo fedele e prudente, che il suo padrone preporrà alla sua casa?". Di nuovo le parole sono come di chi dubita; però Colui che le pronunziava non dubitava punto, ma siccome quando chiese a Pietro se lo amava, non lo fece per bisogno che avesse di scrutare i sentimenti del discepolo, ma perché voleva dimostrare la grandezza del suo proprio amore, così pur ora dicendo: Chi é mai il servo fedele e prudente? Non lo dice perché ignori in realtà chi sia il fedele e saggio servitore, ma volendo far rilevare quanto scarso ne sia il numero e quanto grande sia questo ministero. Vedi ora quanto ne sia il premio: "Lo preporrà a tutte le sue sostanze" (Mt. 24, 47).
Il ministero pastorale é la miglior prova d’amore a Cristo, Esso non é impresa da tutti, ma solo di pochi eletti
II. Dunque dubiterai ancora che io non t’abbia felicemente ingannato, mentre stai per esser posto a capo di tutti gli interessi di Dio e compiere quelle opere, compiendo le quali Pietro, a detta di Cristo, avrebbe sorpassato gli altri Apostoli? Dice infatti: "Pietro, mi ami tu più di costoro? pascola le mie pecore". Poteva per altro dirgli: "Se mi ami, pratica il digiuno, il sonno su nuda terra, le vigilie ininterrotte, assumi la difesa degli oppressi, sii come padre agli orfani e come marito alle madri loro"; invece, lasciando da parte tutte queste cose, che dice? Pascola le mie pecore. E per vero le altre opere che sopra ho dette, possono compierle agevolmente anche molti fra i sudditi, non solo uomini, ma donne ancora; trattandosi invece di soprastare alla comunità dei fedeli e d’essere incaricati della guida di tante anime, ceda il posto tutto i; sesso femminile e anche la maggior parte degli uomini, di fronte alla grandezza dell’impresa; si traggano innanzi quelli che di gran lunga superano tutti gli altri e sono tanto più eccelsi per virtù dell’anima, quanto Saul superava nella statura tutto il popolo Ebreo, anzi, assai più. Ché non si deve in tal caso cercare solamente se alcuno emerga dagli omeri in su, ma quale è la distanza che corre fra i bruti e gli esseri ragionevoli, tale è la proporzione fra il pastore e la greggia; per non dir di più, ché il rischio versa intorno a cose ben maggiori. Poiché colui che perde le pecore per rapina di lupi o per sopraggiungere di ladri, o in causa di qualche morbo o per altro qualsiasi accidente, riceverebbe pur qualche perdono dal padrone della greggia; e qualora fosse richiesto di ammenda, il danno si limita alle sostanze. Ma quegli a cui vennero affidati gli uomini, il gregge razionale di Cristo, in pena per la rovina delle pecore deve anzitutto sottostare non a danno di sostanze, ma della sua propria anima. Inoltre deve durare una lotta assai maggiore e più fiera. Non deve egli infatti combattere contro lupi, né ha a temere di predoni, né a darsi pensiero d’allontanare dal gregge qualche morbo; ma contro chi è la sua guerra? con chi la sua battaglia? ascolta ciò che dice il beato Paolo: "Non abbiamo da lottare con la carne e col sangue, ma con i prìncipi e colle potestà, con i dominanti di questo mondo tenebroso, con gli spiriti maligni dell’aria" (Ef. 6,12). Vedi la moltitudine terribile dei nemici e le feroci falangi, non corazzate di ferro, ma tali a cui è sufficiente la propria natura invece d’ogni arma? Vuoi tu vedere un altro esercito orribile e feroce che assedia questo gregge? lo scorgerai dalla stessa vedetta; colui che ha parlato di quei nemici, colui stesso ci svela questi altri, così dicendo, in altro luogo, che sono palesi le opere della carne quali siano: prostituzione, adulterio, impurità, sfrontatezza, idolatria, sortilegio, inimicizie, contese, invidie, iracondia, sedizioni, oltraggi, maldicenze, orgoglio, sommosse e altre più ancora, poiché non le nominò tutte, ma da queste lasciò intravedere le rimanenti.
Non si possono trattare gli uomini come le pecore
E quanto al pastore di bestie, quelli che mirano alla strage del gregge, qualora vedano fuggire il custode, smessa la lotta contro di lui, si accontentano della rapina degli animali; qui invece, se pur abbiano presa tutta la greggia, neanche allora risparmiano il pastore, ma vie più gli sono sopra e vie più imperversano, né cessano prima
d’averlo vinto o d’esserne stati vinti. Aggiungi a tutto questo, che le malattie degli animali sono palesi, sian essi offesi da morbo o da fame o da ferita o da checché altro; né ciò conferisce poco a togliere di mezzo la cagione del male. Un’altra circostanza poi v’è, che agevola la rapida liberazione da quelle infermità; quale? i pastori costringono con molta padronanza le pecore ad accogliere la medicazione, qualora quelle non vi sottostessero di buon grado; onde torna facile il legarle quando sia d’uopo cauterizzare o tagliare; facile parimenti il farle stare a lungo rinchiuse, quando ciò sia di giovamento; il porgere un cibo invece d’un altro, il trattenerle da certi paschi, e tutte le altre cure che giudicassero conferire alla loro guarigione, viene loro fatto di applicarle con grande facilità.
III. Invece le infermità degli uomini, non è anzitutto agevole ad uomo lo scorgerle, poiché "nessuno conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui" (1Cor. 11,11). Or come potrebbe uno applicare la medicina a un male di cui non conosce la natura, e mentre spesso non gli è dato neppur di sapere se altri sia o no ammalato? E quando pure ciò sia divenuto palese, allora appunto gli offre le massime difficoltà; poiché non è possibile curare tutti gli individui con la stessa libertà con la quale il pastore cura una pecora: v’è bene anche qui la facoltà di legare, d’interdire l’alimento, di bruciare e tagliare; ma la facoltà di accogliere il rimedio risiede non in chi porge la medicina, sebbene nell’infermo stesso. Ciò ben sapendo quel mirabile uomo disse ai Corinzi: "Non perché noi facciamo da padroni sopra la vostra fede, ma cooperiamo alla vostra consolazione"(2Cor. 1,24). Soprattutto poi ai Cristiani non è permesso di correggere a forza gli errori dei colpevoli. I magistrati civili, quando sottopongono i malfattori alla norma delle leggi, fanno mostra di grande potestà e sforzano i riluttanti a mutare i loro costumi; qui invece tali individui debbono essere corretti con la persuasione anziché con la violenza. Perocché non ci è conferita dalle leggi questa facoltà per ritrar dal male i colpevoli, e quand’anche ce l’avessero conferita non avremmo dove usare la forza, dando Dio la corona non a chi lascia il male per necessità, ma a chi lo lascia per sua libera scelta. Onde v’è bisogno di grande abilità per far sì che gl’infermi si persuadano a sottoporsi volentieri alle cure dei sacerdoti, né questo solo, ma ancora perché vedano il vantaggio che la cura loro arreca. Ché se alcuno legato ricalcitra, ed è in suo potere il farlo ne viene un male peggiore; e se non farà conto di certe parole taglienti come ferro, con lo spregio viene ad aggiungere un’altra piaga, onde il pretesto della cura diviene occasione di più grave malattia. Poiché non vi è chi lo possa costringere e curarlo contro sua voglia.
Il rimedio deve essere proporzionato al male
IV. Che dunque s’avrà da fare? Poiché se usi troppa delicatezza con chi ha bisogno di molti tagli, e non fai un’incisione profonda a chi n’ha d’uopo, avrai asportato solo una parte della ferita lasciandovi l’altra parte. Se poi senza esitazione applichi il taglio necessario, spesso l’ammalato disperando del suo male, gettata via in un fascio ogni cosa, e medicina e fasciature, finì per gettarsi a capofitto, spezzando il giogo e rompendo i legami. Potrei narrare di molti che dettero in mali estremi per essere stati sottomessi alla pena dovuta alle loro colpe. Poiché non si deve applicare il castigo soltanto in ragione della grandezza dei falli, ma si deve pur tenere conto dell’intenzione dei colpevoli, affinché non t’accada, volendo rattoppare uno squarcio, di produrne uno più grande e che, tentando di rialzare ciò che è caduto, tu produca una caduta peggiore. 1 deboli, divagati e per lo più schiavi della mollezza mondana, e che inoltre hanno di che inorgoglire per nascita e potenza, corretti dei loro mancamenti dolcemente e poco per volta, potrebbero pure, se non in tutto almeno in parte, purgarsi dei vizi da cui sono dominati; se invece uno applica loro d’un tratto l’ammonizione, li avrà privati anche di quel minore miglioramento. Ché l’anima, spinta una volta all’impudenza, diventa insensibile, né più si lascia muovere dalle parole dolci, né piegare dalle minacce, né eccitare dai benefici, ma diviene assai peggiore di quella città a cui il profeta, riprovandola, dice: "Hai assunto aspetto di meretrice, né alcuno più tifa arrossire" (Ger. 3,3). Per ciò il pastore ha bisogno di molta prudenza e di infiniti occhi onde scrutare in ogni parte le condizioni di un’anima. Perocché come molti salgono in arroganza e cadono in disperazione della propria salvezza, non potendo adattarsi a medicine amare; così vi sono di quelli che per non aver subìto un castigo proporzionato ai loro mancamenti, cadono nell’indifferenza, diventano molto peggiori di prima e sono incitati a commettere colpe più gravi. Bisogna pertanto che il sacerdote non trascuri di esaminare ognuna di queste circostanze, ma tutto diligentemente scrutando, faccia quanto è in suo potere secondo l’opportunità affinché la sua cura non gli divenga inutile.
Come ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite
Né soltanto in questo, ma anche nel riunire i membri separati dalla Chiesa uno si troverà ad aver molto da fare. Il pastore di pecore ha il gregge seguace dovunque esso venga condotto: che se qualche capo si svia dal retto cammino, e lasciato il buon pascolo, va a cibarsi in luoghi infecondi e ripidi, gli basta dar un grido più forte, per raccogliere di nuovo e riunire al gregge la parte che se n’era divisa; se invece un uomo viene trascinato lungi dalla retta fede, fa d’uopo al pastore di molto lavorio, di fortezza, di tolleranza. Non deve trascinarlo a forza né costringerlo con timore, ma per via di persuasione egli dev’essere ricondotto a quella verità dalla quale prima s’era allontanato. V’è bisogno quindi di un’anima generosa, onde non si smarrisca né disperi della salvezza degli erranti, onde consideri e ripeta continuamente quel detto: "...nella speranza che Dio conceda loro la vera conoscenza e si liberino dalla rete del diavolo" (2Tim. 2,25). Per questo il Signore parlando ai discepoli disse: "Chi è dunque il servitore fedele e prudente?" (Mt. 24,45). Poiché colui il quale attende a sé solo, converte a sé tutto il vantaggio, mentre invece l’utilità del ministero pastorale si estende a tutto il popolo. Colui poi che largisce denaro a’ bisognosi, o in altra guisa assume la tutela degli oppressi, costui per certo reca qualche utilità al prossimo, ma tanto minore del sacerdote, quanta è la distanza che corre fra il corpo e l’anima. A ragione dunque il Signore disse la cura prodigata al gregge essere segno dell’amore verso di Lui.
Intermezzo I
Perché Giovanni fuggì la dignità e vi spinse invece l’amico.
Virtù di Basilio proclamate da Giovanni
V.: "Ma tu, disse, non ami Cristo?".
"L’amo (risposi) né mai cesserò di amarlo; ma temo di muovere a sdegno il mio Diletto".
"E quale enigma, soggiunse, potrebbe darsi più oscuro di questo? Ché mentre Cristo a chi lo ama impose di pascolare le sue pecore, tu dici di non volerle pascolare, appunto perché ami Colui che ciò ha comandato".
"Non è un enigma, ripresi io, il mio discorso, ma anzi è al tutto chiaro e semplice. Ché se io avessi fuggito questa dignità pur avendo le qualità necessarie per esercitarla come vuole Cristo, allora potrebbe nascere dubbio su quanto io ho detto; ma poiché la debolezza dell’anima mi rende inetto a questo ministero, come possono le mie parole suscitare discussione? E per vero io temo che ricevendo il gregge di Cristo prosperoso e ben nutrito, e facendolo deperire con la mia inettitudine, non ecciti contro di me quel Dio che tanto l’amò, fino a dare se stesso per la sua salvezza e per il suo riscatto".
"Tu scherzi dicendo tali cose, mi disse, ché se fai sul serio non so come avresti potuto in altro modo dimostrare la giustezza delle mie ansietà, meglio che con queste parole, con le quali tentavi di rimuovere la mia trepidazione. Già prima convinto che tu m’avevi ingannato e tradito, ora che t’accingesti a scagionarti dalle accuse, io comprendo ancor meglio in quale abisso di sciagure m’hai gettato. Ché se tu ti sottraesti da questo ministero perché conoscevi l’insufficienza delle tue forze a sopportarne il peso, io per il primo dovevo esserne allontanato, anche se per caso me ne avesse preso gran desiderio; oltre di che io avevo pur rimesso a te ogni divisamento riguardo a queste cose. Ora invece, solo curandoti de’ fatti tuoi trascurasti la mia sorte; e almeno l’avessi proprio trascurata, ché mi sarebbe stato caro: ma invece sei ricorso all’insidia per rendermi facile preda di coloro che m’avevano appostato. Né puoi ricorrere al pretesto che la fama circolante fra i più ti trasse in inganno e ti fece concepire una grande e mirabile opinione di me; io non sono del numero di quelli che destano meraviglia e attirano l’attenzione; né, se anche ciò fosse, è da preporre l’opinione del volgo alla realtà delle cose. Se io non t’avessi fornito mai l’esperienza della mia compagnia, pare che un ragionevole pretesto l’avresti avuto per giudicare a norma dell’opinione comune; ma dal momento che nessun altro conosce siffattamente le cose mie, ma a te è nota l’anima mia più ancora che a quelli che mi hanno generato e allevato, quale ragione tanto persuasiva potresti addurre per convincere chi t’ascolta, che contro tua intenzione mi hai spinto a questo cimento? Ma lasciamo ora da parte ciò; non voglio per questi fatti sottoporti a rigoroso giudizio. Dimmi ormai: che cosa risponderemo ai nostri accusatori?".
"Per certo, risposi io, non verrò a quest’argomento, fino a che non avrò terminato quanto riguarda te, anche se mille e mille volte mi richiedessi di purgarmi dalle altre accuse. Tu dicesti che l’ignoranza mi otterrebbe perdono e mi assolverebbe da ogni accusa, se non conoscendo i fatti tuoi t’avessi spinto nella tua presente condizione, e che ogni giusto pretesto e ogni legittima difesa mi è interdetta, avendoti tradito, non già perché fossi al buio delle cose tue, ma essendone pienamente edotto. Io dico invece affatto il contrario: e perché? perché simili faccende richiedono lunga ricerca, e chi intende proporre un candidato degno del sacerdozio, non deve appagarsi unicamente dell’opinione del volgo, ma insieme deve egli stesso, più di tutto e prima di tutto, investigare la vita di quello. E per vero, il beato Paolo dicendo: "Fa d’uopo ancora che egli sia in buona riputazione presso gli estranei" (1Tim. 3,7), non esclude l’indagine diligente e minuziosa né propone il criterio della buona fama come indizio capitale nel giudicare dell’idoneità di tali candidati. Infatti dopo aver discorso di molte cose, alla fine aggiunge questa norma, per mostrare che non di essa sola conviene appagarsi in tali scelte, ma questa si deve adottare insieme alle altre. Non raramente avviene che la comune opinione s’inganni; ma con la scorta d’una diligente indagine, non v’è più a temere da quella alcun pericolo. Perciò dopo gli altri indizi pone anche quello della altrui opinione; non dice infatti semplicemente: "Fa d’uopo che egli sia in buona riputazione", ma aggiunge quell’anche presso gli estranei, volendo mostrare che prima d’affidarsi all’opinione di quei di fuori, bisogna diligentemente esaminarlo. Poiché dunque io conoscevo i fatti tuoi meglio dei tuoi parenti, come tu stesso ammettesti, sarebbe giusto che io fossi sciolto da ogni accusa.
Giovanni fa l’elogio della virtù di Basilio
VI. "Ma appunto per questo, disse, non puoi difenderti, se alcuno voglia accusarti; o non ricordi la pochezza della mia anima, della quale io tante volte ebbi a parlarti e che potesti apprendere dalle mie opere? e non mi schernivi tu sempre, tacciandomi di pusillanimità, perché io mi smarrisco anche nelle incombenze comuni?".
"Ricordo, risposi, d’aver ciò udito sovente volte da te, né potrei negarlo; ma se io ti schernivo, lo facevo per gioco, non sul serio".
Ma tuttavia non starò ora a discutere di questo; ti prego invece di accordarmi eguale benevolenza quando io venga rammentando alcuna delle doti che tu possiedi. Ché se anche tenterai d’accusarmi di menzogna, non cederò, ma dimostrerò che tu lo dici per modestia e non per la verità; né mi varrò d’altro testimonio, se non delle tue stesse parole e delle opere tue per confermare la verità delle mie asserzioni. E anzitutto questo ti voglio dire: Sai tu qual sia la potenza dell’amore? Cristo, lasciando da parte tutti gli altri portenti che dovevano esser compiuti dagli Apostoli: "Da questo, dice, conosceranno gli uomini che siete miei discepoli, se vi amerete reciprocamente" (Gv. 23,35). Paolo poi dice che esso è la pienezza della legge e che a nulla giovano i carismi dov’esso faccia difetto. Or questo bene ch’è il più eccellente, la tessera dei discepoli di Cristo, quello che sta sopra i carismi, io scorsi profondamente radicato nell’anima tua e fecondo di molti frutti.
"Che io ponga in ciò molto studio, disse, e molta sollecitudine dedichi a questo precetto, lo confesso io pure; che poi non lo abbia soddisfatto neppure per metà, potrai tu stesso farmene fede, qualora lasciando da parte le parole cortesi, voglia tenere conto solo della verità".
"Orbene, risposi, verrò alle prove; e come minacciai ora farò, dimostrando che tu parli per modestia anziché per dire il vero. Narrerò un fatto testé accaduto, onde non nasca sospetto che, narrando cose vecchie, cerchi di adombrare la verità, facendo si che l’oblio non permetta di protestare contro le cose da me narrate per cortesia. Dunque, quando uno dei nostri amici, calunniato con accusa di oltraggio e insubordinazione, stava per incorrere nelle pene estreme, allora tu senza che alcuno ti chiamasse, neanche quegli a cui la condanna soprastava, ti gettasti da te nel mezzo del pericolo. Questo sarebbe il fatto. Per convincerti poi anche dalle tue parole, quando gli uni non approvavano questo tuo zelo, gli altri invece assai lo lodavano e ammiravano: "E che? (dicesti ai tuoi biasimatori) io non mi so altro modo d’amare, se non col dare anche la mia vita, quando si tratti di salvare un amico che versa in pericolo"; dicendo in altri termini, ma con eguale sentimento, le parole che Cristo rivolse ai discepoli quando determinò la misura del perfetto amore: "Non si può dare, dice, amore più grande di questo, che uno dia la propria vita per i suoi diletti" (Gv. 15,13). Se adunque non è dato trovare amore più grande, tu hai raggiunto la perfezione di esso e ne hai asceso il culmine, sia con le opere, sia con le parole. Per questo ti ho tradito; per questo t’ho ordito quell’inganno; ti persuado ora che t’ho spinto in questa carriera non per mala intenzione, né col proposito di esporti a un pericolo, ma perché sapevo che ciò era cosa utile?
"Ma tu credi, disse, che la forza dell’amore sia sufficiente per la correzione del prossimo?".
"Senza dubbio, risposi, essa può contribuire a ciò in massima parte. Ma se vuoi ch’io rechi esempi anche della tua assennatezza, verrò anche a questo, e dimostrerò che sei ancor più prudente che caritatevole".
A queste parole arrossendo e facendosi colore della porpora: "Orsù, dice, si lascino ormai da parte le cose mie; non t’ho chiesto simili parlate io in principio. Piuttosto, se hai qualche opportuna ragione da poter addurre a quei di fuori, questo discorso ascolterò volentieri. Poni dunque fine a simile vaniloquio e dimmi che cosa addurremo agli altri in nostra difesa, sia a chi ci prescelse all’onore sia a chi si rammarica tenendosi offeso per quelle faccende".
a) Seconda parte della difesa di Giovanni. Risposta alle accuse di oltraggio agli elettori, disprezzo del sacerdozio, vanagloria
VII. Ora io proseguendo soggiunsi: A ciò appunto mi affretto. Poi che ho dato fine a quanto riguarda te, di buon grado mi rivolgerò ora a quest’altra parte della mia difesa. Qual è dunque l’accusa di costoro, e quali le loro querele? Essi si chiamano oltraggiati da noi, e dicono d’aver sofferto uno smacco, perché noi non accettammo l’onore che vollero conferirci. Ebbene, io dico anzitutto che non si deve far alcun caso dell’oltraggio che si possa recare agli uomini, quando per far onore a questi siamo costretti a far offesa a Dio. Onde neppure per quelli che se ne adontano è senza pericolo il menare tanto scalpore su ciò, ma anzi, torna loro molto dannoso; io mi penso infatti che le persone consacrate a Dio e che solo a Lui riguardano, debbano comportarsi tanto cautamente da non ritenere ciò come un oltraggio, quando anche mille e mille volte ne uscissero privi d’onore. Ma che io non abbia fatto nulla di simile neppur col pensiero, si fa palese da questo: se io, come hai tante volte ripetuto che taluni vanno calunniando, venni al punto di votare per i miei accusatori, per arroganza e vanagloria, sarei pur da annoverare fra i peggiori malfattori, avendo dispregiato personaggi ammirandi e augusti e per di più benefattori. Ché se il far ingiuria a chi non te n’ha arrecato nessuna è degno di condanna; a quelli che spontaneamente si proponevano di onorarti (ché nessuno potrebbe dire che essi, avendo prima ricevuto qualche favore o piccolo o grande da me, volessero pagarmi la ricompensa di quelle mie grazie), come non sarebbe degno d’ogni castigo il corrispondere col rendere loro l’opposto? Ma se questo non mi passò neppure per la mente e con ben altra intenzione mi sottrassi al grave peso, quand’anche non volessero approvarmi, perché in luogo di darmi perdono, m’accusano per aver io provveduto alla salvezza dell’anima mia? Di fatto io ero tanto lontano dal voler fare ingiuria a quei personaggi, che anzi, direi, col mio rifiutare, di averli onorati; né ti meravigliare se ciò ha del paradosso, ché presto te ne darò la soluzione. S’io avessi accettato, non tutti, ma quelli che trovano gusto nelle maldicenze, avrebbero messo in campo molti sospetti e calunnie, sia a carico di me consacrato, sia a carico di quelli che mi scelsero; come: che essi guardano solo alla ricchezza e s’inchinano solo allo splendore de’ natali; che mi condussero a quest’onore perché furono da me lisciati. Non saprei dire se alcuno non li avesse pure sospettati corrotti con denaro. Ed ancora: Cristo chiamò a questa potestà i pescatori, i manovali e i gabellieri; costoro invece schifano quelli che vivono del lavoro quotidiano, ma se alcuno è infarinato di dottrine profane e vive tra gli agi, questo solo approvano, a questo fanno la corte. Per qual motivo trascurano coloro che hanno durato innumerevoli sudori a vantaggio della Chiesa, mentre uno che non ha mai pur anco libato il peso di simili fatiche e ha perduto sempre il suo tempo nei vaniloqui dei profani, d’un tratto te l’innalzano senz’altro a tanta dignità? Queste ed altre più cose sarebbero andati blaterando, se io avessi accolto la potestà; ora invece non possono. Ogni pretesto di maldicenza è loro troncato, e non hanno motivo d’incolparmi, né d’adulazione né di servilità verso di quelli, tranne se taluni volessero proprio far pazzie. Come mai infatti, uno che per raggiungere quest’onore avesse adulato e sborsato quattrini, l’avrebbe lasciato ad altri proprio mentre era sul punto d’ottenerlo? Sarebbe come se uno, dopo aver durato grandi fatiche nel coltivare un campo, affinché la messe gli si aumentasse di copioso frutto e i tini traboccassero di vino, dopo gli infiniti travagli e le molte spese, giunto il tempo di mietere e vendemmiare, si astenesse dal cogliere i frutti, in favore di altri. Tu vedi adunque che in tal caso, benché le loro dicerie fossero lungi dalla verità, tuttavia quelli che avessero voluto calunniarli avrebbero ben trovato pretesti, per insinuare che avevano fatta la scelta senza averne rettamente vagliate le ragioni. Io invece non ho dato loro il modo di spalancare la bocca, e neppure di aprirla.
Questo e più altro avrebbero detto sul principio; ma poi, dato mano al ministero, non sarei bastato a difendermi ogni giorno dagli accusatori, anche se ogni cosa mi fosse riuscita senza difetti. Se non che per la mia età e inesperienza avrei necessariamente commesso molti mancamenti; e mentre ora ho potuto impedire loro di rivolgermi quest’accusa, allora avrei offerto loro innumerevoli motivi di rimprovero. Che non avrebbero essi detto? (Hanno affidato un ministero si grande e ammirando a fanciulli insensati; hanno dato alla rovina il gregge di Dio; le istituzioni dei Cristiani sono divenute giocattoli e oggetti di riso). Ora invece "ogni ingiustizia chiuderà la sua bocca" (Sl. 107,42). Che se poi dicessero tali cose di te, ben presto tu insegnerai loro con le opere, che non si deve giudicare la prudenza dall’età e non si deve approvare il vecchio per la canizie, né escludere senz’altro il giovine da questo ministero; ma s’ha da interdirlo solo al neofita: e fra i due v’è gran differenza.
 Libro terzo
Giovanni dimostra di non essere stato indotto da arroganza a fuggire la vanità
I. Questo dunque che ho detto è quanto io avrei da rispondere riguardo all’ingiuria verso quelli che mi avevano onorato, per dimostrare che non ho rifiutato questo onore con l’intenzione di svergognarli. Ora poi mi sforzerò, per quanto m’è dato, di spiegarti come ciò non abbia fatto neppure perché fossi gonfio di arroganza alcuna.
Se invero mi si fosse voluto eleggere alla dignità di stratego o di re, e io avessi preso tale decisione, a ragione potrebbe taluno pensare ciò; o meglio, in tal caso, nessuno m’avrebbe accusato d’arroganza, ma tutti di stoltezza. Trattandosi invece del sacerdozio, che tanto supera la dignità regale, quanto la carne dista dallo spirito, oserà alcuno incolparmi di disprezzo? Non sarebbe strano tacciare di pazzia quelli che rifiutano piccoli onori, e quelli invece che fanno ciò per dignità assai maggiori, assolverli dall’accusa di pazzia e nondimeno incolparli di superbia? Come se un tale, incolpando non già di orgoglio ma bensì di demenza chi disprezzasse l’armento dei buoi, nè volesse far il bifolco, accusasse poi non di pazzia ma di gonfiezza, chi ricusasse l’impero di tutto il mondo e il comando di tutti gli eserciti. Ma no, le cose non stanno così; coloro che ciò vanno dicendo, non calunniano tanto me, quanto piuttosto se stessi. Ché il solo pensare che l’umana natura possa concepire disprezzo per quella dignità, è una prova del concetto che ne hanno quelli stessi che ciò esprimono: se non lo stimassero cosa ordinaria e di poco conto, non sarebbe loro occorso di concepire tale sospetto. Per qual motivo infatti nessuno osò mai immaginare né dire alcunché di simile riguardo alla dignità degli angeli, che cioè vi sia un’anima umana la quale non avrebbe acconsentito per arroganza di salire al grado di quella natura? Noi invero ci figuriamo grandi cose di quelle Potenze, e ciò non ci permette di credere che un uomo possa concepire un onore più grande di quello. Pertanto si dovrebbero piuttosto tacciare d’orgoglio quelli che tale accusa fanno a me; che mai non avrebbero concepito tale sospetto sul conto di altri, se loro stessi non nutrivano disprezzo di tale dignità, come di cosa da nulla.
Che se poi dicono ch’io feci questo avendo di mira la gloria, saranno palesemente convinti di contraddizione e che si tirano da se stessi la zappa sui piedi. Non so proprio qual altra ragione avrebbero potuto cercare, qualora avessero voluto assolvermi dall’accusa di vanagloria. Se mai tal brama mi prese, dovevo io pur accettare piuttosto che ricusare. Perché? perché ciò m’avrebbe acquistato grande rinomanza: alla mia età e da poco toltomi alla vita mondana, essere d’un tratto stimato fra tutti tanto eccellente, da venire anteposto a coloro che tutto il tempo consumarono fra tante e tali fatiche, e raccogliere maggior numero di suffragi che tutti loro, ciò avrebbe fatto nascere in tutti grandi e meravigliose opinioni a mio riguardo e m’avrebbe reso un personaggio augusto e celebrato. Ora invece, tranne pochi, la gran parte della comunità ecclesiastica non mi conosce neppure di nome; e credo che neppur tutti sapranno del mio rifiuto, ma solo pochi, e che, anche questi pochi, non siano al chiaro d’ogni cosa; ed è probabile che molti di questi o crederebbero senz’altro ch’io non fossi stato eletto, o che dopo l’elezione non fossi già fuggito spontaneamente, ma venissi rimosso, per non essere parso idoneo all’uopo.
"Ma ben si meraviglierà chi conosce il vero".
"Per l’appunto, dicevi che questi mi calunniano come vanaglorioso e arrogante. Or da qual parte s’ha da sperare lode? dai molti? ma non conoscono il fatto come sta; o forse dai pochi? ma allora la cosa si presenta per noi tutto al contrario; poiché non sei qui venuto per altro scopo che per sapere da me come ci si debba difendere presso di questi. Ed a che tanto sottilizzare ora per ciò? Attendi un poco, e vedrai chiaramente che se anche tutti sapessero la verità, non c’era motivo per tacciarmi di arroganza e vanagloria; e oltre a ciò ancora vedrai come non solo chi mostrasse tanta audacia, seppure alcuno ve n’ha, poiché io non lo credo, ma anche coloro che la suppongono negli altri, rasentano non lieve pericolo".

b) Grandezza del sacerdozio e del rito eucaristico. Gli angeli stanno in adorazione intorno al sacerdote celebrante. L’epiclési o invocazione dello Spirito Santo. Confronto coi riti sacrificali dell’antica Legge
Il. Però che il sacerdozio si compie sulla terra, ma è nell’ordine delle cose celesti; e con ogni ragione; poiché non un uomo, non un angelo, non un arcangelo, né altra forza creata, ma lo stesso Paracleto ordinò quest’ufficio, ispirando quelli che tuttora si stanno nella carne a ideare una funzione propria degli angeli; deve pertanto il sacerdote essere così puro, come se abitasse negli stessi cieli fra quelle Potenze. Terrificanti cose per certo e paurose erano quelle che precedettero la Grazia, come i campanelli, i melograni, le pietre del petto e dell’omero, la mitra, la cidari, la tunica talare, la lamina d’oro, il Santo dei Santi, la profonda quiete degl’interni recessi; ma se alcuno considera le istituzioni della Grazia troverà piccole quelle tremende e terribili cose, e che anche qui è vero ciò che è scritto intorno alla legge: "Non fu glorificato quello che fu glorificato, in comparazione e rispetto a questa gloria trascendente" (2Cor. 3,10). Poiché quando tu vedi il Signore sacrificato e giacente, e il vescovo preposto al sacrificio e pregante, e tutti imporporati di quel sangue augusto, credi tu d’essere ancor fra i mortali e di starti sopra la terra, o non piuttosto sei d’un tratto trasportato nei cieli, e sgombro dallo spirito ogni pensiero della carne, contempli con l’anima ignuda e con la mente pura le cose celestiali? o meraviglia! o filantropia di Dio: colui che siede in alto insieme col Padre, in quell’istante viene tenuto dalle mani di tutti, e dona se stesso a chi vuole abbracciarlo e stringerlo a sé, e tutti fanno poi ciò allora con gli occhi della fede. Or dunque ti paiono cose queste da poter essere disprezzate, o tali che uno possa esaltarsi al di sopra di esse? Vuoi ora scorgere da altra meraviglia la superiorità di questo sacrificio? Rappresentati innanzi agli occhi Elia, e intorno a lui moltitudine immensa, e il sacrificio disposto su le pietre, e tutti gli altri in gran quiete e silenzio profondo, e il profeta solo supplicante; indi d’un tratto la fiamma lanciata dai cieli sopra la vittima: è uno spettacolo meraviglioso che riempie di stupore. Rivolgiti or quindi a quello che adesso si compie e vedrai non solo cose meravigliose, ma tali da superare ogni meraviglia. Sta il sacerdote, per attirare giù non il fuoco, ma lo Spirito Santo; e a lungo si fa la supplica, non affinché una fiamma accesa dall’alto consumi le offerte, ma affinché la grazia discesa sopra il sacrificio, per mezzo di questo accenda le anime di tutti e le renda più fulgide che argento incandescente. Chi oserà nutrire sprezzo, se non sia al tutto pazzo o fuor di sé, di questa così tremenda azione? o non sai che l’anima umana non varrebbe a sopportare quel fuoco del sacrificio, e tutti d’un tratto ne sarebbero annientati, se non fosse grande il soccorso della grazia di Dio?
Il sacerdote assolve dai peccati con la potestà da Cristo a lui trasmessa
III. Se alcuno ben consideri che gran cosa è poter avvicinarsi a quella beata e intatta natura, pur essendo uomo e ancora plasmato di carne e sangue, vedrà allora bene di quanto onore la grazia dello Spirito abbia degnato i sacerdoti. Per loro mezzo infatti queste cose si compiono, ed altre ancora per nulla inferiori a queste, sia per dignità, sia in rapporto con la nostra salvezza; quelli che dimorano in terra e sono posti in questa condizione, vengono ordinati ad amministrare le cose celesti e hanno ricevuto una potestà che Dio non ha conferito né agli angeli né agli arcangeli; poiché non fu detto a questi: "Ogni cosa che legherete sulla terra sarà legata anche nel cielo; e ogni cosa che scioglierete, sarà sciolta" (Mt. 18,18). Anche i dominatori sulla terra hanno il potere di legare, ma soltanto i corpi; invece questo legame si applica all’anima stessa e trascende i cieli; onde, checché i sacerdoti compiano quaggiù, questo conferma Dio in alto, e la deliberazione dei servi viene sancita dal padrone. E che vuol dire ciò, se non che ha loro conferito ogni potestà celeste? Dice infatti: "I peccati di coloro ai quali li rimetterete, saranno rimessi; quelli di coloro a cui li riterrete, saranno ritenuti" (Gv. 2,23). Qual potere maggiore di questo? Il Padre ha dato al Figlio ogni giudizio; or io vedo che essi ne furono fatti dal Figlio pienamente depositari. Come se già fossero assunti nei cieli, trascesa l’umana natura e sciolti dalle nostre miserie, così furono elevati a questa dignità. Inoltre, se un re partecipasse a qualcuno dei suoi sudditi quest’onore di poter gettare in prigione chiunque gli piacesse e nuovamente liberarlo, sarebbe costui invidiato e celebrato da tutti; colui poi che da Dio ha ricevuto una potestà tanto più grande quanto il cielo è più augusto della terra, e le anime dei corpi, parrà mai ad alcuno aver egli ricevuto sì piccolo onore, da poter anche solo pensare che altri abbia a mostrare disprezzo verso i depositari di sì eccelse cose? Lungi tale insania! È per vero insania palese, il guardar dall’alto in basso una dignità senza la quale non è dato di ottenere né la salvezza né i beni che ci furono annunziati. Ché se "nessuno può entrare nel regno de’ cieli, se non venga rigenerato per acqua e Spirito, e colui che non mangia la carne del Signore e non beve il suo sangue, viene escluso dalla vita eterna" (Gv. 3,5), e tutte queste cose si compiono da nessun altro fuorché da quelle sacre mani, dico del sacerdote, come potrà alcuno indipendentemente da loro, sia fuggire il fuoco della geenna, sia ottenere le corone riservate? A loro infatti, a loro fu affidata la generazione spirituale, e il partorire per mezzo del battesimo; per mezzo loro rivestiamo il Cristo, siamo consepolti col Figlio di Dio, e fatti membri di quel beato capo. Pertanto dovrebbero essere per noi giustamente più temibili che dominatori e re, non solo, ma anche più venerandi che padri; questi invero ci hanno generati "dal sangue e dalla volontà della carne" (Gv. 1,13), quelli invece ci sono strumento della generazione di Dio, di quella beata rigenerazione, della verace libertà e dell’adozione secondo la grazia.
Confronto col sacerdozio levitico
IV. I sacerdoti degli Ebrei avevano il potere di liberare dalla lebbra del corpo, anzi, niente affatto liberare, ma soltanto di approvare coloro che ne erano liberati, e ben sai come il potere sacerdotale era oggetto di invidia allora; ma questi hanno ricevuto il potere non di liberare dalla lebbra del corpo, sebbene di togliere affatto, non solo approvare quando sia tolta, l’impurità dell’anima. Onde, quelli che li disprezzassero sarebbero più empi dei seguaci di Datan, e degni di maggior pena. Poiché questi sebbene si arrogassero una dignità non dovuta, avevano tuttavia un gran concetto di essa, e lo dimostrarono aspirandovi con grande ardore: quelli invece quando la dignità venne ordinata a maggior ministero e fu di tanto elevata, allora dimostrano in senso contrario, molto maggior audacia degli altri. Poiché non è eguale, quanto al grado del disprezzo, l’arrogarsi un potere indebito e lo schifarlo: ma questo è tanto maggiore di quello, quanto il rigettare con sdegno differisce dall’ammirare. Quale anima pertanto sarebbe così miserabile da sprezzare simili beni? non direi che ciò potesse darsi, tranne che alcuno fosse invaso da qualche estro diabolico.
Confronto fra i sacerdoti e i parenti carnali.
Ma torno là donde sono partito. Dio ha dato ai sacerdoti potenza maggiore che ai parenti carnali, non solo quanto al punire, ma anche quanto al beneficare: e tanta è la differenza fra gli uni e gli altri, quanta ven’ha fra la vita presente e quella futura. Poiché gli uni generano a questa vita, gli altri a quell’altra: quelli non varrebbero neppure a stornare dai loro figli la morte corporale, né allontanare un’infermità sopravvenuta; questi hanno spesso salvato l’anima inferma e prossima alla rovina, agli uni rendendo più lieve la punizione, agli altri impedendo fin da principio dal cadervi, non solo coll’insegnare e coll’ammonire, ma anche soccorrendo con le preghiere. Né solo quando ci rigenerano, ma possono rimetterci anche i peccati commessi in seguito. Dice infatti: "Chi è malato chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino per lui, ungendolo di olio nel nome del Signore; e la preghiera della fede salverà l’infermo, e il Signore lo solleverà e se ha commesso peccati gli saranno rimessi" (Gc. 5,14-15). Inoltre i genitori naturali, qualora i figli abbiano recato offesa a qualche potente, non possono giovargli in alcun modo; mentre i sacerdoti riconciliarono non i potenti né i re, ma lo stesso Dio più volte con loro adirato. Dopo ciò oserà ancora taluno accusarmi di arroganza? Da quanto ho detto io penso d’aver infuso nell’animo degli uditori tale cautela, che abbiano ormai a tacciare d’arroganza e audacia non quelli che fuggono, ma quelli che da se stessi si fanno avanti e s’arrabattano per acquistarsi questa dignità.
Infatti, se coloro a’ quali sono affidate le magistrature civili, qualora per caso non siano prudenti e assai accorti, mandano le città a catafascio e se stessi alla rovina; colui che é destinato a fregiare la sposa di Cristo, di qual forza non ti par debba essere fornito, sia di quella sua propria, sia di quella che viene dall’alto, per non cadere in colpa?
c) Virtù richieste dal sacerdozio. Il candidato al sacerdozio deve temere la dignità
V. Nessuno amò Cristo più di Paolo, nessuno mostrò maggior zelo, nessuno fu donato di maggior grazia; ma pur con tutto questo, teme ancora e trema per questa potestà e per coloro sui quali la esercita. "Io temo, dice, che come il serpente con la sua malizia ingannò Eva, così i vostri pensieri degenerino dalla semplicità che é in Cristo" (2Cor.11,3). Ed ancora: "Fui in gran timore e trepidazione per voi" (1Cor. 2,3): un uomo che fu rapito al terzo cielo e messo a parte degli arcani di Dio, e che sopportò tante e tali fatiche quanti furono i giorni di sua vita dopo la conversione; un uomo che non volle neppur fare uso del potere conferitogli da Cristo, affinché non fosse scandalizzato qualcuno dei fedeli. Se adunque colui che superò i comandamenti di Dio, né minimamente cercò il suo interesse, ma quello dei sudditi, era sempre in tanto timore riguardando la grandezza della dignità, quale sicurezza avremo noi, che sovente cerchiamo la comodità nostra, che non solo non superiamo i precetti di Cristo, ma in gran parte li trasgrediamo? "Chi cade infermo, dice, e io non cado infermo? chi si scandalizza e io non ne ardo?" (2Cor. 11,29). Tale dev’essere il sacerdote; o piuttosto, non solo tale; queste cose sono piccole e da nulla rispetto a quanto sono per dire; che è ciò? "Ho supplicato, dice, d’essere riprovato da Cristo, per i miei fratelli, miei congiunti secondo la carne" (Rom. 9,3). Se alcuno pub lanciare questo grido; se alcuno ha l’anima che arriva fino a questa preghiera, quegli si dovrebbe rampognare se fuggisse; ma chi è lungi da quella virtù quanto lo sono io, sarebbe degno di detestazione non quando fuggisse, ma quando accettasse. Che se si trattasse d’eleggere ad una dignità militare, e quelli cui spetta conferirla, tirato in mezzo un fabbro od un ciabattino o altro simile artefice, gli affidassero l’esercito, io non loderei per certo quel miserabile, qualora non ricusasse e non facesse di tutto per evitare di gettarsi in un male palese. Ché se bastasse l’esser chiamato pastore e disimpegnare l’ufficio in qualunque modo, né pericolo alcuno vi fosse, mi accusi pur chi vuole di vanagloria; ma se colui che si sobbarca a questa cura abbisogna di grande prudenza, e prima della prudenza, di copiosa grazia di Dio, rettitudine di costumi, purezza di vita e una virtù più grande dell’umana, non mi negherai venia, se non ho voluto vanamente e senza motivo darmi a rovina. Se uno, tratta innanzi una nave da trasporto piena di remiganti e di preziosi carichi, fattomi sedere al timone mi ordinasse di traghettare il mar Egeo o il Tirreno, mi ritrarrei alla prima voce: e se alcuno chiedesse: "Perché?" risponderei: "Per non mandare a fondo la nave".
Or poi, se là dove il danno è nelle sostanze ed il pericolo riguarda la morte corporale, niuno farà rimprovero a chi adoperi grande previdenza; dove invece i naufraghi sono in procinto di cadere non in questo pelago, ma nell’abisso del fuoco, e li aspetta non la morte che divide l’anima dal corpo, ma quella che l’anima insieme col corpo dà in preda alla punizione eterna, mi detesterete e vi adirerete perché io non mi gettai a precipizio in un tanto male? no, ve ne prego e vi scongiuro. Conosco l’anima mia, inferma com’è e piccina; conosco la grandezza di quel ministero e la gran difficoltà dell’ufficio; poiché le onde che sbattono l’anima del sacerdote sono più impetuose dei venti che sconvolgono il mare.
Fuggire la bramosia di onore e la servilità verso i potenti e l’eccessivo ossequio verso le donne.
VI. E anzitutto v’è il terribile scoglio della vanagloria, più funesto di quello di cui narrano portenti i mitologi; questo infatti molti riuscirono a sfuggirlo incolumi tragittando; per me invece quello è tanto minaccioso, che non posso guardarmi dal suo malo influsso, nemmeno ora che nessuna necessità mi spinge verso quel baratro; se poi alcuno mi affidasse questa dignità, sarebbe come legarmi le mani all’indietro e espormi alle fiere che dimorano su quello scoglio, per esserne quotidianamente dilaniato. Quali sono queste fiere? violenza, ignavia, invidia, contese, calunnie, accuse, menzogne, ipocrisia, insidie, istanze a danno d’innocenti, compiacenza per le sconvenienze dei propri colleghi, rammarico per i loro successi, brame di lode, avidità d’onore (ciò che più di tutto tira alla. rovina l’anima dell’uomo); discorsi tenuti per pavoneggiarsi, adulazioni servili, corteggiamenti indegni, disprezzo dei poveri, ossequiosità poi ricchi, onori affatto irragionevoli e favori biasimevoli, che recano pericolo a chi li dà e a chi li riceve; timore servile, degno soltanto dei peggiori schiavi, scatti d’audacia, gran modestia all’esterno e nessuna in realtà, accuse di assenti e punizioni inflitte specialmente ai deboli e fuor di misura, mentre con quelli che sono circondati di potenza non s’osa nemmeno aprire bocca. Tutte queste fiere e altre più ancora, nutre quello scoglio, nelle quali chi incappa una volta, è per forza ridotto a tale schiavitù, da compiere in grazia delle donne, azioni che non è bello neanche nominare. La legge divina le ha escluse da questo ministero, ma esse si sforzano di invaderlo; e poiché nulla possono da se stesse, fanno ogni cosa per mezzo di altri; e si arrogano tanta potenza, da approvare o eliminare i sacerdoti come a loro piace. E rovesciato l’ordine, questo che è proverbiale si può qui vedere avverato: i sudditi guidano i magistrati; e fossero uomini almeno, ma sono proprio quelle a cui non è nemmeno dato l’incarico d’insegnare: che dico insegnare? il beato Paolo non permise loro neppur di parlare nella comunità ecclesiastica. E io ho udito uno raccontare, che tale baldanza hanno acquistata, da muovere rimproveri ai capi delle Chiese e imperversare contro di quelli, più fieramente che non facciano i padroni coi propri servi. Ma non creda alcuno che io voglia sottoporre tutti a queste accuse; vi sono invero, vi sono molti che sfuggono a queste reti e sono in maggior numero di quelli che vi si perdono.
Disordini provenienti da elezioni ispirate a favoritismo e dominate da spirito partigiano.
Chi si sente impari all’ufficio, anche a elezione fatta dovrebbe ritirarsi.

VII. Ma io non vorrei attribuire al sacerdozio la cagione di questi mali, a meno che fossi pazzo; ché non s’incolpa il ferro degli omicidi, né il vino dell’ubriachezza, né la forza dell’oltraggio, né il coraggio s’incolpa della stolta audacia; ma ognuno che ha senno dice esserne cagione quelli che dei doni impartiti da Dio non fanno il debito uso, e quelli castiga. E ben a ragione il sacerdozio potrebbe accusare noi, quando non l’esercitiamo rettamente; ché non esso è a noi cagione dei mali sopraddetti, ma siamo noi che, per quanto da noi dipende, l’inquiniamo di tante e tali immondezze, affidandolo a uomini volgari. Questi poi, non avendo prima conosciute le loro anime né considerato il peso dell’istituzione, accettano bensì bramosamente la dignità conferita, ma quando vengono all’azione, ottenebrati dall’inettitudine loro, riempiono di infiniti mali i popoli che a loro furono affidati. Questo, sì, questo per poco non accadeva anche a me, se Dio non m’avesse presto sottratto a quei pericoli, risparmiando la Chiesa e l’anima mia.
O dimmi, donde credi tu che nascano nelle chiese tanti scompigli? da nessun’altra parte, io credo, che dall’eseguirsi senza cura e a casaccio la scelta e l’elezione dei dirigenti; la testa che dovrebbe essere la parte più salda, per frenare e mantenere in equilibrio gli spiriti perversi esalati da basso dal resto del corpo, se ella stessa è inferma e inetta a reprimere quelle morbose esalazioni, s’infermerà ancor più di quello che non sia, e rovinerà insieme con se stessa il rimanente del corpo. A evitare ciò nel presente caso, Iddio mi trattenne al livello dei piedi, dove la sorte prima m’aveva collocato.
Ma ben molte altre, o Basilio, oltre quanto fin qui fu detto, sono le virtù che il sacerdote deve possedere, e che io non possiedo; e prima di tutto questa, di purificare affatto l’anima propria dalla brama di questa dignità. Che se egli per avventura sentirà vivo desiderio per questa carica, raggiunta che l’abbia accende una fiamma più veemente, e volendosi deporlo a forza, commette innumerevoli perversità pur di serbarsela, sia che occorra adulare o tollerare cosa vile e indegna, o sacrificare grandi somme: tralascio ora che alcuni hanno riempito le chiese di uccisioni e messo sossopra le città disputandosi questa dignità; parrebbe infatti ad alcuno che io narri cose incredibili. Ma bisogna, a mio avviso, nutrire un tal timore di questo incarico, da volersene sottrarre fin da principio, né, raggiunto che uno l’abbia, attendere i giudizi altrui, se mai gli accada di commettere un fallo degno della deposizione, ma prevenendoli, uscire di carica egli stesso; così è anche probabile che attiri sopra di sé la misericordia di Dio. Ma il persistere in carica oltre il convenevole, equivale a privarsi d’ogni perdono e vie più accendere l’ira di Dio, aggiungendo al primo un secondo e più grave fallo. Ma nessuno mai sopporterà tal cosa, perché l’agognare quest’onore è vizio funesto. Né dico ciò per contraddire al beato Paolo, ma anzi in piena armonia con le parole sue; che dice egli infatti? "Se alcuno brama l’episcopato, brama una cosa buona" (1Tim.3,1); e io ho detto che è vizio funesto non già il bramare la cosa, ma la dignità e il potere.
VIII. Credo pertanto doversi tal brama cacciare con ogni cura dall’anima, né soffrire che questa cominci ad esserne dominata, anche affine di poter compiere ogni cosa con libertà. Colui che non brama d’esser designato a quella potestà, non teme neppur d’esserne deposto; non temendolo potrà agire in tutto a norma della libertà che s’addice ai Cristiani; mentre coloro che temono e tremano d’esserne deposti, sopportano una schiavitù amara e piena di miserie, e sovente sono nella necessità di offendere gli uomini e Dio. Tale non ha da essere la disposizione dell’anima, ma come vediamo nelle battaglie i soldati valorosi combattere con ardore e cadere con fortezza, così anche quelli che giungono a questo ufficio, debbono saperlo esercitare e all’uopo deporre, come si addice a uomini cristiani, certi che una tale deposizione non diminuisce la corona del ministero. Che se poi taluno soffrisse una tale vicenda senz’aver nulla commesso di sconveniente e indegno del posto che occupa, procurerebbe la punizione per quelli che ingiustamente lo deposero e a se stesso maggior ricompensa: "Beati siete voi quando gli uomini vi malediranno e vi perseguiteranno e diranno di voi falsamente ogni male per causa mia; rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt. 5,11-12). Ciò qualora alcuna sia tolto di seggio dai propri colleghi, o per invidia, o per far piacere ad altri, o per inimicizia o per altra ingiusta ragione. Quando poi gli occorra di sopportare ciò anche per opera degli avversari, credo inutile aggiungere parole, per dimostrare quanto guadagno quelli gli procurino con la loro perversità. Conviene adunque ricercare da ogni parte e diligentemente investigare, che non si celi ardendo qualche scintilla di quel desiderio. Invero c’è da esser contenti se anche coloro che si mantengono da principio liberi da tal brama, riescano a sfuggirvi qualora siano cascati nella dignità; che se poi alcuno nutre in se stesso questa fiera terribile e selvaggia prima ancora di toccare in sorte l’onore, non si può dire in qual fornace immerga se stesso dopo averlo raggiunto. Io per certo (né credi che voglia mentire con te per modestia) ero molto preso da questa bramosia, il che insieme con tutto il resto mi infuse non minore, sgomento, e mi decise a questa fuga. Come gli amanti dei corpi sentono più fiero il tormento della passione fin che è loro concesso di starsi vicino agli amati; e quando si siano spinti il più lontano possibile dall’oggetto di loro brame, pongono fine anche alle loro smanie; così anche i bramosi di questa potestà, quando si ‘trovano vicini a essa il loro male diviene insopportabile; ma qualora ne abbiano perduta la speranza, spengono in se stessi in un con l’aspettativa, anche il desiderio. Ciò non era piccolo pretesto: e se anche non ve ne fosse stato altro, bastava per escludermi da questa dignità.
Prudenza e fortezza sono virtù più necessarie al sacerdote che le austerità e i digiuni.
IX. Ora s’aggiunge un’altra virtù non minore di questa. Qual è? Deve il sacerdote essere sobrio e perspicace, e munirsi da ogni parte d’infiniti occhi, dovendo vivere non solo a:e stesso, ma a vantaggio d’una tanta moltitudine. Ora, che io sia pigro e debole e appena sufficiente alla mia salvezza, tu stesso l’ammetteresti, sebbene per l’amicizia sia più di tutti sollecito nel nascondere i miei difetti. Non parlarmi ora di digiuni né di vigilie né di sonni su nuda terra né d’altre austerità corporali; sai del resto quanto io sia lontano anche da queste; ma se pure mi vi fossi dedicato con ardore, non avrebbero potuto per nulla giovarmi in questo ministero. Potrebbero bensì quelle austerità recare grande giovamento a un uomo che se ne stia rinchiuso nella sua cella unicamente occupandosi di se stesso; ma a chi è diviso fra tanta moltitudine e sollecitato da cure diverse per ciascuno dei suoi sudditi, come potrebbero recare un considerevole incremento al progresso di quelli, se egli non possederà un’anima pieghevole ad un tempo e fortissima?
Non meravigliarti se insieme a quelle austerità io richiedo un’altra prova della virtù dell’anima. Noi vediamo essere per nulla difficile lo sprezzare i cibi, le bevande e i soffici letti, specialmente a coloro che menano vita rustica e furono allevati così fin dalla più tenera età, come anche a molti altri, quando la disposizione fisica e la consuetudine rende meno sensibile l’asprezza di quei travagli; ma il sopportare l’ingiuria, l’insolenza, il parlar grossolano, i dileggi da parte degl’inferiori, sian profferiti a caso o con giusta causa, e i biasimi mossi senza motivo e infondatamente dai superiori e dai propri sudditi, non è virtù di molti, ma a stento d’uno o due (); onde si potrebbe vedere talora persone che in quelle austerità erano forti, dare ora siffattamente nelle vertigini, da imperversare peggio delle fiere più selvagge; or questi tali dobbiamo massimamente escludere dai recinti del sacerdozio. Che il vescovo non languisca d’astinenza né vada a piedi nudi, non recherà alcun detrimento alla comunità ecclesiastica; mentre invece l’asprezza d’animo produce grandi malanni, sia in chi ne è agitato, sia nei suoi vicini; né alcuna minaccia di Dio sovrasta a coloro che non si danno a quelle pratiche, mentre a coloro che montano in furia senza ragione, è minacciata la geenna e il fuoco di essa. Come colui che è preso da vanagloria, quando abbia afferrato il dominio sopra il popolo offre al fuoco maggior materia; così chi è incapace di frenare lo sdegno quando è solo o nella conversazione di pochi, ma facilmente perde le staffe; qualora gli sia affidata la supremazia di tutta una moltitudine, simile a una fiera punzecchiata da ogni parte e da moltissimi, egli non potrà mai starsi in pace, e procurerà a’ suoi sudditi innumerevoli mali. Nulla intorbida più la purezza della mente e la trasparenza dei pensieri, che un animo sfrenato e che si lascia trascinare da grande impeto: "Questo (dice la Scrittura) rovina anche i saggi" (Prv 5,1). E come in un combattimento notturno, l’occhio dell’anima ottenebrato non trova modo di discernere gli amici dai nemici, né le persone volgari da quelle distinte, ma con tutti egualmente usa le stesse maniere, rassegnandosi a sopportare il male che gliene possa venire, pur di soddisfare la voluttà dello spirito; poiché l’ardore della collera è una specie di voluttà, anzi più duramente della voluttà esso tiranneggia l’anima sconvolgendone interamente la sana costituzione; onde spinge facilmente all’arroganza, a inimicizie intempestive, all’odio infondato, e continuamente dispone a eccitare malcontenti inutilmente e senza motivo, e tante altre cose simili costringe a fare e dire, sentendosi l’anima trascinata da gran tumulto di passione, né avendo dove appoggiare il suo sforzo per resistere a tale impeto.
X. "Ma ormai non sopporterò più a lungo, quel tuo fare ironico, disse; poiché chi non conosce quanto tu sii lontano da questo difetto?"
"E che, soggiunsi, o fortunato, vuoi tu dunque spingermi vicino al rogo, e istigare la fiera accovacciata? o non sai che in ciò mi sono moderato non per virtù mia propria, ma per amore della quiete, e che chi ha tale disposizione è cosa desiderabile che, standosene solo o colla compagnia di uno o due amici soltanto, possa sottrarsi a quell’incendio, non che dal cadere nell’abisso di tante sollecitudini? Poiché in questo caso, non solo se stesso, ma molti altri insieme con lui trascinerebbe nel precipizio della rovina, rendendoli meno solleciti per mantenersi nella giusta misura; infatti il più delle volte la moltitudine dei sudditi è disposta naturalmente a guardare i costumi dei capi come un modello archetipo e foggiare se stessa a norma di quelli. Or come potrebbe uno sedare i loro gonfiori quando egli stesso è gonfio? chi fra la plebe desidererebbe diventare moderato, mentre vede il capo che facilmente cede alla collera? Non è possibile affatto che le mancanze dei sacerdoti restino celate, ma anche le minime ben presto diventano palesi.
Il sacerdote deve risplendere col buon esempio
Un atleta fino a che se ne rimarrà in casa senza venire alle mani con alcuno, potrà bensì celarsi anche se debolissimo; ma tosto che deponga la veste per affrontare la lotta, ben presto diverrà oggetto di disprezzo; così anche quelli fra gli uomini che vivono questa vita privata e tranquilla, hanno per velario delle proprie colpe la solitudine; ma qualora siano tirati in mezzo, allora sono costretti a deporre la solitudine come un vestito, e per mezzo dei movimenti esterni mostrare ignude a tutti le anime loro. Pertanto, come le loro virtù giovano a molti ridestandone l’emulazione, così pure le loro mancanze rendono altri più schivi del travaglio che la virtù richiede e li dispone all’indolenza dinanzi alle fatiche di serie intraprese. Deve dunque la bellezza dell’anima di lui risplendere da ogni parte per poter rallegrare e insieme illuminare le anime dei suoi spettatori. Le colpe dei volgari, commesse per così dire al buio, sono di rovina soltanto per chi le commette; ma la trascuratezza d’un personaggio distinto e noto a molti, reca danno comune a tutti, rendendo i caduti sempre più restii ai sudori per le opere buone, e d’altra parte provocando all’arroganza quelli che vogliono attendere a se stessi. Inoltre, i falli della gente comune, anche se divengono palesi, non infliggono nessuna piaga considerevole; ma quelli che siedono su questo culmine di dignità, primariamente sono visibili a tutti; poi anche se cadono in difetti minimi, le cose piccole appiano grandi agli altri, perché tutti misurano la colpa non in ragione della sua propria entità, ma in ragione del grado di chi l’ha commessa. Onde il sacerdote ha da essere circondato, come d’armi d’acciaio, da attenzione continua e da costante moderazione, e guardarsi da ogni lato che alcuno vedendo qualche parte scoperta e negletta, non infligga una ferita mortale. Tutti stanno all’intorno pronti a colpire e abbattere, non solo nemici e avversari, ma molti anche di quelli che simulano amicizia. Bisogna rendere le anime disposte come Dio un tempo mostrò essere i corpi di quei santi nella fornace di Babilonia; l’alimento poi di questo fuoco non è sarmento né pece né stoppa, ma altre cose ben peggiori; né si tratta di quel fuoco sensibile, ma li avvolge la voracissima fiamma della gelosia, elevandosi da ogni parte, investendoli e scrutandone la vita, con più lena che quel fuoco i corpi di quei giovinetti; se pertanto troverà una piccola traccia di paglia, subito l’avvolge e arde quella parte corrotta, mentre il resto della fabbrica, anche se risplenda più che i raggi del sole, resta fra quel fumo tutto bruciacchiato e annerito.
Anche i piccoli difetti tornano a disdoro del sacerdote.
XI. Fino a che la vita del sacerdote sarà ben regolata in tutto, egli non soccomberà all’insidia, ma se trascura anche solo un punto, come è facile essendo uomo e navigando attraverso il pelago mal fido di questa vita, nulla gli gioveranno tutte le altre virtù per sfuggire alle lingue degli accusatori; ma quella piccola deficienza adombra tutto il resto; tutti vogliono giudicare il sacerdote non come rivestito di carne e partecipe della natura umana, ma quasi fosse un angelo e libero dalla miseria comune. E come tutti temono e adulano un tiranno finché serba il potere, perché non possono toglierlo di mezzo, ma quando vedano decadere la sua potenza, deposto il rispetto fin allora simulato, quelli che poco prima gli erano amici, d’un tratto si fanno nemici e avversari, e esaminando tutte le sue malvagità gliele imputano a colpa e lo spogliano del dominio; così anche riguardo ai sacerdoti, quelli che poco prima, mentre era in potenza, lo onoravano e gli s’inchinavano, quando scorgono una piccola occasione, s’apprestano energicamente a travolgerlo non solo quale tiranno, ma come qualcosa di peggio. E come quello teme le guardie della sua persona, così questo ha da paventare soprattutto i vicini e i suoi compagni di ufficio; ché nessuno agogna maggiormente la sua dignità e nessuno conosce i fatti suoi più addentro di loro, perché essendogli vicini, se alcunché di simile gli accada, lo conoscono prima degli altri; e qualora ricorrano alla calunnia, facilmente possono trovare fede e togliere di mezzo il calunniato ingrandendo le cose piccole, (ché la parola dell’Apostolo viene qui invertita, e "se un membro soffre, godono tutte le altre membra, e se viene esaltato un membro, tutte le altre membra ne soffrono" 1Cor. 12,26) tranne che uno sappia con grande circospezione far fronte a tutto. Or dunque tu mi mandi a tale guerra? e credesti che l’anima mia fosse da tanto da affrontare una lotta si varia e multiforme? ma donde e da chi l’apprendesti? che se Dio ti ha parlato, metti fuori il responso, e mi persuaderò; se poi non l’hai, e rechi il suffragio a norma degli uomini, cessa di più oltre ingannarti. Ché trattandosi di fatti miei è più giusto credere a me che ad altri, poiché "nessuno conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è dentro di lui" (1Cor. 2,11). Ma se anche prima non lo credevi, penso che ora, da quanto ti ho detto ti sarai convinto che se avessi accettato questa dignità avrei esposto alla derisione me stesso e i miei elettori, e con grande iattura me ne sarei dovuto tornare a questo tenore di vita in cui ora mi trovo. Non solo la gelosia, ma assai più forte di essa, la brama di questa carica sembra armare la moltitudine contro chi ne è investito; a quel modo che i figli bramosi di denaro sopportano con pena la vecchiezza dei padri, così taluni di costoro quando vedono protrarsi lungamente la durata dell’episcopato, non essendo loro lecito di toglierlo di mezzo, si studiano di congedarlo, tutti desiderando di sostituirlo e aspettando ognuno che la dignità venga a cadere nelle sue mani.
Disordini che talora accadevano nella elezione al sacerdozio. 
La professione monastica e l’età avanzata non sono titoli sufficienti di idoneità al sacerdozio

XII. Vuoi che ti mostri un altro aspetto di questa lotta, ripieno, di innumerevoli pericoli? Va’ a spiare nelle feste pubbliche, dove è costume di far le elezioni dei capi ecclesiastici, e vedrai il sacerdote fatto segno a tante accuse quanta è la moltitudine dei sudditi. Allora quelli a cui spetta il conferire l’onore si scindono in molti partiti, e si potrebbe vedere il collegio dei presbiteri non concorde né nei suoi membri né con quegli che ottiene l’episcopato; ognuno fa parte da se stesso, scegliendosi chi questo chi quel candidato. E ne è cagione il considerare tutti non ciò che unicamente si dovrebbe considerare, cioè la virtù dell’anima, ma il tenere conto d’altri pretesti come di titoli valevoli all’assecuzione di questa dignità; onde: "Questi, dice taluno, sia approvato perché è di alto ceto; quest’altro perché possiede molta ricchezza né avrà bisogno di vivere a carico dell’entrate ecclesiastiche; quest’altro perché proviene da parte avversaria". E così, cercano di far prevalere sopra gli altri chi un proprio amico, chi un congiunto, chi un adulatore; nessuno vuol prendere in considerazione la persona idonea, né si cura di fare alcun assaggio dell’anima. Io invece sono tanto lontano dal menare buone queste ragioni per l’approvazione dei candidati al sacerdozio, che anche se uno mostrasse grande pietà, cosa che contribuisce per me non poco per l’esercizio di quella carica, non ardirei di ammetterlo subito in grazia di quella, se non possedesse insieme con la pietà anche molta saggezza. Poiché io ho veduto molti che erano stati rinchiusi tutta la vita e consumatisi nei digiuni, i quali finché poterono starsi soli e curarsi soltanto de’ fatti propri, ebbero merito dinanzi a Dio, e ogni giorno aggiungevano progresso non piccolo in quella filosofia; quando poi s’introdussero fra la moltitudine e furono posti nella necessità di correggere l’ignoranza del volgo, gli uni si mostrarono fin da principio incapaci di questa missione, gli altri, forzati a durarvi, deposta la primitiva osservanza recarono i massimi danni a se stessi, né procurarono agli altri il minimo vantaggio. Ma neppure se taluno abbia passato tutto il suo tempo rimanendosi nell’ultimo gradino del ministero e sia giunto a estrema vecchiaia, dovremo elevarlo a più alta carica semplicemente per riguardo alla sua età; e che farci, se anche dopo raggiunto quel termine l’individuo sia rimasto inadatto all’uopo? Né io dico tali cose per disprezzo alla vecchiezza, né con intento di escludere per legge da questa soprintendenza coloro che vengono dalla schiera dei monaci è avvenuto infatti che molti provenienti da quel ceto risplendettero in quest’ufficio ma nell’intento di dimostrare questo principio: che se né la sobrietà per sé sola, né la tarda vecchiaia potrebbero bastare a garantire l’idoneità di chi ottiene il sacerdozio, tanto meno possono valere a tale scopo i pretesti prima enumerati. Ma v’è chi ne propone altri ancor più assurdi; ché taluni sono collocati nelle file del Clero affinché non si gettino dalla parte degli avversari; altri per le loro perversità, ad evitare che trascurati non abbiano a perpetrare gravi mali; ma si può dar cosa più illegale di questa, che uomini perversi e pieni di colpe fino ai capelli, vengano lisciati per quel motivo stesso per il quale dovrebbero esser puniti, e che in grazia di quello per cui non dovrebbero nemmeno varcare le soglie della chiesa, abbiano a salire alla dignità sacerdotale? Cercheremo noi ancora, dimmi, la causa dello sdegno di Dio, mentre esponiamo ministeri così santi e tremendi a essere profanati da uomini o malvagi e affatto indegni di riguardo alcuno? quando vengono incaricati gli uni di presiedere a uffici che loro non convengono affatto, gli altri d’uffici affatto superiori alle loro capacità, faranno sì che la Chiesa non dissomigli per nulla dall’Euripo.
Il male che proviene alla Chiesa dalla abusiva intromissione delle persone estranee 
nella elezione o nella deposizione dei membri del sacerdozio

XIII. Io, più indietro, deridevo i magistrati civili perché eseguiscono le distribuzioni delle cariche non a norma della virtù che è nelle anime, ma a norma delle ricchezze o dell’età o della dignità umana; ma quando intesi che tale stoltezza aveva invaso anche le nostre istituzioni, non giudicai questo un male equivalente dell’altro. Qual meraviglia infatti, che uomini mondani e bramosi della gloria che deriva dal volgo, e che ogni cosa fanno per acquistare denaro, commettano simili errori, quando coloro che professano il distacco da tutte queste cose, non si comportano meglio di quelli, ma mentre hanno impegnata la lotta per i beni celesti, come se avessero a decidere di un pezzo di terra o d’altra cosa simile, prendono senz’alcun criterio uomini volgari e li pongono a capo di interessi tali per cui il Figlio unigenito di Dio non si peritò di deporre la sua gloria e farsi uomo, d’assumere la forma di schiavo, d’essere sputacchiato e flagellato, e di morire della morte più ignominiosa? Né si arrestano qui, ma aggiungono altre irregolarità più assurde; poiché non solo ammettono gl’indegni, ma ne discacciano gli idonei: come se fosse necessario che dall’una e dall’altra parte venga rovinata la sicurezza della Chiesa, o come se non bastasse il primo motivo per accendere lo sdegno di Dio, così ne aggiungono un secondo non meno tristo; ché mi parve cosa egualmente funesta tanto l’escludere gli idonei, quanto lo spingere dentro gli inetti: e ciò avviene affinché il gregge di Cristo non possa trovare sollievo da alcuna parte, né possa in alcun modo respirare. Tali cose non sono degne di mille fulmini? o non sono meritevoli d’una geenna più violenta, e non solo di quella a noi minacciata? Ma ciò non ostante si trattiene e sopporta tali iniquità "Colui che non vuole la morte del colpevole, bensì che si converta e viva" (Ez. 23,23). Chi può adeguatamente ammirare la di lui mitezza? come degnamente esaltarne la misericordia? T seguaci di Cristo corrompono le istituzioni di Cristo più dei nemici e degli avversari suoi, ed egli buono, si mostra ancora benigno e chiama i colpevoli a ravvedimento; gloria a te, o Signore, gloria a te quale abisso di benignità in te? quale copia di longanimità? quelli che per il tuo nome da volgari e ignobili sono divenuti nobili e cinti d’onore, usano dell’onore contro chi ne li ha rivestiti e osano audacie inaudite, e imperversano contro le cose sante, allontanando e scacciando i degni, affinché i malvagi possano con tutta calma e con piena impunità mettere sottosopra ogni cosa che loro aggrada. E se vuoi apprendere le cause di questo male, le troverai simili a quelle prima addotte, ché hanno tutte una sola radice, e come taluno direbbe, madre, la gelosia; esse poi non sono d’una stessa specie, ma differiscono fra loro. Questo, dice uno, sia scacciato perché è giovane; quest’altro perché non sa adulare; quell’altro perché cadde in disgrazia del tale; quell’altro, per non far dispiacere al tale, qualora vedesse rifiutato il suo protetto e approvato costui; quest’altro poi perché è affabile e moderato, quest’altro ancora perché è temuto dai colpevoli; quest’altro per altro motivo, ché non esitano a trovare pretesti quanti ne vogliano, e qualora non n’abbiano altro, adducono quello del gran numero dei sacerdoti, asserendo non doversi in massa elevare a questa dignità, ma con calma e a poco a poco; e possono trovare quante altre cagioni vogliono. Or mi piace chiederti a questo punto: Che deve fare il vescovo contrariato da tali venti opposti? come starà fermo fra tanto ondeggiare? come respingerà tutti questi assalti? Ché se disporrà la bisogna con retta riflessione, tutti si dichiarano nemici e avversari a lui ed agli eletti, e ogni cosa faranno per animosità contro di lui, suscitando rivolte ogni giorno e infliggendo mille insulti agli eletti, finché o gli abbiano deposti o abbiano fatto luogo ai loro raccomandati. Accade come quando un pilota avesse nella nave che varca Tacque, dei pirati insieme naviganti e insidianti senza posa e in ogni istante a lui, ai marinai e agli altri viaggiatori: e se anteporrà il riguardo verso di quelli alla sua propria salvezza, accogliendo chi non dovrebbe, avrà Dio nemico invece ch’essi, del che qual cosa v’è più tremenda? e d’altra parte i rapporti con loro gli si faranno più difficili di prima, prestandosi tutti reciprocamente soccorso e rendendosi per tal guisa più forti. E come quando, per venti impetuosi scatenatisi da parti opposte, il mare fin allora tranquillo, d’improvviso infuria, si solleva e travolge i naviganti; così la pace della Chiesa quando accolga nel suo seno uomini corruttori, si riempie di procella e di molti naufragi.
XIV. Pensa pertanto quale deve essere colui che ha da andar incontro a sì gran tempesta e cavarsela bene da sì forti ostacoli, opposti a ciò che sarebbe di vantaggio comune: deve essere insieme serio e non altezzoso, temuto e accondiscendente, imperativo e popolare, imparziale e cortese, umile e non servile, forte e dolce, affine di poter combattere con buon esito contro tutte queste difficoltà. Si deve far avanzare con molta fermezza, anche se tutti s’opponessero, il candidato idoneo, e quegli che non è tale, con la stessa fermezza e anche se tutti cospirino contro, non promuoverlo, ma aver di mira una cosa sola, cioè l’edificazione della comunità ecclesiastica, né alcuna cosa compiere per simpatia o per animosità. Ti par dunque che io mi sia ritirato con buona ragione da questo ufficio e da questo ministero? ma tuttavia non t’ho ancora esposto tutto; ho altro da dirti: però ti prego, non stancarti di tollerare che un tuo amico e familiare voglia farti persuaso intorno a ciò di cui lo accusi. Ché tali cose non sono soltanto utili per la difesa che tu avrai a far di me, ma anche per il disimpegno dell’ufficio stesso ben presto ti saranno di non lieve giovamento. È necessario che chi s’incammina per questa carriera di vita, quando abbia prima ben indagato ogni cosa, allora solo s’accinga al ministero; e per qual motivo mai? perché se non altro non gli toccheranno amare sorprese quando si trovi a tali incontri, se già di tutto avrà chiara nozione.
Governo delle vedove e difficoltà che presenta. Cura degli ospiti e degli infermi.
Responsabilità del vescovo come amministratore

Vuoi dunque ora che io tratti prima del governo delle vedove, o della sollecitudine per le vergini, o della difficoltà che presenta la parte giudiziaria? Ché in ognuna di queste bisogne diversa é la preoccupazione, e più grande che la preoccupazione é il timore. E per principiare da quella parte che si crede essere più facile delle altre, la cura delle vedove sembra non arrecare altre brighe a chi se ne occupa, se non quelle riguardanti le spese necessarie; ma non é così; anche qui c’è bisogno di lungo esame, quando si tratta di accoglierle, perché l’ascriverle senza criterio e a casaccio, ha prodotto innumerevoli mali. Talora infatti esse hanno mandato in malora le case, violato i matrimoni; spesso si sono infamate con furti, con frodi e col perpetrare altre simili iniquità; ora il mantenere tali soggetti a spese della Chiesa, provoca punizione da parte di Dio e i peggiori biasimi da parte degli uomini, mentre poi rende più restii quelli che sarebbero disposti a beneficare. Chi sopporterebbe infatti che i beni che egli aveva deciso di dare a Cristo, siano dissipati in pro di quelli che disonorano il nome di Cristo? Bisogna quindi fare lunga e diligente indagine, affinché non danneggino la mensa delle indigenti non solo quelle dette di sopra, ma né anche quelle che sono in grado di provvedere al proprio sostentamento. Dopo questa ricerca, sopravviene altra briga non piccola, per far sì che il loro nutrimento scorra abbondante come da sorgenti, né si esaurisca mai: l’indigenza forzata è una miseria in certa guisa insaziabile, querula e sconoscente; si richiede grande sagacia e grande diligenza per chiudere loro la bocca, togliendo qualsiasi pretesto di accusa. Ora molti, appena vedono un tale che sia superiore all’avidità di ricchezza, subito lo designano come idoneo a quest’amministrazione; ma io non credo che gli possa bastare tale magnanimità; questa si richiede bensì prima d’ogni altra dote (ché senza di ciò egli sarebbe un flagello anziché un protettore, e un lupo anziché un pastore), ma insieme con questa conviene cercare se ne possieda un’altra; quest’altra, che è causa d’ogni bene per gli uomini, è la longanimità, che guida l’anima ormeggiandola in porto tranquillo. Il ceto delle vedove, per la indigenza, per l’età e per la sua stessa natura, dimostra una certa smodata indiscrezione, è meglio dir così, onde gridano fuor di luogo, menano querele invano, si rammaricano per cose di cui dovrebbero saper grado, accusano di cose alle quali era invece da far buon viso: e il reggitore deve tollerare tutto con fortezza, senza perdere le staffe né per le noie intempestive, né per gli irragionevoli biasimi; è giusto commiserare quel ceto per i disagi propri della sua sorte, anziché rampognarlo, ché l’accrescere il peso delle loro sventure e aggiungere all’ambascia dell’indigenza anche quella del maltrattamento, sarebbe estrema crudeltà. Onde un tale sapientissimo uomo, guardando l’avidità e l’alterigia propria della natura umana e avendo appreso che l’indole della povertà é così terribile da abbattere anche l’anima più generosa e indurla spesso a mostrarsi sfacciata nel richiedere le stesse cose, affinché taluno non monti in ira per esser da altri supplicato né per le continue richieste infastidito, diventi avversario quegli che doveva recare loro soccorso, lo dispone a mostrarsi accessibile al bisogno, dicendo: "Piega il tuo orecchio al povero senza infastidirti e rispondi a lui con pacata mansuetudine" (Eccl. 4,8). Lasciando da parte il cercatore importuno e che potrebbe dire a chi giace nella miseria? parla a chi é in grado di sopportare la debolezza di quello, esortandolo a sollevare il povero con la dolcezza dello sguardo e l’affabilità della parola, prima di porgergli la limosina.
Larghezza e buone maniere nel beneficare
XV. Che se poi alcuno si astenga bensì dall’appropriarsi i beni destinati a quelle, ma le copra di innumerevoli contumelie, le insulti e monti in furia contro di esse, non solo non avrà alleviato la confusione che loro ispira la povertà, col largire soccorsi, ma avrà cagionato loro un maggior affanno con i maltrattamenti. Ché sebbene, spinte dalla necessità del ventre, esse diventano assai impudenti, non ostante ciò soffrono a queste maniere violente; quando adunque per l’urgenza della fame sono necessitate a chiedere, e col chiedere s’inducono a comportarsi sfrontatamente, indi per la loro sfrontatezza vengono coperte di rimproveri, allora un molteplice peso di abbattimento apportatore di densa tenebra, si stende su l’anima loro. Chi si occupa di loro dovrà quindi essere tanto longanime, non solo da non accrescere la loro confusione con modi irritati, ma anche da attutire la maggior parte di quella che hanno già, con parole di conforto. Poiché, come chi godendo di grande abbondanza, se riceve insulto non sente la comodità che arreca il possesso delle sostanze per il colpo dell’offesa ricevuta; così quegli che ascolta parole affabili e che accetta l’offerta accompagnata da una voce confortatrice, si rallegra maggiormente e gioisce, e il soccorso a lui largito gli si duplica per le buone maniere onde è porto. E queste cose non dico da me stesso, ma secondo colui che ha fatta la prima esortazione: "Figlio, dice, nel beneficare non recare vituperio, e in ogni dono non recare dolore con le tue parole; non forse la rugiada lenirà l’arsura? così é migliore la parola che il dono. Ecco che la parola é al di sopra della buona largizione e l’una e l’altra sono presso l’uomo che gode fama di giusto" (Eccl. 18,15-17). Né solo giusto e longanime dev’essere chi soprintende alle vedove, ma non deve esser da meno come amministratore; il che se manchi in lui, trarrà a non minor rovina le sostanze dei poveri. Già taluno cui fu affidato questo ministero e che aveva radunato molto oro, non se lo divorò lui, ma neppur lo spese a vantaggio dei bisognosi, tranne di pochi; la maggior parte ripose e conservò fino a che sopraggiunto il tempo perverso, lo abbandonò nelle mani dei nemici. C’è bisogno dunque di molta previdenza, si da non prodigare né lesinare le provvigioni della Chiesa, ma distribuire subito ai poveri le somme offerte e radunare i tesori della Chiesa a norma delle intenzioni dei sudditi. Inoltre l’accoglienza degli ospiti e la cura degli infermi, qual dispendio di denaro non credi tu che richiedano, quale sollecitudine e prudenza da parte di chi ne é incaricato? le spese che tali bisogne richiedono non sono affatto minori di quelle di cui ho detto poc’anzi; spesse volte di necessità sono anche maggiori: onde chi vi soprintende dev’essere sagace nel procurare con circospezione e assennatezza, in guisa da disporre i proprietari a largire i loro beni con zelo e senza rammarico, per non danneggiare le anime dei donatori mentre provvede al sollievo degli infermi. Più ancora conviene qui far prova di longanimità e serietà; perché i malati sono una classe di difficile contentatura e d’animo debole; onde se non si circondano da ogni parte di premura e di sollecitudine, basta anche quella piccola trascuratezza per cagionare all’infermo grande tristezza.
Governo e cura delle vergini. Sollecitudini e ansie che ne derivano al vescovo e al sacerdote che ne é incaricato
XVI. Riguardo poi alla cura delle vergini é tanto più grande il timore quanto più eccellente é l’oggetto e quanto più regale é questo atto in confronto degli altri; invero anche nella schiera di queste sante persone si sono già introdotti numerosissimi soggetti ripieni di innumerevoli mali; onde é maggiore in questo caso l’affanno. Or come non é eguale cosa se cada in fallo una fanciulla libera o la sua ancella, così anche v’è differenza fra la vergine e la vedova. Per queste ultime infatti é cosa indifferente il far leggerezze, l’ingiuriarsi a vicenda, l’adulare, il mostrarsi sfrontate, l’apparire dappertutto e gironzolare per la piazza; ma la vergine si é disposta a più alto certame ed é emula d’una più alta filosofia; professa di mostrare sulla terra la condizione degli angeli e si propone di effettuare, pur circondata di questa carne, le virtù proprie delle potenze incorporee; onde a lei non s’addice il far lungi e escursioni, né le si permette di affastellare parole inutili e vane; di contumelie poi e di adulazioni non deve conoscere neppure il nome; per queste ragioni essa ha bisogno di più accurata custodia e di maggior soccorso, ché il nemico della santità sempre più fiero le fronteggia e assedia, pronto, se taluna vacilli e cada, a ingoiarsela; molti poi sono gli uomini insidiatori, e a tutto ciò s’aggiunge l’imperversare della natura; onde debbono schierarsi contro doppio ordine di nemici: quelli che assalgono all’esterno e quelli che agitano nell’interno. Grande pertanto é il timore di chi vi presiede, maggiore ancora il pericolo e l’affanno se talvolta (ciò che non accada mai) gli venisse commesso qualche fallo involontario. Ché se "la figlia rinchiusa toglie il sonno al padre" (Eccl. 42,9) e l’ansia a riguardo di lei lo tiene sveglio, sì grande essendo il timore ch’essa non rimanga sterile, o che trapassi l’età buona, o che sia disamata dal suo fidanzato; quale fiducia avrà colui che ha da affannarsi non per questi motivi, ma per altri di questi assai maggiori? Qui non l’uomo viene tradito, ma lo stesso Cristo; né la sterilità genera solo infamia ma il danno di essa finisce con la rovina dell’anima. "Ogni albero, dice, che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato sul fuoco" (Mt. 3,10); e quando sia odiata dallo sposo non basterà prendere il libello di ripudio, e andarsene, ma s’avrà in pena dell’odio la punizione eterna. Inoltre il padre carnale ha molti mezzi che gli rendono agevole la custodia della figlia: v’è la madre, la nutrice, lo stuolo delle ancelle; la sicurezza della casa poi viene in aiuto al genitore per la custodia della vergine. Non le si permette di uscire continuamente in piazza, né qualora vi si rechi é necessitata a mostrarsi ad alcuno di quelli che s’incontrano con lei, giovando l’oscurità della sera non meno delle mura domestiche, per velare colei che non vuol farsi vedere; s’aggiunga a tutto ciò ch’essa é libera da ogni causa che la potrebbe forzare a mostrarsi in presenza d’uomini, perché né la sollecitudine delle cose necessarie né le macchinazioni degl’iniqui, né altro simile motivo la costringe a questi incontri, avendo essa il padre che s’occupa in vece sua di tutte queste faccende. Perciò ella non ha che una sola preoccupazione, di non fare né dire alcuna cosa indegna del decoro proprio del suo stato. Qui invece molte cause rendono al padre difficile, anzi persino impossibile la custodia; egli non potrebbe tenerla rinchiusa insieme con lui, ché tale coabitazione non é né conveniente, né priva di pericoli; se anche essi non ne soffrono danno e perdurano nel serbare intatta la santità loro, tuttavia per le anime che hanno scandalizzate, avranno a rendere non minor conto che se avessero peccato insieme. Or non essendo ciò possibile, non torna facile né anche l’intuire i moti dell’anima, né reprimere quelli che si agitano sregolatamente e coltivare sempre più quelli composti e ordinati e guidarli al meglio; né torna agevole il sistemare le uscite. La povertà e la mancanza di protezione non gli permettono d’essere diligente indagatore della decenza che loro si conviene; infatti quando la vergine é costretta a provvedere da se stessa a ogni sua necessità, ha molti pretesti per uscirsene in giro, qualora voglia far disordini; ci vuole pertanto qualcuno che imponga loro di rimanere sempre e in casa e tolga di mezzo simili occasioni, procurando loro sia la sufficienza del necessario sia una persona la quale presti loro servizio per questi bisogni; é d’uopo anche impedirle di recarsi ai funerali e alle vigilie; perché quell’astuto serpente sa spargere il suo veleno anche fra le opere buone, onde bisogna che la vergine se ne stia trincerata e poche volte in tutto l’anno esca fuori di casa, quando motivi imprescindibili e urgenti ne la costringano.
Che se taluno dicesse non esservi affatto bisogno che il vescovo compia direttamente alcuno di questi uffici, sappi bene che le preoccupazioni e i biasimi riguardo a ciascuno d’essi si rivolgono sempre a lui. E’ molto meglio ch’egli disimpegnando da se stesso ogni faccenda eviti le accuse che è giocoforza sopportare in grazia de’ falli altrui, piuttosto che scaricandosi del ministero, paventare le punizioni dovute a ciò che altri ha commesso. Inoltre colui che esercita da se stesso queste cariche, compierà ogni cosa con molta agevolezza, mentre invece chi ha da far ciò dopo d’aver persuaso la volontà di tutti, non riceve dall’aver rinunziato a far da sé un sollievo corrispondente alle noie e agitazioni cagionategli dai contraddittori e da quelli che si opporranno alle sue decisioni. Ma non potrei enumerare tutte le preoccupazioni relative alle vergini; già quando si tratti di iscriverle esse arrecano brighe non ordinarie a chi é incaricato di questa amministrazione.
Difficile compito dell’amministrare la giustizia con imparzialità.
Pericoli che possono presentarsi al vescovo per la suscettibilità delle varie classi di persone a cui deve usare cortesia.

XVII. La parte poi che riguarda i giudizi arreca infiniti pesi, grande fatica e tali difficoltà, quali non incontrano neppure i giudici dei tribunali civili. Ché difficile é trovare il giusto, e che colui che lo trova non lo corrompa. Né solamente fatica e difficoltà, ma vi si incontra pure non lieve pericolo; già taluni dei più deboli essendo stati coinvolti in processi, né trovando protezione, finirono per naufragare nella fede. Poiché molti offesi non meno degli offensori detestano chi non li soccorre, e non vogliono considerare né l’intricatezza delle questioni, né la tristezza delle circostanze, né la dignità ecclesiastica: sono giudici inesorabili che conoscono una sola difesa, cioè la liberazione dai malanni da cui sono oppressi; chi non é in grado di loro fornirla, anche se adduca mille ragioni non sfuggirà in alcun modo alla loro condanna. E poiché ho parlato di protezione, ti svelerò un altro motivo di biasimi: se colui che occupa la carica episcopale non va ogni giorno in giro per le case come un vagabondo, ne vengono indicibili malcontenti. Non solo gli ammalati, ma anche i sani vogliono esser visitati, indotti a ciò non da riverenza, ma piuttosto per pretesa d’onore e di considerazione. Che se per l’urgenza di qualche bisogno e a vantaggio della comunità ecclesiastica gli accada di visitare più assiduamente alcuno dei più ricchi e potenti, subito gliene verrà taccia di servilismo e di adulazione. Ma che parlo io di protezione e di visite? anche solo dal modo di salutare sopportano tal peso di accuse da esserne sovente oppressi e abbattuti per lo scoraggiamento; persino degli sguardi hanno da rendere ragione; molti poi sottopongono a rigoroso esame ciò che quelli fanno ingenuamente, indagano sul tono della voce, sull’espressione degli occhi, sulla misura del sorriso: "al tale, dicono, ha rivolto il discorso con sorriso marcato, con aspetto giulivo e voce sonora; a me invece guardò poco e trascuratamente"; e se quando parla e molti stanno seduti insieme con lui, non porta l’occhio in giro da ogni lato, una parte di loro se ne adonterà come d’un insulto.
Chi dunque se non assai forte, potrà resistere a tali accusatori sia per sfuggire a ogni loro imputazione, sia per purgarsene dopo che gli fu inflitta? per vero bisognerebbe non aver affatto accusatori; ma se ciò é impossibile, almeno bisognerebbe poter liberarsi dalle loro accuse; che se anche ciò torna difficile e taluni si dilettano nel muovere querele, allora bisogna resistere fortemente all’abbattimento che ne deriva. Più facilmente sopporterebbe l’accusatore chi fosse incolpato per giusto motivo; ché non essendovi giudice più fiero della coscienza, quando siamo sopraffatti da questo che é più terribile, sopportiamo più facilmente quelli esterni che sono più benigni. Ma colui che non ha a rimproverarsi alcuna colpa, qualora venga accusato senza cagione si eccita tosto a sdegno e si abbatte facilmente nello scoraggiamento, se prima non si sia esercitato a sopportare le noie del volgo; ché non é possibile che uno falsamente accusato e condannato non si conturbi e non soffra qualche cosa per tanta iniquità.
Ma chi direbbe poi le afflizioni che debbono soffrire quando sia necessario espellere qualcuno dalla comunità ecclesiastica? e fosse pure che il male consistesse solo nell’afflizione l ma v’è anche non poca rovina; poiché v’è timore che punito oltre i giusti limiti quegli patisca ciò che fu detto dal beato Paolo, e venga assorbito da eccessivo dolore. Onde anche qui occorre gran diligenza affinché un mezzo di giovamento non diventi per lui occasione di un danno maggiore. Come un medico che non avesse inciso convenientemente la ferita, egli subirà in comune l’ira di Dio, eccitata da ciascuna delle colpe che quegli commetterà dopo una simile cura. Or quali punizioni dovrà attendersi, quando uno non deve solo rendere ragione delle mancanze da lui commesse, ma trovasi esposto a estremo pericolo anche per i falli altrui? Che se dovendo dar conto delle nostre proprie mancanze noi paventiamo di non poter sfuggire a quel fuoco, che cosa dovrà aspettarsi di soffrire chi avrà a difendersi da tante colpe? Che poi ciò sia vero, odi il beato Paolo che lo dice, o piuttosto non lui ma Cristo che in lui parla: Ubbidite ai vostri capi e assoggettatevi a loro perché essi vegliano sulle anime vostre come quelli che hanno da renderne conto. È questo dunque un lieve timore? non è possibile affermarlo. Ma tutte queste cose bastano per convincere anche i più increduli c ‘restii, che io ho deciso quella fuga non perché accecato da arroganza e vanagloria, ma solo perché temevo di me stesso e per riguardo alla maestà dell’ufficio.






NOTA: le citazioni sono spesso riportate, dallo stesso Crisostomo, a memoria, lievemente modificate o abbreviate per motivi stilistici, nei casi in cui sono testuali è utilizzata la LXX o la Volgata





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