Libro primo
Prologo
Amicizia di Giovanni e Basilio
I. Io avevo molti
amici veraci e sinceri, i quali perfettamente conoscevano e osservavano le
leggi dell’amicizia; ma uno fra gli altri molti vi era, il, quale tutti superandoli
in intimità, studiava di lasciarne indietro di tanto, quanto essi distavano
dalle persone semplicemente mie conoscenti. Questi era stato sempre in mia
compagnia; avevamo intrapreso gli stessi studi sotto gli stessi maestri; eguale
era fra noi la bramosia e diligenza per le esercitazioni retoriche a cui ci
dedicavamo; eguale l’aspirazione e generata dallo stesso obbietto. Né solo al
tempo in cui frequentavamo i nostri maestri, ma allorquando, toltone commiato,
bisognava consigliarsi circa la miglior carriera da scegliere, anche in questo
caso ci trovammo d’accordo. Esistevano inoltre fra noi altri rapporti
indissolubilmente costanti. Poiché né l’uno poteva menare maggior vanto
dell’altro circa l’importanza del luogo natio; né la sorte aveva dato a me
ricchezza soverchia e a lui estrema povertà; ma anche la proporzione dei beni
di fortuna eguagliava l’identità delle nostre intenzioni; egualmente distinto
era il casato di ciascuno, ed eravamo unanimi in ogni pensiero. Se non che,
quando fu deciso di dedicarci alla santa vita dei monaci e alla verace
filosofia, non fu eguale per noi questo giogo; mentre dalla sua parte la
bilancia alleggerita si elevava, io tuttora inceppato nei desideri mondani,
trascinavo in basso la parte mia, e la impedivo di sollevarsi, opprimendola di
vaneggiamenti giovanili. Qui pertanto durava bensì costante fra noi tutto il
resto, come per l’innanzi, l’amicizia, ma la comunanza di vita venne spezzata,
non essendo possibile intrattenere conversazioni fra persone che non condividevano
le medesime cure. Quando poi anch’io un poco cominciai a emergere dal flutto
della vita mondana, quegli mi accolse a braccia aperte, ma non riuscivo ancora
a mantenermi di fronte a lui nell’eguaglianza in che ero stato sempre per
l’innanzi. Poiché egli, superandomi d’età e dimostrando gran zelo, saliva più
in su di me ed era tratto ad altezze grandi. Tuttavia essendo egli buono e
facendo molto caso della mia amicizia, segregandosi da tutti gli altri
s’intratteneva continuamente con me; e anche prima egli avrebbe voluto farlo,
ma, come dissi, glielo impediva la mia indolenza. E per certo, uno che soleva
sedere a giudice nel dicastero e che andava pazzo per gli spettacoli del
teatro, non si sarebbe adattato a trovarsi sovente insieme con chi se ne stava di
continuo inchiodato sui libri senza mai dare neanche una capatina in piazza.
Per tal motivo egli stava separato da me; e poi che una buona volta mi ebbe
guadagnato allo stesso regime di vita, d’un tratto soddisfece il desiderio
concepito da lungo tempo, né tollerava d’abbandonarmi per ben che piccola parte
della giornata, e finì per esortarmi affinché, lasciando ciascuno di noi la
propria casa, avessimo ad abitare in comune; e a ciò m’aveva egli persuaso, e
già si stava per attuare il disegno.
La madre si oppone al ritiro di Giovanni con l’amico Basilio
II. Ma i continui
lamenti di mia madre mi impedirono di dare a lui questa consolazione, o
piuttosto, di ricevere da lui questo dono. Poiché, inteso ch’essa ebbe questo
mio disegno, prendendomi per mano mi condusse nelle sue stanze; indi fattomi
sedere vicino, sul letto nel quale ella mi aveva dato alla luce, cominciò a
versare copiose lacrime, e, più pietose delle lacrime, aggiunse poi le parole,
in simile modo meco lagnandosi: "Io, diceva, o figliolo, non potei godere
a lungo delle virtù di tuo padre ciò essendo piaciuto a Dio; poiché la morte di
lui che tenne dietro alla tua nascita, fece te orfano c piombò me in una
precoce vedovanza e nei malanni a quella connessi, tali che solo chi li ha
sofferti può adeguatamente comprenderli. Non si può immaginare a quale bufera e
a quale tempesta soggiace una fanciulla che, appena uscita dalla dimora paterna
e inesperta di affari, venga d’improvviso gettata in un cordoglio intollerabile
e costretta a sobbarcarsi a cure superiori all’età sua e alla sua stessa
natura. Deve infatti, io credo, sorvegliare la negligenza dei servi e porsi in
guardia dalle loro malizie; sventare le insidie dei parenti, tollerare
fortemente i soprusi degli esattori e la loro esosità nell’esigere il pagamento
delle imposte. Se poi il defunto si dipartì lasciando prole in tenera età, se è
una bambina, anche in tal caso ciò arreca molte preoccupazioni alle madri,
sebbene non incomba la necessità di grandi spese, né il timore dell’indigenza.
Ma se si tratta di un figlio maschio, la riempirà ogni giorno di mille timori e
di innumerevoli cure; lascio da parte i sacrifici di denaro che è costretta a
sostenete, volendogli procurate una distinta educazione. Ciò nonostante,
nessuna di queste difficoltà mi poté indurre a legarmi in seconde nozze e
introdurre un secondo marito nella dimora di tuo padre: ma mi rimasi sola nella
tempesta e nel turbine, né mi sottrassi al ferreo crogiolo della vedovanza, e
ciò anzitutto in forza dell’aiuto venutomi dall’alto, poi perché non piccola
consolazione mi recava in mezzo a quelle distrette, il vederti sempre a me
vicino e il serbarmisi in te vivamente riprodotto il gentile riflesso delle
sembianze del defunto; per questo e per essere tu ancora bambino né capace di
articolare parola, in quell’età nella quale maggiormente i figli sono di
diletto a’ parenti, mi fosti causa di grande consolazione. Né potresti
incolparmi d’aver io bensì sopportato fortemente la vedovanza, ma assottigliati
d’altra parte a te i beni paterni per sopperire alle necessita vedovili; cosa
che io vidi toccare a molti figli travagliati da orfanezza. Io tutte le tue
sostanze serbai intatte, mentre nulla risparmiai di ciò che occorreva spendere
per la tua educazione, sopperendovi con i miei beni e con la dote che recai
dalla mia casa. Né devi credere che io dica questo per fartene debito; ma in
compenso di ogni cosa ti chiedo un solo favore, di non infliggermi una seconda
vedovanza, né ridestare in me l’ambascia ornai sopita; aspetta sino a che io
muoia: forse fra poco me ne andrò. I giovani possono nutrire speranza di
giungere fino ad una tarda età, ma noi vecchi null’altro omai aspettiamo se non
la morte. Quando adunque m’avrai consegnata alla terra e riunita con le ossa
del padre tuo, allora intraprendi pure lunghi viaggi e naviga quel mare che ti
piacerà; niuno te ne farà ostacolo; ma fin che io respiro stattene a me vicino.
Né voler offendere senza ragione Iddio col procurare un tanto cordoglio a me
che niuna ingiuria t’ho arrecata. Poiché se tu puoi muovermi rimprovero che io
ti distragga fra cure materiali e ti costringa ad assumere la tutela della tua
sorte, in tal caso senza badare alle leggi di natura, né all’educazione da me
ricevuta, né all’intimità, né ad altra cosa qualsiasi, fuggimi pure quale
insidiatrice e nemica; ma se invece io faccio di tutto per renderti
massimamente agevole il cammino di questa vita, se altro non fosse, almeno
questo vincolo ti trattenga al mio fianco. Ché se pure innumerevoli altri tu
dica che ti sono amici, niuno ti permetterà di godere tanta libertà, poiché
nessuno v’è a cui tanto stia a cuore la tua onoratezza, come a me".
Basilio insiste nel suo proposito. Improvvisa designazione all’episcopato.
Giovanni si sottrae a insaputa dell’amico
III. Queste ed altre
cose ancor più toccanti disse la madre a me ed io riferii all’amico. Egli però,
non solo non se ne turbava, ma vie più insisteva nella proposta che prima mi
aveva fatta.
Mentre noi discutevamo
intorno a ciò, pregandomi egli continuamente e non avendo io per anco dato il
mio assenso, d’un tratto una certa novella che giunse al nostro orecchio ci
gettò ambedue nello sgomento: la novella era che noi avevamo da essere elevati
alla dignità dell’episcopato. Io all’udire ciò fui preso da timore e ansietà:
da timore di essere forzato anche contro mio volere; da ansietà perché non
potevo raccapezzarmi, per quanto cercassi, donde mai fosse venuta a quelle
persone una simile idea a mio riguardo; ché scrutando me stesso non trovavo
nulla che fosse meritevole di quella dignità. Frattanto quell’impareggiabile
amico recatosi da me in privato e confidandomi la cosa come se io nulla ne
avessi per anco udito, mi pregava che anche in questa circostanza noi dovessimo
dimostrarci di pieno accordo nell’agire e nel deliberare, come prima sempre
avevamo fatto; soggiungeva che egli m’avrebbe accompagnato in qualunque parte
avessi voluto condurlo, sia che fuggissimo, sia che dovessimo essere eletti.
Vedendo io pertanto il suo zelo, e stimando di recare danno a tutta la comunità
ecclesiastica qualora, a cagione della mia inettitudine privassi il gregge di
Cristo d’un giovane così buono e così adattato per esercitare il governo degli
uomini, non gli svelai il mio disegno riguardo a quella faccenda, sebbene per
lo innanzi non avessi mai sopportato che rimanesse a lui nascosta qualsiasi
parte delle mie intenzioni; ma dicendo che bisognava rimandare ad altro tempo
la decisione, poiché per allora la cosa non era urgente, lo ebbi tosto persuaso
di non pensare a ciò e di starsi tranquillo sul conto mio, che certo sarei
stato d’accordo con lui qualora ci trovassimo in simile circostanza. Trascorso
non molto tempo, giunto colui che doveva consacrarci ed essendomi io nascosto,
egli non sapendo nulla di ciò, venne condotto via con una ragione plausibile;
ricevette pertanto il giogo, confidando, da quanto gli avevo promesso, che io
l’avrei senz’altro seguito, anzi credendo di venirmi addietro. E intanto alcuni
fra i presenti, vedendolo triste per esser stato preso, lo ingannarono dicendo
essere cosa strana che colui il quale sembrava a tutti più impetuoso, e
alludevano a me, cedesse con molta calma al giudizio dei padri, e al contrario
colui che era più assennato e modesto s’incaponisse e riluttasse, agitandosi,
ricalcitrando e contraddicendo. Avendo poi egli ceduto a queste parole, appena
seppe che io ero fuggito, venne presso di me, e dopo essersi rimasto a lungo
costernato, alfine si sedette vicino e voleva pur dire qualcosa, ma
trattenutone dall’ansietà, né potendo adeguare colla parola l’agitazione da cui
era preso, tosto che apriva la bocca per parlare, n’era impedito, essendo la
parola troncata dalla confusione prima di uscire fuori dai denti. Vedendolo io
pertanto lacrimoso e tutto ripieno di turbamento e sapendone la cagione, mi
posi a ridere per il gran piacere che provavo, e tenendogli la destra mi
sforzavo di baciarlo, lodando Iddio che avesse fatto riuscire bene il tranello
e secondo il mio desiderio. Ma egli come mi vide raggiante di gioia, e come
prima intese d’essere stato da me ingannato, più fortemente si rodeva e si
adontava.
Lagnanze di Basilio per l’inganno dell’amico
IV. Alfine riavutosi
alquanto da quel turbamento di spirito: "Se anche, disse, hai posto in non
cale i fatti miei e ormai non fai più nessun conto di me, per qual motivo non
so, dovevi pur darti pensiero almeno della tua riputazione. Ora hai aperto le
bocche di tutti, e ognuno va dicendo che tu hai rifiutato questo ministero per
mondano attaccamento, né v’è alcuno che pensi a scolparti da simile accusa. A
me poi non dà l’animo neanche di mostrarmi sulla piazza, tanti sono quelli che
mi vengono incontro e ogni giorno mi fanno rimproveri. Se poi mi vedono
apparire in qualche parte della città, prendendomi a quattr’occhi quanti sono
con noi in rapporti di familiarità, versano su di me la maggior parte delle
accuse. Poiché, dicono, conoscendo tu la sua intenzione né a te era mai
nascosto nulla de’ suoi disegni non dovevi celarla a noi, ma rendercene
informati; chè non ci sarebbe affatto mancato il mezzo di prenderlo. Onde io,
che proprio ignoravo che tu da lungo tempo andassi maturando tale progetto, mi
vergogno e arrossisco di rispondere a coloro, per timore che non abbiano a
stimare la nostra una finta amicizia. E se anche è così, come non v’ha ormai
dubbio, né potresti negarlo dopo quello che mi hai fatto, è pur cosa prudente
il celare le nostre magagne agli altri, che hanno buona opinione di noi. Io
rifuggo adunque dallo spiattellare loro in faccia la verità, dicendo come
stanno fra noi le cose; sono quindi costretto a tacere e chinare gli occhi a
terra, cercando di evitare e fuggire gli incontri, Ma se io pure sfuggirò alla
prima accusa, sarò poi tacciato di menzogna, perché certo non vorranno credere
mai che tu abbia collocato Basilio al livello di coloro ai quali non è lecito
confidare i tuoi secreti. Or non voglio far troppe parole su ciò, poiché a te è
così piaciuto; ma riguardo al resto, come potremo noi sopportare la vergogna?
chi ti accusa di arroganza, chi di vanagloria; quelli poi fra i nostri
accusatori che si mostrano più accaniti, ti addossano l’una e l’altra colpa, e
aggiungono che tu hai fatto ingiuria a quelli che ti avevano proposto alla
dignità. Aggiungono ancora esser ben giusto che quelli soffrano tale affronto
da noi e che ne meriterebbero di maggiori; perché lasciati da parte tanti e
tali altri candidati, prendono fanciulli ancor ieri e ieri l’altro ingolfati
nelle affezioni mondane, e se appena abbiano per qualche tempo portato in giro
gli occhi bassi, vestito panni bruni e ostentato compunzione, d’improvviso li
elevano a una si augusta dignità, a cui neppure avrebbero sognato di giungere
mai; mentre uomini che hanno durato in penitenza dalla prima età fino
all’estrema vecchiezza, rimangono fra i sudditi, e comandano a loro gli imberbi
che potrebbero esser loro figli, ignari delle leggi secondo le quali si deve
questo governo esercitare. Queste ed altrettali dicerie ripetendo, mi stanno
continuamente ai panni. Io non ho che rispondere in difesa a queste
imputazioni, e però ti prego di suggerirmelo. Poiché io non credo già che tu
abbia perpetrata questa tua fuga ingenuamente e senza un piano premeditato,
affrontando l’inimicizia di sì alti personaggi, ma che ciò tu abbia fatto con
qualche calcolo riflesso e con qualche idea preconcetta; onde io mi penso che
avrai pronti gli argomenti per la tua difesa. Di’ adunque, se v’è qualche
giusto pretesto che possiamo addurre ai nostri accusatori. Dell’ingiuria da te
arrecatami non cerco alcuna ragione, né per avermi ingannato, né per avermi
tradito, né di quanto nel passato ho fatto per te. Io veramente avevo preso,
per così dire, l’anima mia e postala nelle tue mani; tu invece hai usato meco
in guisa tanto subdola, come se avessi dovuto porti in guardia da un nemico.
Per certo, se riputavi vantaggiosa questa nostra elezione, non dovevi privare
te di tale vantaggio; se poi la credevi dannosa, dovevi allontanare il danno
anche da me, che pur dicevi di apprezzare più d’ogni altro. Invece facesti il
possibile per farmici cascare, e ti fu mestieri dell’inganno e della finzione
verso chi soleva sempre fare e dire ogni cosa con te senza sotterfugi e con
piena sincerità. Ma, come ho detto, non voglio rampognarti di questo ora, né
rimpiango la solitudine in cui mi hai posto, troncando quelle conversazioni
comuni, da cui sì gran piacere e non piccolo vantaggio tante volte ritraemmo.
Lascio da parte ogni cosa, sopportando in silenzio e mitemente: già non facesti
mitemente tu, ponendomi in non cale; ma da quel giorno in cui ricambiai
d’affetto la tua amicizia, mi ero imposto questa legge, di non chiederti
ragione di qualunque offesa piacesse a te di recarmi. Che poi non lieve danno
tu m’abbia inflitto, lo sai tu stesso, seppure ti sovviene delle parole che gli
estranei dicevano di noi e di quello che noi stessi dicevamo: cioè che grande
vantaggio era per noi l’essere concordi e il farci riparo della reciproca
affezione. E gli altri tutti asseveravano che pur a molti non poco frutto
avrebbe portato la nostra unanimità. Io per vero non mi pensavo, per quanto
dipendeva da me, di portar frutto ad alcuno; ma ben ritenevo che assai ci
avrebbe giovato per non essere agevolmente sopraffatti da coloro che avessero
voluto muoverci guerra. E non cessavo mai di ricordarti che l’età nostra è
perversa; molti ci tendono insidie; l’amore sincero è sparito e vi è sottentrata
la peste della gelosia; procediamo in mezzo ai tranelli e siamo esposti come
coloro che combattono sugli spalti della città. Numerosi e da molte parti
sopraggiungono quelli che sono pronti a rallegrarsi dei nostri mali, qualora
alcuno ce ne accada, e niuno v’è che alle nostre sciagure vorrebbe partecipare,
o pochissimi per certo. Guardati pertanto che, essendo noi discordi, non ci
tocchi gran derisione, o peggio ancora, qualche malanno. "Il fratello
sorretto dal fratello è come città forte e come un regno sbarrato"(Prv.
23,19); non voler dissolvere questa fraternità sincera, né infrangere la barra.
Queste e molte altre cose io ti venivo sempre dicendo, nulla sospettando mai di
simile, ma stimando i tuoi sentimenti verso di me saldi e intatti, e volendo
suggerire rimedi non necessari a uno spirito sano; non mi pensavo certo, come
sembra, che porgevo medicine a chi in realtà era malato. Ma, misero me, che
neppure così trassi giovamento, né m’ebbi miglior sorte per questa mia gran
previdenza! Gettando via in un fascio tutti quegli ammaestramenti, anzi neppur
accogliendoli nel cuore, spingesti me inesperto in mezzo al pelago, come una
nave priva di zavorra, senza pensare alle fiere tempeste che dovrò sostenere.
Ché se mi occorrerà talora d’aver a sopportare calunnia o scherno o altra
insolenza ed oltraggio ed è forza che. ciò m’accada, presso chi potrò cercare
rifugio? a chi confidare i miei timori? chi vorrà assumere la mia tutela e,
reprimendo gli oltraggiatori e impedendo loro di più oltre farmi ingiuria, mi
conforterà e mi aggiungerà lena per tollerare l’ignoranza altrui? Nessuno v’è
ormai, poi che tu ti rimani lontano da questo fiero o conflitto, né ti dà
l’animo di udirne pur anco il frastuono. Or comprendi qual male hai commesso?
riconosci ora, dopo aver inflitto il colpo, qual mortale ferita mi recasti? Ma
questo lasciamolo, ché non si può disfare quel che oramai è fatto, né è dato
trovare l’adito quand’è chiusa ogni via. Dimmi piuttosto: che cosa ho da dire
agli estranei? come rispondere alle loro accuse?".
Fine del prologo. Prima parte della difesa di Giovanni. L’inganno può
essere opportuno e lecito
V. Fa’ cuore, dissi,
non solo sono pronto a dar ragione di tutto, ma mi studierò di giustificarmi,
come saprò meglio, anche di quello onde mi accusi senz’ammettere
giustificazione. Anzi, se ti piace, da questo appunto prenderò la mia difesa,
perché sarebbe cosa sconveniente e molto irragionevole se, preoccupandomi
dell’opinione degli estranei e adoperandomi in ogni modo per distruggere le
imputazioni che ci muovono, non riuscissi a tranquillizzare il mio più diletto
amico (colui che pur dicendosi da me ingiuriato, usò meco tanta moderazione da
non voler neppure chiedermene conto, ma dimenticando le sue querele si
preoccupa solo de’ fatti miei), dimostrandogli che non gli ho fatto alcuna
ingiustizia; e sembrassi per tal modo più trascurato a suo riguardo di quanto
egli si mostrò sollecito verso di me. In che dunque ti ho fatto ingiuria?
Poiché da questo punto ho deciso di muovere nel pelago della mia difesa; gli è
dunque perché t’ho ingannato e t’ho celato la mia intenzione? Ma io ti dico che
ciò fu per tuo vantaggio e per vantaggio di coloro ai quali io ti ho consegnato
mediante l’inganno. Infatti, se in ogni caso la frode è un male e in nessuno
modo mai è da farne uso, allora io sono pronto a subire la pena che a te
piacerà di richiedere; o meglio, poiché tu non sosterresti di infliggermela, io
stesso pronuncerei contro di me quella condanna che i giudici recano contro i
colpevoli quando questi vengono presi da’ loro accusatori. Se invece la frode
non è sempre dannosa, ma diviene buona o cattiva a norma dell’intenzione di chi
l’adopera, cessando di imputarmi l’inganno, tu devi dimostrare che questo io
feci per tuo svantaggio; che se ciò non è, lungi dal muovere. biasimi e
querele, le persone assennate dovrebbero per giustizia saper grado
all’ingannatore. Ora l’inganno ben adoperato e applicato con retta intenzione è
talmente vantaggioso, che molti dovettero spesso sottostare a pena per non
averlo messo in opera.
Esempio tolto dall’arte militare
VI. Se ti piace di
cercare fra i capitani da lunga pezza celebrati, troverai che la maggior parte
di loro vittorie fu effetto di stratagemmi e vedrai pure che sono più lodati
costoro di quelli altri i quali vinsero pugnando in campo aperto. Questi
infatti pagando la vittoria con molto dispendio di denaro e di uomini, diedero
vantaggio al nemico, di guisa che nulla giovò loro l’aver vinto, ma i vincitori
furono in non minore angustia dei vinti, per via dei soldati da loro perduti e
dell’erario esaurito. Inoltre non è dato loro di godersi la gloria delle armi,
perché non piccola parte di essa tocca ai caduti nella battaglia i quali, pur
vinti nei corpi, rimangono tuttavia vincitori nelle anime, e se era dato loro
di serbarsi incolumi fra i colpi dei nemici e sfuggire così alla morte, non
avrebbero certamente rallentato di coraggio. Ma il duce che riuscì a vincere
mediante l’inganno, infligge ai nemici, oltre lo scacco, la derisione; perocché
la lode di sagacia non tocca questa volta ad ambedue le parti come la lode
della forza nel primo caso, ma qui il premio è tutto intero dei vincitori, e,
ciò che non vale meno, essi serbano intera alla città la gioia della vittoria.
Sono infatti cose diverse la ricchezza e il numero dall’accortezza della mente:
quelle, col continuo usarne durante la guerra, si dissipano e lasciano
all’asciutto i loro possessori; questa invece quanto più uno l’adopera, tanto
più aumenta. Né solo durante la guerra, ma anche in tempo di pace può esservi
grande e urgente bisogno d’usare l’inganno, non solo nei pubblici affari, ma
anche in casa la moglie verso il marito e viceversa, il padre verso i figli,
l’amico con l’amico e pur verso il padre i figlioli. La figlia di Saul non
riuscì a trarre suo marito dalle mani del padre suo, se non usando verso di lui
l’inganno. Il fratello di lei poi, volendo a sua volta salvare dal pericolo
estremo quegli che già da lei era stato salvato, nuovamente pose in opera le
stesse armi a cui la donna aveva ricorso.
Esempio tolto dall’arte medica
VII. Qui Basilio: Ma
ciò non mi riguarda punto, disse; poiché io non sono per te nemico né
avversario, né del numero di coloro che perpetrano l’ingiustizia, ma tutto
all’opposto: perché essendomi io rimesso sempre al tuo consiglio, ti seguii là
dove tu avevi indicato.
Ottimo e
impareggiabile uomo, soggiunsi, appunto per questo io dissi prima che non solo
in guerra ne solo contro i nemici, ma anche in pace e coi più intimi è buona
cosa usare la frode. Per persuaderti poi che questa giova non solo a chi
l’adopera, ma pure a chi la subisce, va’ e domanda a qualche medico con quali
mezzi essi liberano gl’infermi dai loro malanni, e udrai che non solo con
l’arte allontanano i morbi, ma che vi sono casi nei quali appigliandosi allo
stratagemma e venendo con esso in soccorso all’arte, possono talora ricondurre
l’infermo a sanità. E infatti, quando l’irritabilità dei malati e la perversità
del male stesso non s’adattano ai consigli dei medici, allora é mestieri
vestire la maschera dell’inganno per celare la vera natura delle cose, come
accade sulle scene. Ti narrerò, se ti piace, uno stratagemma fra i molti che
udii essere stati usati dai cultori dell’arte medica. Era sopraggiunta a un
tale d’improvviso una gran febbre e l’ardore andava crescendo; il malato
rifiutava i calmanti che gli si davano per sedarla e pregava con molta
insistenza chi si recava a fargli visita, affinché gli porgesse vino in copia e
gli desse di poter saziare quella brama mortale. Or chi gli avesse soddisfatto
questo desiderio, non solo gli avrebbe vie più accesa là febbre, ma avrebbe
gettato quell’infelice in preda al delirio. Allora, vacillando l’arte né avendo
alcun rimedio ed essendo posta al tutto da un canto, vi sottentrò l’inganno,
facendo prova di sua benefica efficacia, come tosto udrai. Il medico, preso un
vaso di terra cotta uscito di fresco dalla fornace, lo immerse in grande
quantità di vino; indi trattolo fuori vuoto e riempitolo d’acqua, ordina di
oscurare con molte tende la stanza ove giaceva l’infermo, affinché la luce non
palesasse l’inganno, e gli porge quindi il vaso da bere, come se fosse pieno di
vino puro. Quegli, prima ancora di averlo tra mano, subito ingannato dal
profumo che se ne spandeva, non sofferse neppure d’investigare su ciò che gli
era porto, ma fidandosi all’odore e illuso dall’oscurità, spinto dalla brama
tracannò con grande avidità il liquido e saziatosi spense tosto l’ardore che lo
soffocava, scampando così dal pericolo imminente. Vedi il vantaggio
dell’inganno? Ché se si volesse addurre tutti gli stratagemmi dei medici, non
la si finirebbe più. Né solo coloro che curano i corpi, ma anche fra coloro che
danno opera a curare le infermità spirituali, si può trovarne di quelli che
spesso usarono tale rimedio. Con questo infatti il beato Paolo acquietò quella
moltitudine di Giudei; con tale intenzione pure circoncise Timoteo colui il
quale aveva mandato a dire ai Galati che Cristo non avrebbe giovato per nulla
ai circoncisi; onde si sottopose alla Legge colui stesso che stimava un danno
la giustificazione della legge dopo la fede in Cristo. Grande è invero
l’efficacia dell’inganno, purché non venga adoperato con intenzione maligna;
anzi non inganno si deve dire questo modo di agire, ma piuttosto una certa
economia e saggezza, un’arte capace di trovare molte vie d’uscita nei luoghi
impervi, e di correggere anche le negligenze dell’anima. Poiché io non
chiamerei omicida Finees, sebbene d’un sol colpo uccidesse due persone; e
neppure Elia in seguito ai cento soldati e a’ loro duci, e al torrente di sangue
che fece scorrere con la strage dei sacerdoti idolatri. Che se ciò ammettiamo e
se le azioni di coloro che quelle cose compirono, si considerano per se stesse,
separatamente dall’intenzione, taluno potrà, se gli talenta, chiamare Abramo
uccisore di suo figlio, ed il nipote ed il discendente di lui parimenti
incolperà di misfatto e d’ingiustizia: perocché in tal guisa l’uno conquistò la
precedenza naturale e l’altro trasferì le ricchezze degli Egizi nell’esercito
degli Israeliti. Ma no, non é certo così: lungi tale empietà! Ché non solo li
riteniamo incolpevoli, ma anzi, per queste stesse loro azioni li ammiriamo,
poiché Dio stesso ne li lodò. Ed invero si deve chiamare giustamente
ingannatore colui che usa il ripiego con fine ingiusto, non chi vi ricorre con
retto consiglio. Ma d’altra parte spesso torna utile l’ingannare, per ritrarre
da tale artificio i maggiori vantaggi: onde colui che vi s’induce con retto
fine, cagionerebbe gravi mali a chi non venisse ingannato.
L’inganno diede occasione a Basilio di manifestare il suo amore a Gesù
Cristo
I. Avrei potuto dire
molto di più per dimostrare che si può usare l’efficacia dell’inganno anche in
bene, e che questa non dovrebbe chiamarsi frode, ma piuttosto una certa
mirabile economia. Ma poiché le cose dette sono ormai sufficienti per darne la
prova, sarebbe importuno e noioso il protrarre più a lungo il discorso.
Toccherebbe ora a te il dimostrare che io ho usato un tal mezzo contro al tuo
vantaggio.
E Basilio: Ma quale
vantaggio, disse, mi recò questa tua economia o saggezza o come meglio ti
piaccia di chiamarla, perché io debba credere che in realtà non fui da te
ingannato?
E qual maggior
guadagno, soggiunsi, che l’essere veduti a compiere quelle opere che Cristo
stesso disse essere segni dell’amore a Cristo, E per vero, rivolgendosi al
corifeo degli Apostoli: Pietro, dice, mi ami tu? e affermandolo questi,
soggiunge Cristo: Se mi ami, pascola le mie pecore. Il maestro interroga il
discepolo se lo ama, non già per esserne informato, come ne avrebbe avuto
bisogno colui che penetra i cuori di tutti? ma per insegnare a noi quanto gli
stesse a cuore il governo di questo gregge. Ora, essendo ciò palese, sarà pur
palese la conseguenza, cioè che grande e incomparabile mercede sarà serbata a
chi si dedica a quest’impresa, che tanto è apprezzata da Cristo. Che se noi,
qualora vediamo alcuno prendersi cura dei nostri armenti, consideriamo come
segno di affezione verso di noi la cura usata verso di quelli, sebbene si
tratti di cose acquistate con denaro; colui che ha riscattato questo gregge non
con ricchezza od altro valore, ma con la sua propria morte e ne diede in prezzo
il suo stesso sangue, con qual mercede ricambierà quelli che si occupano nel
pascolare questo gregge stesso? Per ciò appunto, avendo il discepolo risposto:
Tu sai, o Signore, che io ti amo, chiamando l’amato stesso in testimonio del
suo amore, il Salvatore non si accontentò solo di questo, ma aggiunse la
dimostrazione dell’amore. Non voleva già Egli allora che Pietro gli significasse
la proporzione dell’amor suo, ciò è a noi noto per molti indizi, ma Voleva
dimostrare piuttosto quanto Egli ami la sua Chiesa; e volle che Pietro e tutti
noi lo apprendessimo, affinché ancor noi le dedicassimo tutte le nostre cure.
Per qual ragione infatti Dio non risparmiò il suo unigenito figliolo, ma quel
solo che aveva lo donò? certo per riconciliare a sé coloro che gli s’erano
inimicati e formare un popolo scelto. Per qual motivo poi Cristo versò il suo
sangue? certo per riacquistare quelle pecore che ha affidate a Pietro e a’ suoi
successori. A buon diritto e giustamente pertanto disse Cristo: "Chi é mai
quel servo fedele e prudente, che il suo padrone preporrà alla sua casa?".
Di nuovo le parole sono come di chi dubita; però Colui che le pronunziava non
dubitava punto, ma siccome quando chiese a Pietro se lo amava, non lo fece per
bisogno che avesse di scrutare i sentimenti del discepolo, ma perché voleva
dimostrare la grandezza del suo proprio amore, così pur ora dicendo: Chi é mai
il servo fedele e prudente? Non lo dice perché ignori in realtà chi sia il
fedele e saggio servitore, ma volendo far rilevare quanto scarso ne sia il
numero e quanto grande sia questo ministero. Vedi ora quanto ne sia il premio:
"Lo preporrà a tutte le sue sostanze" (Mt. 24, 47).
Il ministero pastorale é la miglior prova d’amore a Cristo, Esso non é
impresa da tutti, ma solo di pochi eletti
II. Dunque dubiterai
ancora che io non t’abbia felicemente ingannato, mentre stai per esser posto a
capo di tutti gli interessi di Dio e compiere quelle opere, compiendo le quali
Pietro, a detta di Cristo, avrebbe sorpassato gli altri Apostoli? Dice infatti:
"Pietro, mi ami tu più di costoro? pascola le mie pecore". Poteva per
altro dirgli: "Se mi ami, pratica il digiuno, il sonno su nuda terra, le
vigilie ininterrotte, assumi la difesa degli oppressi, sii come padre agli
orfani e come marito alle madri loro"; invece, lasciando da parte tutte
queste cose, che dice? Pascola le mie pecore. E per vero le altre opere che
sopra ho dette, possono compierle agevolmente anche molti fra i sudditi, non
solo uomini, ma donne ancora; trattandosi invece di soprastare alla comunità
dei fedeli e d’essere incaricati della guida di tante anime, ceda il posto
tutto i; sesso femminile e anche la maggior parte degli uomini, di fronte alla
grandezza dell’impresa; si traggano innanzi quelli che di gran lunga superano
tutti gli altri e sono tanto più eccelsi per virtù dell’anima, quanto Saul
superava nella statura tutto il popolo Ebreo, anzi, assai più. Ché non si deve
in tal caso cercare solamente se alcuno emerga dagli omeri in su, ma quale è la
distanza che corre fra i bruti e gli esseri ragionevoli, tale è la proporzione
fra il pastore e la greggia; per non dir di più, ché il rischio versa intorno a
cose ben maggiori. Poiché colui che perde le pecore per rapina di lupi o per
sopraggiungere di ladri, o in causa di qualche morbo o per altro qualsiasi
accidente, riceverebbe pur qualche perdono dal padrone della greggia; e qualora
fosse richiesto di ammenda, il danno si limita alle sostanze. Ma quegli a cui
vennero affidati gli uomini, il gregge razionale di Cristo, in pena per la
rovina delle pecore deve anzitutto sottostare non a danno di sostanze, ma della
sua propria anima. Inoltre deve durare una lotta assai maggiore e più fiera.
Non deve egli infatti combattere contro lupi, né ha a temere di predoni, né a
darsi pensiero d’allontanare dal gregge qualche morbo; ma contro chi è la sua
guerra? con chi la sua battaglia? ascolta ciò che dice il beato Paolo:
"Non abbiamo da lottare con la carne e col sangue, ma con i prìncipi e
colle potestà, con i dominanti di questo mondo tenebroso, con gli spiriti
maligni dell’aria" (Ef. 6,12). Vedi la moltitudine terribile dei nemici e
le feroci falangi, non corazzate di ferro, ma tali a cui è sufficiente la
propria natura invece d’ogni arma? Vuoi tu vedere un altro esercito orribile e
feroce che assedia questo gregge? lo scorgerai dalla stessa vedetta; colui che
ha parlato di quei nemici, colui stesso ci svela questi altri, così dicendo, in
altro luogo, che sono palesi le opere della carne quali siano: prostituzione,
adulterio, impurità, sfrontatezza, idolatria, sortilegio, inimicizie, contese,
invidie, iracondia, sedizioni, oltraggi, maldicenze, orgoglio, sommosse e altre
più ancora, poiché non le nominò tutte, ma da queste lasciò intravedere le
rimanenti.
Non si possono trattare gli uomini come le pecore
E quanto al pastore di
bestie, quelli che mirano alla strage del gregge, qualora vedano fuggire il
custode, smessa la lotta contro di lui, si accontentano della rapina degli
animali; qui invece, se pur abbiano presa tutta la greggia, neanche allora
risparmiano il pastore, ma vie più gli sono sopra e vie più imperversano, né
cessano prima
d’averlo vinto o
d’esserne stati vinti. Aggiungi a tutto questo, che le malattie degli animali
sono palesi, sian essi offesi da morbo o da fame o da ferita o da checché
altro; né ciò conferisce poco a togliere di mezzo la cagione del male. Un’altra
circostanza poi v’è, che agevola la rapida liberazione da quelle infermità;
quale? i pastori costringono con molta padronanza le pecore ad accogliere la
medicazione, qualora quelle non vi sottostessero di buon grado; onde torna
facile il legarle quando sia d’uopo cauterizzare o tagliare; facile parimenti
il farle stare a lungo rinchiuse, quando ciò sia di giovamento; il porgere un
cibo invece d’un altro, il trattenerle da certi paschi, e tutte le altre cure
che giudicassero conferire alla loro guarigione, viene loro fatto di applicarle
con grande facilità.
III. Invece le
infermità degli uomini, non è anzitutto agevole ad uomo lo scorgerle, poiché
"nessuno conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in
lui" (1Cor. 11,11). Or come potrebbe uno applicare la medicina a un male
di cui non conosce la natura, e mentre spesso non gli è dato neppur di sapere
se altri sia o no ammalato? E quando pure ciò sia divenuto palese, allora
appunto gli offre le massime difficoltà; poiché non è possibile curare tutti
gli individui con la stessa libertà con la quale il pastore cura una pecora:
v’è bene anche qui la facoltà di legare, d’interdire l’alimento, di bruciare e
tagliare; ma la facoltà di accogliere il rimedio risiede non in chi porge la
medicina, sebbene nell’infermo stesso. Ciò ben sapendo quel mirabile uomo disse
ai Corinzi: "Non perché noi facciamo da padroni sopra la vostra fede, ma
cooperiamo alla vostra consolazione"(2Cor. 1,24). Soprattutto poi ai
Cristiani non è permesso di correggere a forza gli errori dei colpevoli. I
magistrati civili, quando sottopongono i malfattori alla norma delle leggi,
fanno mostra di grande potestà e sforzano i riluttanti a mutare i loro costumi;
qui invece tali individui debbono essere corretti con la persuasione anziché
con la violenza. Perocché non ci è conferita dalle leggi questa facoltà per
ritrar dal male i colpevoli, e quand’anche ce l’avessero conferita non avremmo
dove usare la forza, dando Dio la corona non a chi lascia il male per
necessità, ma a chi lo lascia per sua libera scelta. Onde v’è bisogno di grande
abilità per far sì che gl’infermi si persuadano a sottoporsi volentieri alle
cure dei sacerdoti, né questo solo, ma ancora perché vedano il vantaggio che la
cura loro arreca. Ché se alcuno legato ricalcitra, ed è in suo potere il farlo
ne viene un male peggiore; e se non farà conto di certe parole taglienti come
ferro, con lo spregio viene ad aggiungere un’altra piaga, onde il pretesto
della cura diviene occasione di più grave malattia. Poiché non vi è chi lo
possa costringere e curarlo contro sua voglia.
Il rimedio deve essere proporzionato al male
IV. Che dunque s’avrà
da fare? Poiché se usi troppa delicatezza con chi ha bisogno di molti tagli, e
non fai un’incisione profonda a chi n’ha d’uopo, avrai asportato solo una parte
della ferita lasciandovi l’altra parte. Se poi senza esitazione applichi il
taglio necessario, spesso l’ammalato disperando del suo male, gettata via in un
fascio ogni cosa, e medicina e fasciature, finì per gettarsi a capofitto,
spezzando il giogo e rompendo i legami. Potrei narrare di molti che dettero in
mali estremi per essere stati sottomessi alla pena dovuta alle loro colpe.
Poiché non si deve applicare il castigo soltanto in ragione della grandezza dei
falli, ma si deve pur tenere conto dell’intenzione dei colpevoli, affinché non
t’accada, volendo rattoppare uno squarcio, di produrne uno più grande e che,
tentando di rialzare ciò che è caduto, tu produca una caduta peggiore. 1
deboli, divagati e per lo più schiavi della mollezza mondana, e che inoltre
hanno di che inorgoglire per nascita e potenza, corretti dei loro mancamenti
dolcemente e poco per volta, potrebbero pure, se non in tutto almeno in parte,
purgarsi dei vizi da cui sono dominati; se invece uno applica loro d’un tratto
l’ammonizione, li avrà privati anche di quel minore miglioramento. Ché l’anima,
spinta una volta all’impudenza, diventa insensibile, né più si lascia muovere
dalle parole dolci, né piegare dalle minacce, né eccitare dai benefici, ma
diviene assai peggiore di quella città a cui il profeta, riprovandola, dice:
"Hai assunto aspetto di meretrice, né alcuno più tifa arrossire"
(Ger. 3,3). Per ciò il pastore ha bisogno di molta prudenza e di infiniti occhi
onde scrutare in ogni parte le condizioni di un’anima. Perocché come molti
salgono in arroganza e cadono in disperazione della propria salvezza, non
potendo adattarsi a medicine amare; così vi sono di quelli che per non aver
subìto un castigo proporzionato ai loro mancamenti, cadono nell’indifferenza,
diventano molto peggiori di prima e sono incitati a commettere colpe più gravi.
Bisogna pertanto che il sacerdote non trascuri di esaminare ognuna di queste
circostanze, ma tutto diligentemente scrutando, faccia quanto è in suo potere
secondo l’opportunità affinché la sua cura non gli divenga inutile.
Come ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite
Né soltanto in questo,
ma anche nel riunire i membri separati dalla Chiesa uno si troverà ad aver
molto da fare. Il pastore di pecore ha il gregge seguace dovunque esso venga
condotto: che se qualche capo si svia dal retto cammino, e lasciato il buon
pascolo, va a cibarsi in luoghi infecondi e ripidi, gli basta dar un grido più
forte, per raccogliere di nuovo e riunire al gregge la parte che se n’era
divisa; se invece un uomo viene trascinato lungi dalla retta fede, fa d’uopo al
pastore di molto lavorio, di fortezza, di tolleranza. Non deve trascinarlo a
forza né costringerlo con timore, ma per via di persuasione egli dev’essere
ricondotto a quella verità dalla quale prima s’era allontanato. V’è bisogno
quindi di un’anima generosa, onde non si smarrisca né disperi della salvezza
degli erranti, onde consideri e ripeta continuamente quel detto: "...nella
speranza che Dio conceda loro la vera conoscenza e si liberino dalla rete del
diavolo" (2Tim. 2,25). Per questo il Signore parlando ai discepoli disse:
"Chi è dunque il servitore fedele e prudente?" (Mt. 24,45). Poiché
colui il quale attende a sé solo, converte a sé tutto il vantaggio, mentre
invece l’utilità del ministero pastorale si estende a tutto il popolo. Colui poi
che largisce denaro a’ bisognosi, o in altra guisa assume la tutela degli
oppressi, costui per certo reca qualche utilità al prossimo, ma tanto minore
del sacerdote, quanta è la distanza che corre fra il corpo e l’anima. A ragione
dunque il Signore disse la cura prodigata al gregge essere segno dell’amore
verso di Lui.
Intermezzo I
Perché Giovanni fuggì la dignità e vi spinse invece l’amico.
Virtù di Basilio proclamate da Giovanni
V.: "Ma tu, disse, non ami Cristo?".
"L’amo (risposi)
né mai cesserò di amarlo; ma temo di muovere a sdegno il mio Diletto".
"E quale enigma,
soggiunse, potrebbe darsi più oscuro di questo? Ché mentre Cristo a chi lo ama
impose di pascolare le sue pecore, tu dici di non volerle pascolare, appunto
perché ami Colui che ciò ha comandato".
"Non è un enigma,
ripresi io, il mio discorso, ma anzi è al tutto chiaro e semplice. Ché se io
avessi fuggito questa dignità pur avendo le qualità necessarie per esercitarla
come vuole Cristo, allora potrebbe nascere dubbio su quanto io ho detto; ma
poiché la debolezza dell’anima mi rende inetto a questo ministero, come possono
le mie parole suscitare discussione? E per vero io temo che ricevendo il gregge
di Cristo prosperoso e ben nutrito, e facendolo deperire con la mia
inettitudine, non ecciti contro di me quel Dio che tanto l’amò, fino a dare se
stesso per la sua salvezza e per il suo riscatto".
"Tu scherzi
dicendo tali cose, mi disse, ché se fai sul serio non so come avresti potuto in
altro modo dimostrare la giustezza delle mie ansietà, meglio che con queste
parole, con le quali tentavi di rimuovere la mia trepidazione. Già prima
convinto che tu m’avevi ingannato e tradito, ora che t’accingesti a scagionarti
dalle accuse, io comprendo ancor meglio in quale abisso di sciagure m’hai
gettato. Ché se tu ti sottraesti da questo ministero perché conoscevi
l’insufficienza delle tue forze a sopportarne il peso, io per il primo dovevo
esserne allontanato, anche se per caso me ne avesse preso gran desiderio; oltre
di che io avevo pur rimesso a te ogni divisamento riguardo a queste cose. Ora
invece, solo curandoti de’ fatti tuoi trascurasti la mia sorte; e almeno
l’avessi proprio trascurata, ché mi sarebbe stato caro: ma invece sei ricorso
all’insidia per rendermi facile preda di coloro che m’avevano appostato. Né puoi
ricorrere al pretesto che la fama circolante fra i più ti trasse in inganno e
ti fece concepire una grande e mirabile opinione di me; io non sono del numero
di quelli che destano meraviglia e attirano l’attenzione; né, se anche ciò
fosse, è da preporre l’opinione del volgo alla realtà delle cose. Se io non
t’avessi fornito mai l’esperienza della mia compagnia, pare che un ragionevole
pretesto l’avresti avuto per giudicare a norma dell’opinione comune; ma dal
momento che nessun altro conosce siffattamente le cose mie, ma a te è nota
l’anima mia più ancora che a quelli che mi hanno generato e allevato, quale
ragione tanto persuasiva potresti addurre per convincere chi t’ascolta, che
contro tua intenzione mi hai spinto a questo cimento? Ma lasciamo ora da parte
ciò; non voglio per questi fatti sottoporti a rigoroso giudizio. Dimmi ormai:
che cosa risponderemo ai nostri accusatori?".
"Per certo,
risposi io, non verrò a quest’argomento, fino a che non avrò terminato quanto
riguarda te, anche se mille e mille volte mi richiedessi di purgarmi dalle
altre accuse. Tu dicesti che l’ignoranza mi otterrebbe perdono e mi
assolverebbe da ogni accusa, se non conoscendo i fatti tuoi t’avessi spinto
nella tua presente condizione, e che ogni giusto pretesto e ogni legittima difesa
mi è interdetta, avendoti tradito, non già perché fossi al buio delle cose tue,
ma essendone pienamente edotto. Io dico invece affatto il contrario: e perché?
perché simili faccende richiedono lunga ricerca, e chi intende proporre un
candidato degno del sacerdozio, non deve appagarsi unicamente dell’opinione del
volgo, ma insieme deve egli stesso, più di tutto e prima di tutto, investigare
la vita di quello. E per vero, il beato Paolo dicendo: "Fa d’uopo ancora
che egli sia in buona riputazione presso gli estranei" (1Tim. 3,7), non
esclude l’indagine diligente e minuziosa né propone il criterio della buona
fama come indizio capitale nel giudicare dell’idoneità di tali candidati.
Infatti dopo aver discorso di molte cose, alla fine aggiunge questa norma, per
mostrare che non di essa sola conviene appagarsi in tali scelte, ma questa si
deve adottare insieme alle altre. Non raramente avviene che la comune opinione
s’inganni; ma con la scorta d’una diligente indagine, non v’è più a temere da
quella alcun pericolo. Perciò dopo gli altri indizi pone anche quello della
altrui opinione; non dice infatti semplicemente: "Fa d’uopo che egli sia
in buona riputazione", ma aggiunge quell’anche presso gli estranei,
volendo mostrare che prima d’affidarsi all’opinione di quei di fuori, bisogna
diligentemente esaminarlo. Poiché dunque io conoscevo i fatti tuoi meglio dei
tuoi parenti, come tu stesso ammettesti, sarebbe giusto che io fossi sciolto da
ogni accusa.
Giovanni fa l’elogio della virtù di Basilio
VI. "Ma appunto
per questo, disse, non puoi difenderti, se alcuno voglia accusarti; o non
ricordi la pochezza della mia anima, della quale io tante volte ebbi a parlarti
e che potesti apprendere dalle mie opere? e non mi schernivi tu sempre,
tacciandomi di pusillanimità, perché io mi smarrisco anche nelle incombenze
comuni?".
"Ricordo,
risposi, d’aver ciò udito sovente volte da te, né potrei negarlo; ma se io ti
schernivo, lo facevo per gioco, non sul serio".
Ma tuttavia non starò
ora a discutere di questo; ti prego invece di accordarmi eguale benevolenza
quando io venga rammentando alcuna delle doti che tu possiedi. Ché se anche
tenterai d’accusarmi di menzogna, non cederò, ma dimostrerò che tu lo dici per
modestia e non per la verità; né mi varrò d’altro testimonio, se non delle tue
stesse parole e delle opere tue per confermare la verità delle mie asserzioni.
E anzitutto questo ti voglio dire: Sai tu qual sia la potenza dell’amore?
Cristo, lasciando da parte tutti gli altri portenti che dovevano esser compiuti
dagli Apostoli: "Da questo, dice, conosceranno gli uomini che siete miei
discepoli, se vi amerete reciprocamente" (Gv. 23,35). Paolo poi dice che
esso è la pienezza della legge e che a nulla giovano i carismi dov’esso faccia
difetto. Or questo bene ch’è il più eccellente, la tessera dei discepoli di
Cristo, quello che sta sopra i carismi, io scorsi profondamente radicato
nell’anima tua e fecondo di molti frutti.
"Che io ponga in
ciò molto studio, disse, e molta sollecitudine dedichi a questo precetto, lo
confesso io pure; che poi non lo abbia soddisfatto neppure per metà, potrai tu
stesso farmene fede, qualora lasciando da parte le parole cortesi, voglia
tenere conto solo della verità".
"Orbene, risposi,
verrò alle prove; e come minacciai ora farò, dimostrando che tu parli per
modestia anziché per dire il vero. Narrerò un fatto testé accaduto, onde non
nasca sospetto che, narrando cose vecchie, cerchi di adombrare la verità,
facendo si che l’oblio non permetta di protestare contro le cose da me narrate
per cortesia. Dunque, quando uno dei nostri amici, calunniato con accusa di
oltraggio e insubordinazione, stava per incorrere nelle pene estreme, allora tu
senza che alcuno ti chiamasse, neanche quegli a cui la condanna soprastava, ti
gettasti da te nel mezzo del pericolo. Questo sarebbe il fatto. Per convincerti
poi anche dalle tue parole, quando gli uni non approvavano questo tuo zelo, gli
altri invece assai lo lodavano e ammiravano: "E che? (dicesti ai tuoi
biasimatori) io non mi so altro modo d’amare, se non col dare anche la mia
vita, quando si tratti di salvare un amico che versa in pericolo"; dicendo
in altri termini, ma con eguale sentimento, le parole che Cristo rivolse ai
discepoli quando determinò la misura del perfetto amore: "Non si può dare,
dice, amore più grande di questo, che uno dia la propria vita per i suoi
diletti" (Gv. 15,13). Se adunque non è dato trovare amore più grande, tu
hai raggiunto la perfezione di esso e ne hai asceso il culmine, sia con le
opere, sia con le parole. Per questo ti ho tradito; per questo t’ho ordito
quell’inganno; ti persuado ora che t’ho spinto in questa carriera non per mala
intenzione, né col proposito di esporti a un pericolo, ma perché sapevo che ciò
era cosa utile?
"Ma tu credi,
disse, che la forza dell’amore sia sufficiente per la correzione del
prossimo?".
"Senza dubbio,
risposi, essa può contribuire a ciò in massima parte. Ma se vuoi ch’io rechi
esempi anche della tua assennatezza, verrò anche a questo, e dimostrerò che sei
ancor più prudente che caritatevole".
A queste parole
arrossendo e facendosi colore della porpora: "Orsù, dice, si lascino ormai
da parte le cose mie; non t’ho chiesto simili parlate io in principio.
Piuttosto, se hai qualche opportuna ragione da poter addurre a quei di fuori,
questo discorso ascolterò volentieri. Poni dunque fine a simile vaniloquio e
dimmi che cosa addurremo agli altri in nostra difesa, sia a chi ci prescelse
all’onore sia a chi si rammarica tenendosi offeso per quelle faccende".
a) Seconda parte della difesa di Giovanni. Risposta alle accuse di
oltraggio agli elettori, disprezzo del sacerdozio, vanagloria
VII. Ora io
proseguendo soggiunsi: A ciò appunto mi affretto. Poi che ho dato fine a quanto
riguarda te, di buon grado mi rivolgerò ora a quest’altra parte della mia
difesa. Qual è dunque l’accusa di costoro, e quali le loro querele? Essi si
chiamano oltraggiati da noi, e dicono d’aver sofferto uno smacco, perché noi
non accettammo l’onore che vollero conferirci. Ebbene, io dico anzitutto che
non si deve far alcun caso dell’oltraggio che si possa recare agli uomini,
quando per far onore a questi siamo costretti a far offesa a Dio. Onde neppure
per quelli che se ne adontano è senza pericolo il menare tanto scalpore su ciò,
ma anzi, torna loro molto dannoso; io mi penso infatti che le persone consacrate
a Dio e che solo a Lui riguardano, debbano comportarsi tanto cautamente da non
ritenere ciò come un oltraggio, quando anche mille e mille volte ne uscissero
privi d’onore. Ma che io non abbia fatto nulla di simile neppur col pensiero,
si fa palese da questo: se io, come hai tante volte ripetuto che taluni vanno
calunniando, venni al punto di votare per i miei accusatori, per arroganza e
vanagloria, sarei pur da annoverare fra i peggiori malfattori, avendo
dispregiato personaggi ammirandi e augusti e per di più benefattori. Ché se il
far ingiuria a chi non te n’ha arrecato nessuna è degno di condanna; a quelli
che spontaneamente si proponevano di onorarti (ché nessuno potrebbe dire che
essi, avendo prima ricevuto qualche favore o piccolo o grande da me, volessero
pagarmi la ricompensa di quelle mie grazie), come non sarebbe degno d’ogni
castigo il corrispondere col rendere loro l’opposto? Ma se questo non mi passò
neppure per la mente e con ben altra intenzione mi sottrassi al grave peso,
quand’anche non volessero approvarmi, perché in luogo di darmi perdono,
m’accusano per aver io provveduto alla salvezza dell’anima mia? Di fatto io ero
tanto lontano dal voler fare ingiuria a quei personaggi, che anzi, direi, col
mio rifiutare, di averli onorati; né ti meravigliare se ciò ha del paradosso,
ché presto te ne darò la soluzione. S’io avessi accettato, non tutti, ma quelli
che trovano gusto nelle maldicenze, avrebbero messo in campo molti sospetti e
calunnie, sia a carico di me consacrato, sia a carico di quelli che mi
scelsero; come: che essi guardano solo alla ricchezza e s’inchinano solo allo
splendore de’ natali; che mi condussero a quest’onore perché furono da me
lisciati. Non saprei dire se alcuno non li avesse pure sospettati corrotti con
denaro. Ed ancora: Cristo chiamò a questa potestà i pescatori, i manovali e i
gabellieri; costoro invece schifano quelli che vivono del lavoro quotidiano, ma
se alcuno è infarinato di dottrine profane e vive tra gli agi, questo solo
approvano, a questo fanno la corte. Per qual motivo trascurano coloro che hanno
durato innumerevoli sudori a vantaggio della Chiesa, mentre uno che non ha mai
pur anco libato il peso di simili fatiche e ha perduto sempre il suo tempo nei
vaniloqui dei profani, d’un tratto te l’innalzano senz’altro a tanta dignità?
Queste ed altre più cose sarebbero andati blaterando, se io avessi accolto la
potestà; ora invece non possono. Ogni pretesto di maldicenza è loro troncato, e
non hanno motivo d’incolparmi, né d’adulazione né di servilità verso di quelli,
tranne se taluni volessero proprio far pazzie. Come mai infatti, uno che per
raggiungere quest’onore avesse adulato e sborsato quattrini, l’avrebbe lasciato
ad altri proprio mentre era sul punto d’ottenerlo? Sarebbe come se uno, dopo
aver durato grandi fatiche nel coltivare un campo, affinché la messe gli si
aumentasse di copioso frutto e i tini traboccassero di vino, dopo gli infiniti
travagli e le molte spese, giunto il tempo di mietere e vendemmiare, si
astenesse dal cogliere i frutti, in favore di altri. Tu vedi adunque che in tal
caso, benché le loro dicerie fossero lungi dalla verità, tuttavia quelli che
avessero voluto calunniarli avrebbero ben trovato pretesti, per insinuare che
avevano fatta la scelta senza averne rettamente vagliate le ragioni. Io invece
non ho dato loro il modo di spalancare la bocca, e neppure di aprirla.
Questo e più altro
avrebbero detto sul principio; ma poi, dato mano al ministero, non sarei
bastato a difendermi ogni giorno dagli accusatori, anche se ogni cosa mi fosse
riuscita senza difetti. Se non che per la mia età e inesperienza avrei
necessariamente commesso molti mancamenti; e mentre ora ho potuto impedire loro
di rivolgermi quest’accusa, allora avrei offerto loro innumerevoli motivi di
rimprovero. Che non avrebbero essi detto? (Hanno affidato un ministero si
grande e ammirando a fanciulli insensati; hanno dato alla rovina il gregge di
Dio; le istituzioni dei Cristiani sono divenute giocattoli e oggetti di riso).
Ora invece "ogni ingiustizia chiuderà la sua bocca" (Sl. 107,42). Che
se poi dicessero tali cose di te, ben presto tu insegnerai loro con le opere,
che non si deve giudicare la prudenza dall’età e non si deve approvare il
vecchio per la canizie, né escludere senz’altro il giovine da questo ministero;
ma s’ha da interdirlo solo al neofita: e fra i due v’è gran differenza.
Libro terzo
Giovanni dimostra di non essere stato indotto da arroganza a fuggire la
vanità
I. Questo dunque che
ho detto è quanto io avrei da rispondere riguardo all’ingiuria verso quelli che
mi avevano onorato, per dimostrare che non ho rifiutato questo onore con
l’intenzione di svergognarli. Ora poi mi sforzerò, per quanto m’è dato, di
spiegarti come ciò non abbia fatto neppure perché fossi gonfio di arroganza
alcuna.
Se invero mi si fosse
voluto eleggere alla dignità di stratego o di re, e io avessi preso tale
decisione, a ragione potrebbe taluno pensare ciò; o meglio, in tal caso,
nessuno m’avrebbe accusato d’arroganza, ma tutti di stoltezza. Trattandosi
invece del sacerdozio, che tanto supera la dignità regale, quanto la carne
dista dallo spirito, oserà alcuno incolparmi di disprezzo? Non sarebbe strano
tacciare di pazzia quelli che rifiutano piccoli onori, e quelli invece che
fanno ciò per dignità assai maggiori, assolverli dall’accusa di pazzia e
nondimeno incolparli di superbia? Come se un tale, incolpando non già di
orgoglio ma bensì di demenza chi disprezzasse l’armento dei buoi, nè volesse
far il bifolco, accusasse poi non di pazzia ma di gonfiezza, chi ricusasse
l’impero di tutto il mondo e il comando di tutti gli eserciti. Ma no, le cose
non stanno così; coloro che ciò vanno dicendo, non calunniano tanto me, quanto
piuttosto se stessi. Ché il solo pensare che l’umana natura possa concepire
disprezzo per quella dignità, è una prova del concetto che ne hanno quelli
stessi che ciò esprimono: se non lo stimassero cosa ordinaria e di poco conto,
non sarebbe loro occorso di concepire tale sospetto. Per qual motivo infatti
nessuno osò mai immaginare né dire alcunché di simile riguardo alla dignità
degli angeli, che cioè vi sia un’anima umana la quale non avrebbe acconsentito
per arroganza di salire al grado di quella natura? Noi invero ci figuriamo
grandi cose di quelle Potenze, e ciò non ci permette di credere che un uomo
possa concepire un onore più grande di quello. Pertanto si dovrebbero piuttosto
tacciare d’orgoglio quelli che tale accusa fanno a me; che mai non avrebbero
concepito tale sospetto sul conto di altri, se loro stessi non nutrivano
disprezzo di tale dignità, come di cosa da nulla.
Che se poi dicono
ch’io feci questo avendo di mira la gloria, saranno palesemente convinti di
contraddizione e che si tirano da se stessi la zappa sui piedi. Non so proprio
qual altra ragione avrebbero potuto cercare, qualora avessero voluto assolvermi
dall’accusa di vanagloria. Se mai tal brama mi prese, dovevo io pur accettare
piuttosto che ricusare. Perché? perché ciò m’avrebbe acquistato grande
rinomanza: alla mia età e da poco toltomi alla vita mondana, essere d’un tratto
stimato fra tutti tanto eccellente, da venire anteposto a coloro che tutto il
tempo consumarono fra tante e tali fatiche, e raccogliere maggior numero di
suffragi che tutti loro, ciò avrebbe fatto nascere in tutti grandi e
meravigliose opinioni a mio riguardo e m’avrebbe reso un personaggio augusto e
celebrato. Ora invece, tranne pochi, la gran parte della comunità ecclesiastica
non mi conosce neppure di nome; e credo che neppur tutti sapranno del mio
rifiuto, ma solo pochi, e che, anche questi pochi, non siano al chiaro d’ogni
cosa; ed è probabile che molti di questi o crederebbero senz’altro ch’io non
fossi stato eletto, o che dopo l’elezione non fossi già fuggito spontaneamente,
ma venissi rimosso, per non essere parso idoneo all’uopo.
"Ma ben si
meraviglierà chi conosce il vero".
"Per l’appunto,
dicevi che questi mi calunniano come vanaglorioso e arrogante. Or da qual parte
s’ha da sperare lode? dai molti? ma non conoscono il fatto come sta; o forse
dai pochi? ma allora la cosa si presenta per noi tutto al contrario; poiché non
sei qui venuto per altro scopo che per sapere da me come ci si debba difendere
presso di questi. Ed a che tanto sottilizzare ora per ciò? Attendi un poco, e
vedrai chiaramente che se anche tutti sapessero la verità, non c’era motivo per
tacciarmi di arroganza e vanagloria; e oltre a ciò ancora vedrai come non solo
chi mostrasse tanta audacia, seppure alcuno ve n’ha, poiché io non lo credo, ma
anche coloro che la suppongono negli altri, rasentano non lieve pericolo".
b) Grandezza del
sacerdozio e del rito eucaristico. Gli angeli stanno in adorazione intorno al
sacerdote celebrante. L’epiclési o invocazione dello Spirito Santo. Confronto
coi riti sacrificali dell’antica Legge
Il. Però che il
sacerdozio si compie sulla terra, ma è nell’ordine delle cose celesti; e con
ogni ragione; poiché non un uomo, non un angelo, non un arcangelo, né altra
forza creata, ma lo stesso Paracleto ordinò quest’ufficio, ispirando quelli che
tuttora si stanno nella carne a ideare una funzione propria degli angeli; deve
pertanto il sacerdote essere così puro, come se abitasse negli stessi cieli fra
quelle Potenze. Terrificanti cose per certo e paurose erano quelle che
precedettero la Grazia, come i campanelli, i melograni, le pietre del petto e
dell’omero, la mitra, la cidari, la tunica talare, la lamina d’oro, il Santo
dei Santi, la profonda quiete degl’interni recessi; ma se alcuno considera le
istituzioni della Grazia troverà piccole quelle tremende e terribili cose, e
che anche qui è vero ciò che è scritto intorno alla legge: "Non fu glorificato
quello che fu glorificato, in comparazione e rispetto a questa gloria
trascendente" (2Cor. 3,10). Poiché quando tu vedi il Signore sacrificato e
giacente, e il vescovo preposto al sacrificio e pregante, e tutti imporporati
di quel sangue augusto, credi tu d’essere ancor fra i mortali e di starti sopra
la terra, o non piuttosto sei d’un tratto trasportato nei cieli, e sgombro
dallo spirito ogni pensiero della carne, contempli con l’anima ignuda e con la
mente pura le cose celestiali? o meraviglia! o filantropia di Dio: colui che
siede in alto insieme col Padre, in quell’istante viene tenuto dalle mani di
tutti, e dona se stesso a chi vuole abbracciarlo e stringerlo a sé, e tutti
fanno poi ciò allora con gli occhi della fede. Or dunque ti paiono cose queste
da poter essere disprezzate, o tali che uno possa esaltarsi al di sopra di
esse? Vuoi ora scorgere da altra meraviglia la superiorità di questo
sacrificio? Rappresentati innanzi agli occhi Elia, e intorno a lui moltitudine
immensa, e il sacrificio disposto su le pietre, e tutti gli altri in gran
quiete e silenzio profondo, e il profeta solo supplicante; indi d’un tratto la
fiamma lanciata dai cieli sopra la vittima: è uno spettacolo meraviglioso che
riempie di stupore. Rivolgiti or quindi a quello che adesso si compie e vedrai
non solo cose meravigliose, ma tali da superare ogni meraviglia. Sta il
sacerdote, per attirare giù non il fuoco, ma lo Spirito Santo; e a lungo si fa
la supplica, non affinché una fiamma accesa dall’alto consumi le offerte, ma
affinché la grazia discesa sopra il sacrificio, per mezzo di questo accenda le
anime di tutti e le renda più fulgide che argento incandescente. Chi oserà
nutrire sprezzo, se non sia al tutto pazzo o fuor di sé, di questa così
tremenda azione? o non sai che l’anima umana non varrebbe a sopportare quel
fuoco del sacrificio, e tutti d’un tratto ne sarebbero annientati, se non fosse
grande il soccorso della grazia di Dio?
Il sacerdote assolve dai peccati con la potestà da Cristo a lui trasmessa
III. Se alcuno ben
consideri che gran cosa è poter avvicinarsi a quella beata e intatta natura,
pur essendo uomo e ancora plasmato di carne e sangue, vedrà allora bene di
quanto onore la grazia dello Spirito abbia degnato i sacerdoti. Per loro mezzo
infatti queste cose si compiono, ed altre ancora per nulla inferiori a queste,
sia per dignità, sia in rapporto con la nostra salvezza; quelli che dimorano in
terra e sono posti in questa condizione, vengono ordinati ad amministrare le
cose celesti e hanno ricevuto una potestà che Dio non ha conferito né agli
angeli né agli arcangeli; poiché non fu detto a questi: "Ogni cosa che
legherete sulla terra sarà legata anche nel cielo; e ogni cosa che
scioglierete, sarà sciolta" (Mt. 18,18). Anche i dominatori sulla terra
hanno il potere di legare, ma soltanto i corpi; invece questo legame si applica
all’anima stessa e trascende i cieli; onde, checché i sacerdoti compiano
quaggiù, questo conferma Dio in alto, e la deliberazione dei servi viene
sancita dal padrone. E che vuol dire ciò, se non che ha loro conferito ogni
potestà celeste? Dice infatti: "I peccati di coloro ai quali li
rimetterete, saranno rimessi; quelli di coloro a cui li riterrete, saranno
ritenuti" (Gv. 2,23). Qual potere maggiore di questo? Il Padre ha dato al
Figlio ogni giudizio; or io vedo che essi ne furono fatti dal Figlio pienamente
depositari. Come se già fossero assunti nei cieli, trascesa l’umana natura e
sciolti dalle nostre miserie, così furono elevati a questa dignità. Inoltre, se
un re partecipasse a qualcuno dei suoi sudditi quest’onore di poter gettare in
prigione chiunque gli piacesse e nuovamente liberarlo, sarebbe costui invidiato
e celebrato da tutti; colui poi che da Dio ha ricevuto una potestà tanto più
grande quanto il cielo è più augusto della terra, e le anime dei corpi, parrà
mai ad alcuno aver egli ricevuto sì piccolo onore, da poter anche solo pensare
che altri abbia a mostrare disprezzo verso i depositari di sì eccelse cose?
Lungi tale insania! È per vero insania palese, il guardar dall’alto in basso
una dignità senza la quale non è dato di ottenere né la salvezza né i beni che
ci furono annunziati. Ché se "nessuno può entrare nel regno de’ cieli, se
non venga rigenerato per acqua e Spirito, e colui che non mangia la carne del
Signore e non beve il suo sangue, viene escluso dalla vita eterna" (Gv.
3,5), e tutte queste cose si compiono da nessun altro fuorché da quelle sacre
mani, dico del sacerdote, come potrà alcuno indipendentemente da loro, sia
fuggire il fuoco della geenna, sia ottenere le corone riservate? A loro
infatti, a loro fu affidata la generazione spirituale, e il partorire per mezzo
del battesimo; per mezzo loro rivestiamo il Cristo, siamo consepolti col Figlio
di Dio, e fatti membri di quel beato capo. Pertanto dovrebbero essere per noi
giustamente più temibili che dominatori e re, non solo, ma anche più venerandi
che padri; questi invero ci hanno generati "dal sangue e dalla volontà
della carne" (Gv. 1,13), quelli invece ci sono strumento della generazione
di Dio, di quella beata rigenerazione, della verace libertà e dell’adozione
secondo la grazia.
Confronto col sacerdozio levitico
IV. I sacerdoti degli
Ebrei avevano il potere di liberare dalla lebbra del corpo, anzi, niente
affatto liberare, ma soltanto di approvare coloro che ne erano liberati, e ben
sai come il potere sacerdotale era oggetto di invidia allora; ma questi hanno
ricevuto il potere non di liberare dalla lebbra del corpo, sebbene di togliere
affatto, non solo approvare quando sia tolta, l’impurità dell’anima. Onde, quelli
che li disprezzassero sarebbero più empi dei seguaci di Datan, e degni di
maggior pena. Poiché questi sebbene si arrogassero una dignità non dovuta,
avevano tuttavia un gran concetto di essa, e lo dimostrarono aspirandovi con
grande ardore: quelli invece quando la dignità venne ordinata a maggior
ministero e fu di tanto elevata, allora dimostrano in senso contrario, molto
maggior audacia degli altri. Poiché non è eguale, quanto al grado del
disprezzo, l’arrogarsi un potere indebito e lo schifarlo: ma questo è tanto
maggiore di quello, quanto il rigettare con sdegno differisce dall’ammirare.
Quale anima pertanto sarebbe così miserabile da sprezzare simili beni? non
direi che ciò potesse darsi, tranne che alcuno fosse invaso da qualche estro
diabolico.
Confronto fra i sacerdoti e i parenti carnali.
Ma torno là donde sono
partito. Dio ha dato ai sacerdoti potenza maggiore che ai parenti carnali, non
solo quanto al punire, ma anche quanto al beneficare: e tanta è la differenza
fra gli uni e gli altri, quanta ven’ha fra la vita presente e quella futura.
Poiché gli uni generano a questa vita, gli altri a quell’altra: quelli non
varrebbero neppure a stornare dai loro figli la morte corporale, né allontanare
un’infermità sopravvenuta; questi hanno spesso salvato l’anima inferma e
prossima alla rovina, agli uni rendendo più lieve la punizione, agli altri
impedendo fin da principio dal cadervi, non solo coll’insegnare e
coll’ammonire, ma anche soccorrendo con le preghiere. Né solo quando ci
rigenerano, ma possono rimetterci anche i peccati commessi in seguito. Dice
infatti: "Chi è malato chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino
per lui, ungendolo di olio nel nome del Signore; e la preghiera della fede
salverà l’infermo, e il Signore lo solleverà e se ha commesso peccati gli
saranno rimessi" (Gc. 5,14-15). Inoltre i genitori naturali, qualora i
figli abbiano recato offesa a qualche potente, non possono giovargli in alcun
modo; mentre i sacerdoti riconciliarono non i potenti né i re, ma lo stesso Dio
più volte con loro adirato. Dopo ciò oserà ancora taluno accusarmi di
arroganza? Da quanto ho detto io penso d’aver infuso nell’animo degli uditori
tale cautela, che abbiano ormai a tacciare d’arroganza e audacia non quelli che
fuggono, ma quelli che da se stessi si fanno avanti e s’arrabattano per
acquistarsi questa dignità.
Infatti, se coloro a’
quali sono affidate le magistrature civili, qualora per caso non siano prudenti
e assai accorti, mandano le città a catafascio e se stessi alla rovina; colui
che é destinato a fregiare la sposa di Cristo, di qual forza non ti par debba
essere fornito, sia di quella sua propria, sia di quella che viene dall’alto,
per non cadere in colpa?
c) Virtù richieste dal sacerdozio. Il candidato al sacerdozio deve temere
la dignità
V. Nessuno amò Cristo
più di Paolo, nessuno mostrò maggior zelo, nessuno fu donato di maggior grazia;
ma pur con tutto questo, teme ancora e trema per questa potestà e per coloro
sui quali la esercita. "Io temo, dice, che come il serpente con la sua
malizia ingannò Eva, così i vostri pensieri degenerino dalla semplicità che é
in Cristo" (2Cor.11,3). Ed ancora: "Fui in gran timore e trepidazione
per voi" (1Cor. 2,3): un uomo che fu rapito al terzo cielo e messo a parte
degli arcani di Dio, e che sopportò tante e tali fatiche quanti furono i giorni
di sua vita dopo la conversione; un uomo che non volle neppur fare uso del
potere conferitogli da Cristo, affinché non fosse scandalizzato qualcuno dei
fedeli. Se adunque colui che superò i comandamenti di Dio, né minimamente cercò
il suo interesse, ma quello dei sudditi, era sempre in tanto timore riguardando
la grandezza della dignità, quale sicurezza avremo noi, che sovente cerchiamo
la comodità nostra, che non solo non superiamo i precetti di Cristo, ma in gran
parte li trasgrediamo? "Chi cade infermo, dice, e io non cado infermo? chi
si scandalizza e io non ne ardo?" (2Cor. 11,29). Tale dev’essere il
sacerdote; o piuttosto, non solo tale; queste cose sono piccole e da nulla
rispetto a quanto sono per dire; che è ciò? "Ho supplicato, dice, d’essere
riprovato da Cristo, per i miei fratelli, miei congiunti secondo la carne"
(Rom. 9,3). Se alcuno pub lanciare questo grido; se alcuno ha l’anima che
arriva fino a questa preghiera, quegli si dovrebbe rampognare se fuggisse; ma
chi è lungi da quella virtù quanto lo sono io, sarebbe degno di detestazione
non quando fuggisse, ma quando accettasse. Che se si trattasse d’eleggere ad
una dignità militare, e quelli cui spetta conferirla, tirato in mezzo un fabbro
od un ciabattino o altro simile artefice, gli affidassero l’esercito, io non
loderei per certo quel miserabile, qualora non ricusasse e non facesse di tutto
per evitare di gettarsi in un male palese. Ché se bastasse l’esser chiamato
pastore e disimpegnare l’ufficio in qualunque modo, né pericolo alcuno vi
fosse, mi accusi pur chi vuole di vanagloria; ma se colui che si sobbarca a
questa cura abbisogna di grande prudenza, e prima della prudenza, di copiosa
grazia di Dio, rettitudine di costumi, purezza di vita e una virtù più grande
dell’umana, non mi negherai venia, se non ho voluto vanamente e senza motivo
darmi a rovina. Se uno, tratta innanzi una nave da trasporto piena di remiganti
e di preziosi carichi, fattomi sedere al timone mi ordinasse di traghettare il
mar Egeo o il Tirreno, mi ritrarrei alla prima voce: e se alcuno chiedesse:
"Perché?" risponderei: "Per non mandare a fondo la nave".
Or poi, se là dove il
danno è nelle sostanze ed il pericolo riguarda la morte corporale, niuno farà
rimprovero a chi adoperi grande previdenza; dove invece i naufraghi sono in
procinto di cadere non in questo pelago, ma nell’abisso del fuoco, e li aspetta
non la morte che divide l’anima dal corpo, ma quella che l’anima insieme col
corpo dà in preda alla punizione eterna, mi detesterete e vi adirerete perché
io non mi gettai a precipizio in un tanto male? no, ve ne prego e vi scongiuro.
Conosco l’anima mia, inferma com’è e piccina; conosco la grandezza di quel
ministero e la gran difficoltà dell’ufficio; poiché le onde che sbattono
l’anima del sacerdote sono più impetuose dei venti che sconvolgono il mare.
Fuggire la bramosia di onore e la servilità verso i potenti e l’eccessivo
ossequio verso le donne.
VI. E anzitutto v’è il
terribile scoglio della vanagloria, più funesto di quello di cui narrano
portenti i mitologi; questo infatti molti riuscirono a sfuggirlo incolumi
tragittando; per me invece quello è tanto minaccioso, che non posso guardarmi
dal suo malo influsso, nemmeno ora che nessuna necessità mi spinge verso quel
baratro; se poi alcuno mi affidasse questa dignità, sarebbe come legarmi le
mani all’indietro e espormi alle fiere che dimorano su quello scoglio, per
esserne quotidianamente dilaniato. Quali sono queste fiere? violenza, ignavia,
invidia, contese, calunnie, accuse, menzogne, ipocrisia, insidie, istanze a
danno d’innocenti, compiacenza per le sconvenienze dei propri colleghi,
rammarico per i loro successi, brame di lode, avidità d’onore (ciò che più di
tutto tira alla. rovina l’anima dell’uomo); discorsi tenuti per pavoneggiarsi,
adulazioni servili, corteggiamenti indegni, disprezzo dei poveri, ossequiosità
poi ricchi, onori affatto irragionevoli e favori biasimevoli, che recano
pericolo a chi li dà e a chi li riceve; timore servile, degno soltanto dei
peggiori schiavi, scatti d’audacia, gran modestia all’esterno e nessuna in
realtà, accuse di assenti e punizioni inflitte specialmente ai deboli e fuor di
misura, mentre con quelli che sono circondati di potenza non s’osa nemmeno
aprire bocca. Tutte queste fiere e altre più ancora, nutre quello scoglio,
nelle quali chi incappa una volta, è per forza ridotto a tale schiavitù, da
compiere in grazia delle donne, azioni che non è bello neanche nominare. La
legge divina le ha escluse da questo ministero, ma esse si sforzano di
invaderlo; e poiché nulla possono da se stesse, fanno ogni cosa per mezzo di
altri; e si arrogano tanta potenza, da approvare o eliminare i sacerdoti come a
loro piace. E rovesciato l’ordine, questo che è proverbiale si può qui vedere
avverato: i sudditi guidano i magistrati; e fossero uomini almeno, ma sono
proprio quelle a cui non è nemmeno dato l’incarico d’insegnare: che dico
insegnare? il beato Paolo non permise loro neppur di parlare nella comunità
ecclesiastica. E io ho udito uno raccontare, che tale baldanza hanno
acquistata, da muovere rimproveri ai capi delle Chiese e imperversare contro di
quelli, più fieramente che non facciano i padroni coi propri servi. Ma non
creda alcuno che io voglia sottoporre tutti a queste accuse; vi sono invero, vi
sono molti che sfuggono a queste reti e sono in maggior numero di quelli che vi
si perdono.
Disordini provenienti da elezioni ispirate a favoritismo e dominate da
spirito partigiano.
Chi si sente impari all’ufficio, anche a elezione fatta dovrebbe ritirarsi.
VII. Ma io non vorrei
attribuire al sacerdozio la cagione di questi mali, a meno che fossi pazzo; ché
non s’incolpa il ferro degli omicidi, né il vino dell’ubriachezza, né la forza
dell’oltraggio, né il coraggio s’incolpa della stolta audacia; ma ognuno che ha
senno dice esserne cagione quelli che dei doni impartiti da Dio non fanno il
debito uso, e quelli castiga. E ben a ragione il sacerdozio potrebbe accusare
noi, quando non l’esercitiamo rettamente; ché non esso è a noi cagione dei mali
sopraddetti, ma siamo noi che, per quanto da noi dipende, l’inquiniamo di tante
e tali immondezze, affidandolo a uomini volgari. Questi poi, non avendo prima
conosciute le loro anime né considerato il peso dell’istituzione, accettano
bensì bramosamente la dignità conferita, ma quando vengono all’azione,
ottenebrati dall’inettitudine loro, riempiono di infiniti mali i popoli che a
loro furono affidati. Questo, sì, questo per poco non accadeva anche a me, se
Dio non m’avesse presto sottratto a quei pericoli, risparmiando la Chiesa e l’anima
mia.
O dimmi, donde credi
tu che nascano nelle chiese tanti scompigli? da nessun’altra parte, io credo,
che dall’eseguirsi senza cura e a casaccio la scelta e l’elezione dei
dirigenti; la testa che dovrebbe essere la parte più salda, per frenare e mantenere
in equilibrio gli spiriti perversi esalati da basso dal resto del corpo, se
ella stessa è inferma e inetta a reprimere quelle morbose esalazioni,
s’infermerà ancor più di quello che non sia, e rovinerà insieme con se stessa
il rimanente del corpo. A evitare ciò nel presente caso, Iddio mi trattenne al
livello dei piedi, dove la sorte prima m’aveva collocato.
Ma ben molte altre, o
Basilio, oltre quanto fin qui fu detto, sono le virtù che il sacerdote deve
possedere, e che io non possiedo; e prima di tutto questa, di purificare
affatto l’anima propria dalla brama di questa dignità. Che se egli per
avventura sentirà vivo desiderio per questa carica, raggiunta che l’abbia
accende una fiamma più veemente, e volendosi deporlo a forza, commette
innumerevoli perversità pur di serbarsela, sia che occorra adulare o tollerare
cosa vile e indegna, o sacrificare grandi somme: tralascio ora che alcuni hanno
riempito le chiese di uccisioni e messo sossopra le città disputandosi questa
dignità; parrebbe infatti ad alcuno che io narri cose incredibili. Ma bisogna,
a mio avviso, nutrire un tal timore di questo incarico, da volersene sottrarre
fin da principio, né, raggiunto che uno l’abbia, attendere i giudizi altrui, se
mai gli accada di commettere un fallo degno della deposizione, ma prevenendoli,
uscire di carica egli stesso; così è anche probabile che attiri sopra di sé la
misericordia di Dio. Ma il persistere in carica oltre il convenevole, equivale
a privarsi d’ogni perdono e vie più accendere l’ira di Dio, aggiungendo al
primo un secondo e più grave fallo. Ma nessuno mai sopporterà tal cosa, perché
l’agognare quest’onore è vizio funesto. Né dico ciò per contraddire al beato
Paolo, ma anzi in piena armonia con le parole sue; che dice egli infatti?
"Se alcuno brama l’episcopato, brama una cosa buona" (1Tim.3,1); e io
ho detto che è vizio funesto non già il bramare la cosa, ma la dignità e il
potere.
VIII. Credo pertanto
doversi tal brama cacciare con ogni cura dall’anima, né soffrire che questa
cominci ad esserne dominata, anche affine di poter compiere ogni cosa con
libertà. Colui che non brama d’esser designato a quella potestà, non teme
neppur d’esserne deposto; non temendolo potrà agire in tutto a norma della
libertà che s’addice ai Cristiani; mentre coloro che temono e tremano d’esserne
deposti, sopportano una schiavitù amara e piena di miserie, e sovente sono
nella necessità di offendere gli uomini e Dio. Tale non ha da essere la
disposizione dell’anima, ma come vediamo nelle battaglie i soldati valorosi
combattere con ardore e cadere con fortezza, così anche quelli che giungono a
questo ufficio, debbono saperlo esercitare e all’uopo deporre, come si addice a
uomini cristiani, certi che una tale deposizione non diminuisce la corona del
ministero. Che se poi taluno soffrisse una tale vicenda senz’aver nulla
commesso di sconveniente e indegno del posto che occupa, procurerebbe la
punizione per quelli che ingiustamente lo deposero e a se stesso maggior
ricompensa: "Beati siete voi quando gli uomini vi malediranno e vi perseguiteranno
e diranno di voi falsamente ogni male per causa mia; rallegratevi ed esultate,
perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt. 5,11-12). Ciò qualora
alcuna sia tolto di seggio dai propri colleghi, o per invidia, o per far
piacere ad altri, o per inimicizia o per altra ingiusta ragione. Quando poi gli
occorra di sopportare ciò anche per opera degli avversari, credo inutile
aggiungere parole, per dimostrare quanto guadagno quelli gli procurino con la
loro perversità. Conviene adunque ricercare da ogni parte e diligentemente
investigare, che non si celi ardendo qualche scintilla di quel desiderio.
Invero c’è da esser contenti se anche coloro che si mantengono da principio
liberi da tal brama, riescano a sfuggirvi qualora siano cascati nella dignità;
che se poi alcuno nutre in se stesso questa fiera terribile e selvaggia prima
ancora di toccare in sorte l’onore, non si può dire in qual fornace immerga se
stesso dopo averlo raggiunto. Io per certo (né credi che voglia mentire con te
per modestia) ero molto preso da questa bramosia, il che insieme con tutto il
resto mi infuse non minore, sgomento, e mi decise a questa fuga. Come gli
amanti dei corpi sentono più fiero il tormento della passione fin che è loro
concesso di starsi vicino agli amati; e quando si siano spinti il più lontano
possibile dall’oggetto di loro brame, pongono fine anche alle loro smanie; così
anche i bramosi di questa potestà, quando si ‘trovano vicini a essa il loro
male diviene insopportabile; ma qualora ne abbiano perduta la speranza,
spengono in se stessi in un con l’aspettativa, anche il desiderio. Ciò non era
piccolo pretesto: e se anche non ve ne fosse stato altro, bastava per
escludermi da questa dignità.
Prudenza e fortezza sono virtù più necessarie al sacerdote che le austerità
e i digiuni.
IX. Ora s’aggiunge
un’altra virtù non minore di questa. Qual è? Deve il sacerdote essere sobrio e
perspicace, e munirsi da ogni parte d’infiniti occhi, dovendo vivere non solo
a:e stesso, ma a vantaggio d’una tanta moltitudine. Ora, che io sia pigro e
debole e appena sufficiente alla mia salvezza, tu stesso l’ammetteresti,
sebbene per l’amicizia sia più di tutti sollecito nel nascondere i miei
difetti. Non parlarmi ora di digiuni né di vigilie né di sonni su nuda terra né
d’altre austerità corporali; sai del resto quanto io sia lontano anche da
queste; ma se pure mi vi fossi dedicato con ardore, non avrebbero potuto per
nulla giovarmi in questo ministero. Potrebbero bensì quelle austerità recare
grande giovamento a un uomo che se ne stia rinchiuso nella sua cella unicamente
occupandosi di se stesso; ma a chi è diviso fra tanta moltitudine e sollecitato
da cure diverse per ciascuno dei suoi sudditi, come potrebbero recare un
considerevole incremento al progresso di quelli, se egli non possederà un’anima
pieghevole ad un tempo e fortissima?
Non meravigliarti se
insieme a quelle austerità io richiedo un’altra prova della virtù dell’anima.
Noi vediamo essere per nulla difficile lo sprezzare i cibi, le bevande e i
soffici letti, specialmente a coloro che menano vita rustica e furono allevati
così fin dalla più tenera età, come anche a molti altri, quando la disposizione
fisica e la consuetudine rende meno sensibile l’asprezza di quei travagli; ma
il sopportare l’ingiuria, l’insolenza, il parlar grossolano, i dileggi da parte
degl’inferiori, sian profferiti a caso o con giusta causa, e i biasimi mossi
senza motivo e infondatamente dai superiori e dai propri sudditi, non è virtù
di molti, ma a stento d’uno o due (); onde si potrebbe vedere talora persone
che in quelle austerità erano forti, dare ora siffattamente nelle vertigini, da
imperversare peggio delle fiere più selvagge; or questi tali dobbiamo
massimamente escludere dai recinti del sacerdozio. Che il vescovo non languisca
d’astinenza né vada a piedi nudi, non recherà alcun detrimento alla comunità
ecclesiastica; mentre invece l’asprezza d’animo produce grandi malanni, sia in
chi ne è agitato, sia nei suoi vicini; né alcuna minaccia di Dio sovrasta a
coloro che non si danno a quelle pratiche, mentre a coloro che montano in furia
senza ragione, è minacciata la geenna e il fuoco di essa. Come colui che è
preso da vanagloria, quando abbia afferrato il dominio sopra il popolo offre al
fuoco maggior materia; così chi è incapace di frenare lo sdegno quando è solo o
nella conversazione di pochi, ma facilmente perde le staffe; qualora gli sia
affidata la supremazia di tutta una moltitudine, simile a una fiera
punzecchiata da ogni parte e da moltissimi, egli non potrà mai starsi in pace,
e procurerà a’ suoi sudditi innumerevoli mali. Nulla intorbida più la purezza
della mente e la trasparenza dei pensieri, che un animo sfrenato e che si
lascia trascinare da grande impeto: "Questo (dice la Scrittura) rovina
anche i saggi" (Prv 5,1). E come in un combattimento notturno, l’occhio
dell’anima ottenebrato non trova modo di discernere gli amici dai nemici, né le
persone volgari da quelle distinte, ma con tutti egualmente usa le stesse
maniere, rassegnandosi a sopportare il male che gliene possa venire, pur di soddisfare
la voluttà dello spirito; poiché l’ardore della collera è una specie di
voluttà, anzi più duramente della voluttà esso tiranneggia l’anima
sconvolgendone interamente la sana costituzione; onde spinge facilmente
all’arroganza, a inimicizie intempestive, all’odio infondato, e continuamente
dispone a eccitare malcontenti inutilmente e senza motivo, e tante altre cose
simili costringe a fare e dire, sentendosi l’anima trascinata da gran tumulto
di passione, né avendo dove appoggiare il suo sforzo per resistere a tale
impeto.
X. "Ma ormai non
sopporterò più a lungo, quel tuo fare ironico, disse; poiché chi non conosce
quanto tu sii lontano da questo difetto?"
"E che,
soggiunsi, o fortunato, vuoi tu dunque spingermi vicino al rogo, e istigare la
fiera accovacciata? o non sai che in ciò mi sono moderato non per virtù mia
propria, ma per amore della quiete, e che chi ha tale disposizione è cosa
desiderabile che, standosene solo o colla compagnia di uno o due amici
soltanto, possa sottrarsi a quell’incendio, non che dal cadere nell’abisso di
tante sollecitudini? Poiché in questo caso, non solo se stesso, ma molti altri
insieme con lui trascinerebbe nel precipizio della rovina, rendendoli meno
solleciti per mantenersi nella giusta misura; infatti il più delle volte la
moltitudine dei sudditi è disposta naturalmente a guardare i costumi dei capi
come un modello archetipo e foggiare se stessa a norma di quelli. Or come
potrebbe uno sedare i loro gonfiori quando egli stesso è gonfio? chi fra la
plebe desidererebbe diventare moderato, mentre vede il capo che facilmente cede
alla collera? Non è possibile affatto che le mancanze dei sacerdoti restino
celate, ma anche le minime ben presto diventano palesi.
Il sacerdote deve risplendere col buon esempio
Un atleta fino a che
se ne rimarrà in casa senza venire alle mani con alcuno, potrà bensì celarsi
anche se debolissimo; ma tosto che deponga la veste per affrontare la lotta,
ben presto diverrà oggetto di disprezzo; così anche quelli fra gli uomini che
vivono questa vita privata e tranquilla, hanno per velario delle proprie colpe
la solitudine; ma qualora siano tirati in mezzo, allora sono costretti a
deporre la solitudine come un vestito, e per mezzo dei movimenti esterni
mostrare ignude a tutti le anime loro. Pertanto, come le loro virtù giovano a
molti ridestandone l’emulazione, così pure le loro mancanze rendono altri più
schivi del travaglio che la virtù richiede e li dispone all’indolenza dinanzi
alle fatiche di serie intraprese. Deve dunque la bellezza dell’anima di lui
risplendere da ogni parte per poter rallegrare e insieme illuminare le anime
dei suoi spettatori. Le colpe dei volgari, commesse per così dire al buio, sono
di rovina soltanto per chi le commette; ma la trascuratezza d’un personaggio
distinto e noto a molti, reca danno comune a tutti, rendendo i caduti sempre
più restii ai sudori per le opere buone, e d’altra parte provocando
all’arroganza quelli che vogliono attendere a se stessi. Inoltre, i falli della
gente comune, anche se divengono palesi, non infliggono nessuna piaga
considerevole; ma quelli che siedono su questo culmine di dignità,
primariamente sono visibili a tutti; poi anche se cadono in difetti minimi, le
cose piccole appiano grandi agli altri, perché tutti misurano la colpa non in
ragione della sua propria entità, ma in ragione del grado di chi l’ha commessa.
Onde il sacerdote ha da essere circondato, come d’armi d’acciaio, da attenzione
continua e da costante moderazione, e guardarsi da ogni lato che alcuno vedendo
qualche parte scoperta e negletta, non infligga una ferita mortale. Tutti
stanno all’intorno pronti a colpire e abbattere, non solo nemici e avversari,
ma molti anche di quelli che simulano amicizia. Bisogna rendere le anime
disposte come Dio un tempo mostrò essere i corpi di quei santi nella fornace di
Babilonia; l’alimento poi di questo fuoco non è sarmento né pece né stoppa, ma
altre cose ben peggiori; né si tratta di quel fuoco sensibile, ma li avvolge la
voracissima fiamma della gelosia, elevandosi da ogni parte, investendoli e scrutandone
la vita, con più lena che quel fuoco i corpi di quei giovinetti; se pertanto
troverà una piccola traccia di paglia, subito l’avvolge e arde quella parte
corrotta, mentre il resto della fabbrica, anche se risplenda più che i raggi
del sole, resta fra quel fumo tutto bruciacchiato e annerito.
Anche i piccoli difetti tornano a disdoro del sacerdote.
XI. Fino a che la vita
del sacerdote sarà ben regolata in tutto, egli non soccomberà all’insidia, ma
se trascura anche solo un punto, come è facile essendo uomo e navigando
attraverso il pelago mal fido di questa vita, nulla gli gioveranno tutte le
altre virtù per sfuggire alle lingue degli accusatori; ma quella piccola
deficienza adombra tutto il resto; tutti vogliono giudicare il sacerdote non
come rivestito di carne e partecipe della natura umana, ma quasi fosse un
angelo e libero dalla miseria comune. E come tutti temono e adulano un tiranno
finché serba il potere, perché non possono toglierlo di mezzo, ma quando vedano
decadere la sua potenza, deposto il rispetto fin allora simulato, quelli che
poco prima gli erano amici, d’un tratto si fanno nemici e avversari, e
esaminando tutte le sue malvagità gliele imputano a colpa e lo spogliano del
dominio; così anche riguardo ai sacerdoti, quelli che poco prima, mentre era in
potenza, lo onoravano e gli s’inchinavano, quando scorgono una piccola
occasione, s’apprestano energicamente a travolgerlo non solo quale tiranno, ma
come qualcosa di peggio. E come quello teme le guardie della sua persona, così
questo ha da paventare soprattutto i vicini e i suoi compagni di ufficio; ché
nessuno agogna maggiormente la sua dignità e nessuno conosce i fatti suoi più
addentro di loro, perché essendogli vicini, se alcunché di simile gli accada,
lo conoscono prima degli altri; e qualora ricorrano alla calunnia, facilmente
possono trovare fede e togliere di mezzo il calunniato ingrandendo le cose
piccole, (ché la parola dell’Apostolo viene qui invertita, e "se un membro
soffre, godono tutte le altre membra, e se viene esaltato un membro, tutte le
altre membra ne soffrono" 1Cor. 12,26) tranne che uno sappia con grande
circospezione far fronte a tutto. Or dunque tu mi mandi a tale guerra? e
credesti che l’anima mia fosse da tanto da affrontare una lotta si varia e
multiforme? ma donde e da chi l’apprendesti? che se Dio ti ha parlato, metti
fuori il responso, e mi persuaderò; se poi non l’hai, e rechi il suffragio a
norma degli uomini, cessa di più oltre ingannarti. Ché trattandosi di fatti
miei è più giusto credere a me che ad altri, poiché "nessuno conosce le
cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è dentro di lui" (1Cor.
2,11). Ma se anche prima non lo credevi, penso che ora, da quanto ti ho detto
ti sarai convinto che se avessi accettato questa dignità avrei esposto alla derisione
me stesso e i miei elettori, e con grande iattura me ne sarei dovuto tornare a
questo tenore di vita in cui ora mi trovo. Non solo la gelosia, ma assai più
forte di essa, la brama di questa carica sembra armare la moltitudine contro
chi ne è investito; a quel modo che i figli bramosi di denaro sopportano con
pena la vecchiezza dei padri, così taluni di costoro quando vedono protrarsi
lungamente la durata dell’episcopato, non essendo loro lecito di toglierlo di
mezzo, si studiano di congedarlo, tutti desiderando di sostituirlo e aspettando
ognuno che la dignità venga a cadere nelle sue mani.
Disordini che talora accadevano nella elezione al sacerdozio.
La professione monastica e l’età avanzata non sono titoli sufficienti di
idoneità al sacerdozio
XII. Vuoi che ti
mostri un altro aspetto di questa lotta, ripieno, di innumerevoli pericoli? Va’
a spiare nelle feste pubbliche, dove è costume di far le elezioni dei capi
ecclesiastici, e vedrai il sacerdote fatto segno a tante accuse quanta è la
moltitudine dei sudditi. Allora quelli a cui spetta il conferire l’onore si
scindono in molti partiti, e si potrebbe vedere il collegio dei presbiteri non
concorde né nei suoi membri né con quegli che ottiene l’episcopato; ognuno fa
parte da se stesso, scegliendosi chi questo chi quel candidato. E ne è cagione
il considerare tutti non ciò che unicamente si dovrebbe considerare, cioè la
virtù dell’anima, ma il tenere conto d’altri pretesti come di titoli valevoli
all’assecuzione di questa dignità; onde: "Questi, dice taluno, sia
approvato perché è di alto ceto; quest’altro perché possiede molta ricchezza né
avrà bisogno di vivere a carico dell’entrate ecclesiastiche; quest’altro perché
proviene da parte avversaria". E così, cercano di far prevalere sopra gli
altri chi un proprio amico, chi un congiunto, chi un adulatore; nessuno vuol
prendere in considerazione la persona idonea, né si cura di fare alcun assaggio
dell’anima. Io invece sono tanto lontano dal menare buone queste ragioni per
l’approvazione dei candidati al sacerdozio, che anche se uno mostrasse grande
pietà, cosa che contribuisce per me non poco per l’esercizio di quella carica,
non ardirei di ammetterlo subito in grazia di quella, se non possedesse insieme
con la pietà anche molta saggezza. Poiché io ho veduto molti che erano stati
rinchiusi tutta la vita e consumatisi nei digiuni, i quali finché poterono
starsi soli e curarsi soltanto de’ fatti propri, ebbero merito dinanzi a Dio, e
ogni giorno aggiungevano progresso non piccolo in quella filosofia; quando poi
s’introdussero fra la moltitudine e furono posti nella necessità di correggere
l’ignoranza del volgo, gli uni si mostrarono fin da principio incapaci di
questa missione, gli altri, forzati a durarvi, deposta la primitiva osservanza
recarono i massimi danni a se stessi, né procurarono agli altri il minimo
vantaggio. Ma neppure se taluno abbia passato tutto il suo tempo rimanendosi
nell’ultimo gradino del ministero e sia giunto a estrema vecchiaia, dovremo
elevarlo a più alta carica semplicemente per riguardo alla sua età; e che
farci, se anche dopo raggiunto quel termine l’individuo sia rimasto inadatto
all’uopo? Né io dico tali cose per disprezzo alla vecchiezza, né con intento di
escludere per legge da questa soprintendenza coloro che vengono dalla schiera
dei monaci è avvenuto infatti che molti provenienti da quel ceto risplendettero
in quest’ufficio ma nell’intento di dimostrare questo principio: che se né la
sobrietà per sé sola, né la tarda vecchiaia potrebbero bastare a garantire
l’idoneità di chi ottiene il sacerdozio, tanto meno possono valere a tale scopo
i pretesti prima enumerati. Ma v’è chi ne propone altri ancor più assurdi; ché
taluni sono collocati nelle file del Clero affinché non si gettino dalla parte
degli avversari; altri per le loro perversità, ad evitare che trascurati non
abbiano a perpetrare gravi mali; ma si può dar cosa più illegale di questa, che
uomini perversi e pieni di colpe fino ai capelli, vengano lisciati per quel
motivo stesso per il quale dovrebbero esser puniti, e che in grazia di quello
per cui non dovrebbero nemmeno varcare le soglie della chiesa, abbiano a salire
alla dignità sacerdotale? Cercheremo noi ancora, dimmi, la causa dello sdegno
di Dio, mentre esponiamo ministeri così santi e tremendi a essere profanati da uomini
o malvagi e affatto indegni di riguardo alcuno? quando vengono incaricati gli
uni di presiedere a uffici che loro non convengono affatto, gli altri d’uffici
affatto superiori alle loro capacità, faranno sì che la Chiesa non dissomigli
per nulla dall’Euripo.
Il male che proviene alla Chiesa dalla abusiva intromissione delle persone
estranee
nella elezione o nella deposizione dei membri del sacerdozio
XIII. Io, più
indietro, deridevo i magistrati civili perché eseguiscono le distribuzioni
delle cariche non a norma della virtù che è nelle anime, ma a norma delle
ricchezze o dell’età o della dignità umana; ma quando intesi che tale stoltezza
aveva invaso anche le nostre istituzioni, non giudicai questo un male
equivalente dell’altro. Qual meraviglia infatti, che uomini mondani e bramosi
della gloria che deriva dal volgo, e che ogni cosa fanno per acquistare denaro,
commettano simili errori, quando coloro che professano il distacco da tutte
queste cose, non si comportano meglio di quelli, ma mentre hanno impegnata la
lotta per i beni celesti, come se avessero a decidere di un pezzo di terra o
d’altra cosa simile, prendono senz’alcun criterio uomini volgari e li pongono a
capo di interessi tali per cui il Figlio unigenito di Dio non si peritò di
deporre la sua gloria e farsi uomo, d’assumere la forma di schiavo, d’essere
sputacchiato e flagellato, e di morire della morte più ignominiosa? Né si
arrestano qui, ma aggiungono altre irregolarità più assurde; poiché non solo
ammettono gl’indegni, ma ne discacciano gli idonei: come se fosse necessario
che dall’una e dall’altra parte venga rovinata la sicurezza della Chiesa, o
come se non bastasse il primo motivo per accendere lo sdegno di Dio, così ne
aggiungono un secondo non meno tristo; ché mi parve cosa egualmente funesta
tanto l’escludere gli idonei, quanto lo spingere dentro gli inetti: e ciò
avviene affinché il gregge di Cristo non possa trovare sollievo da alcuna
parte, né possa in alcun modo respirare. Tali cose non sono degne di mille
fulmini? o non sono meritevoli d’una geenna più violenta, e non solo di quella
a noi minacciata? Ma ciò non ostante si trattiene e sopporta tali iniquità
"Colui che non vuole la morte del colpevole, bensì che si converta e
viva" (Ez. 23,23). Chi può adeguatamente ammirare la di lui mitezza? come
degnamente esaltarne la misericordia? T seguaci di Cristo corrompono le
istituzioni di Cristo più dei nemici e degli avversari suoi, ed egli buono, si
mostra ancora benigno e chiama i colpevoli a ravvedimento; gloria a te, o
Signore, gloria a te quale abisso di benignità in te? quale copia di
longanimità? quelli che per il tuo nome da volgari e ignobili sono divenuti
nobili e cinti d’onore, usano dell’onore contro chi ne li ha rivestiti e osano
audacie inaudite, e imperversano contro le cose sante, allontanando e
scacciando i degni, affinché i malvagi possano con tutta calma e con piena
impunità mettere sottosopra ogni cosa che loro aggrada. E se vuoi apprendere le
cause di questo male, le troverai simili a quelle prima addotte, ché hanno tutte
una sola radice, e come taluno direbbe, madre, la gelosia; esse poi non sono
d’una stessa specie, ma differiscono fra loro. Questo, dice uno, sia scacciato
perché è giovane; quest’altro perché non sa adulare; quell’altro perché cadde
in disgrazia del tale; quell’altro, per non far dispiacere al tale, qualora
vedesse rifiutato il suo protetto e approvato costui; quest’altro poi perché è
affabile e moderato, quest’altro ancora perché è temuto dai colpevoli;
quest’altro per altro motivo, ché non esitano a trovare pretesti quanti ne
vogliano, e qualora non n’abbiano altro, adducono quello del gran numero dei
sacerdoti, asserendo non doversi in massa elevare a questa dignità, ma con
calma e a poco a poco; e possono trovare quante altre cagioni vogliono. Or mi piace
chiederti a questo punto: Che deve fare il vescovo contrariato da tali venti
opposti? come starà fermo fra tanto ondeggiare? come respingerà tutti questi
assalti? Ché se disporrà la bisogna con retta riflessione, tutti si dichiarano
nemici e avversari a lui ed agli eletti, e ogni cosa faranno per animosità
contro di lui, suscitando rivolte ogni giorno e infliggendo mille insulti agli
eletti, finché o gli abbiano deposti o abbiano fatto luogo ai loro
raccomandati. Accade come quando un pilota avesse nella nave che varca Tacque,
dei pirati insieme naviganti e insidianti senza posa e in ogni istante a lui,
ai marinai e agli altri viaggiatori: e se anteporrà il riguardo verso di quelli
alla sua propria salvezza, accogliendo chi non dovrebbe, avrà Dio nemico invece
ch’essi, del che qual cosa v’è più tremenda? e d’altra parte i rapporti con
loro gli si faranno più difficili di prima, prestandosi tutti reciprocamente
soccorso e rendendosi per tal guisa più forti. E come quando, per venti
impetuosi scatenatisi da parti opposte, il mare fin allora tranquillo,
d’improvviso infuria, si solleva e travolge i naviganti; così la pace della
Chiesa quando accolga nel suo seno uomini corruttori, si riempie di procella e
di molti naufragi.
XIV. Pensa pertanto
quale deve essere colui che ha da andar incontro a sì gran tempesta e cavarsela
bene da sì forti ostacoli, opposti a ciò che sarebbe di vantaggio comune: deve
essere insieme serio e non altezzoso, temuto e accondiscendente, imperativo e
popolare, imparziale e cortese, umile e non servile, forte e dolce, affine di
poter combattere con buon esito contro tutte queste difficoltà. Si deve far
avanzare con molta fermezza, anche se tutti s’opponessero, il candidato idoneo,
e quegli che non è tale, con la stessa fermezza e anche se tutti cospirino
contro, non promuoverlo, ma aver di mira una cosa sola, cioè l’edificazione
della comunità ecclesiastica, né alcuna cosa compiere per simpatia o per
animosità. Ti par dunque che io mi sia ritirato con buona ragione da questo
ufficio e da questo ministero? ma tuttavia non t’ho ancora esposto tutto; ho
altro da dirti: però ti prego, non stancarti di tollerare che un tuo amico e
familiare voglia farti persuaso intorno a ciò di cui lo accusi. Ché tali cose
non sono soltanto utili per la difesa che tu avrai a far di me, ma anche per il
disimpegno dell’ufficio stesso ben presto ti saranno di non lieve giovamento. È
necessario che chi s’incammina per questa carriera di vita, quando abbia prima
ben indagato ogni cosa, allora solo s’accinga al ministero; e per qual motivo
mai? perché se non altro non gli toccheranno amare sorprese quando si trovi a
tali incontri, se già di tutto avrà chiara nozione.
Governo delle vedove e difficoltà che presenta. Cura degli ospiti e degli
infermi.
Responsabilità del vescovo come amministratore
Vuoi dunque ora che io
tratti prima del governo delle vedove, o della sollecitudine per le vergini, o
della difficoltà che presenta la parte giudiziaria? Ché in ognuna di queste
bisogne diversa é la preoccupazione, e più grande che la preoccupazione é il
timore. E per principiare da quella parte che si crede essere più facile delle
altre, la cura delle vedove sembra non arrecare altre brighe a chi se ne
occupa, se non quelle riguardanti le spese necessarie; ma non é così; anche qui
c’è bisogno di lungo esame, quando si tratta di accoglierle, perché
l’ascriverle senza criterio e a casaccio, ha prodotto innumerevoli mali. Talora
infatti esse hanno mandato in malora le case, violato i matrimoni; spesso si
sono infamate con furti, con frodi e col perpetrare altre simili iniquità; ora
il mantenere tali soggetti a spese della Chiesa, provoca punizione da parte di
Dio e i peggiori biasimi da parte degli uomini, mentre poi rende più restii
quelli che sarebbero disposti a beneficare. Chi sopporterebbe infatti che i
beni che egli aveva deciso di dare a Cristo, siano dissipati in pro di quelli
che disonorano il nome di Cristo? Bisogna quindi fare lunga e diligente
indagine, affinché non danneggino la mensa delle indigenti non solo quelle dette
di sopra, ma né anche quelle che sono in grado di provvedere al proprio
sostentamento. Dopo questa ricerca, sopravviene altra briga non piccola, per
far sì che il loro nutrimento scorra abbondante come da sorgenti, né si
esaurisca mai: l’indigenza forzata è una miseria in certa guisa insaziabile,
querula e sconoscente; si richiede grande sagacia e grande diligenza per
chiudere loro la bocca, togliendo qualsiasi pretesto di accusa. Ora molti,
appena vedono un tale che sia superiore all’avidità di ricchezza, subito lo
designano come idoneo a quest’amministrazione; ma io non credo che gli possa
bastare tale magnanimità; questa si richiede bensì prima d’ogni altra dote (ché
senza di ciò egli sarebbe un flagello anziché un protettore, e un lupo anziché
un pastore), ma insieme con questa conviene cercare se ne possieda un’altra;
quest’altra, che è causa d’ogni bene per gli uomini, è la longanimità, che
guida l’anima ormeggiandola in porto tranquillo. Il ceto delle vedove, per la
indigenza, per l’età e per la sua stessa natura, dimostra una certa smodata
indiscrezione, è meglio dir così, onde gridano fuor di luogo, menano querele
invano, si rammaricano per cose di cui dovrebbero saper grado, accusano di cose
alle quali era invece da far buon viso: e il reggitore deve tollerare tutto con
fortezza, senza perdere le staffe né per le noie intempestive, né per gli
irragionevoli biasimi; è giusto commiserare quel ceto per i disagi propri della
sua sorte, anziché rampognarlo, ché l’accrescere il peso delle loro sventure e
aggiungere all’ambascia dell’indigenza anche quella del maltrattamento, sarebbe
estrema crudeltà. Onde un tale sapientissimo uomo, guardando l’avidità e
l’alterigia propria della natura umana e avendo appreso che l’indole della
povertà é così terribile da abbattere anche l’anima più generosa e indurla
spesso a mostrarsi sfacciata nel richiedere le stesse cose, affinché taluno non
monti in ira per esser da altri supplicato né per le continue richieste
infastidito, diventi avversario quegli che doveva recare loro soccorso, lo
dispone a mostrarsi accessibile al bisogno, dicendo: "Piega il tuo
orecchio al povero senza infastidirti e rispondi a lui con pacata
mansuetudine" (Eccl. 4,8). Lasciando da parte il cercatore importuno e che
potrebbe dire a chi giace nella miseria? parla a chi é in grado di sopportare
la debolezza di quello, esortandolo a sollevare il povero con la dolcezza dello
sguardo e l’affabilità della parola, prima di porgergli la limosina.
Larghezza e buone maniere nel beneficare
XV. Che se poi alcuno
si astenga bensì dall’appropriarsi i beni destinati a quelle, ma le copra di
innumerevoli contumelie, le insulti e monti in furia contro di esse, non solo
non avrà alleviato la confusione che loro ispira la povertà, col largire
soccorsi, ma avrà cagionato loro un maggior affanno con i maltrattamenti. Ché
sebbene, spinte dalla necessità del ventre, esse diventano assai impudenti, non
ostante ciò soffrono a queste maniere violente; quando adunque per l’urgenza
della fame sono necessitate a chiedere, e col chiedere s’inducono a comportarsi
sfrontatamente, indi per la loro sfrontatezza vengono coperte di rimproveri,
allora un molteplice peso di abbattimento apportatore di densa tenebra, si
stende su l’anima loro. Chi si occupa di loro dovrà quindi essere tanto
longanime, non solo da non accrescere la loro confusione con modi irritati, ma
anche da attutire la maggior parte di quella che hanno già, con parole di
conforto. Poiché, come chi godendo di grande abbondanza, se riceve insulto non
sente la comodità che arreca il possesso delle sostanze per il colpo
dell’offesa ricevuta; così quegli che ascolta parole affabili e che accetta
l’offerta accompagnata da una voce confortatrice, si rallegra maggiormente e
gioisce, e il soccorso a lui largito gli si duplica per le buone maniere onde è
porto. E queste cose non dico da me stesso, ma secondo colui che ha fatta la
prima esortazione: "Figlio, dice, nel beneficare non recare vituperio, e
in ogni dono non recare dolore con le tue parole; non forse la rugiada lenirà l’arsura?
così é migliore la parola che il dono. Ecco che la parola é al di sopra della
buona largizione e l’una e l’altra sono presso l’uomo che gode fama di
giusto" (Eccl. 18,15-17). Né solo giusto e longanime dev’essere chi
soprintende alle vedove, ma non deve esser da meno come amministratore; il che
se manchi in lui, trarrà a non minor rovina le sostanze dei poveri. Già taluno
cui fu affidato questo ministero e che aveva radunato molto oro, non se lo
divorò lui, ma neppur lo spese a vantaggio dei bisognosi, tranne di pochi; la
maggior parte ripose e conservò fino a che sopraggiunto il tempo perverso, lo
abbandonò nelle mani dei nemici. C’è bisogno dunque di molta previdenza, si da
non prodigare né lesinare le provvigioni della Chiesa, ma distribuire subito ai
poveri le somme offerte e radunare i tesori della Chiesa a norma delle
intenzioni dei sudditi. Inoltre l’accoglienza degli ospiti e la cura degli
infermi, qual dispendio di denaro non credi tu che richiedano, quale
sollecitudine e prudenza da parte di chi ne é incaricato? le spese che tali
bisogne richiedono non sono affatto minori di quelle di cui ho detto poc’anzi;
spesse volte di necessità sono anche maggiori: onde chi vi soprintende
dev’essere sagace nel procurare con circospezione e assennatezza, in guisa da
disporre i proprietari a largire i loro beni con zelo e senza rammarico, per
non danneggiare le anime dei donatori mentre provvede al sollievo degli
infermi. Più ancora conviene qui far prova di longanimità e serietà; perché i
malati sono una classe di difficile contentatura e d’animo debole; onde se non
si circondano da ogni parte di premura e di sollecitudine, basta anche quella
piccola trascuratezza per cagionare all’infermo grande tristezza.
Governo e cura delle vergini. Sollecitudini e ansie che ne derivano al
vescovo e al sacerdote che ne é incaricato
XVI. Riguardo poi alla
cura delle vergini é tanto più grande il timore quanto più eccellente é
l’oggetto e quanto più regale é questo atto in confronto degli altri; invero
anche nella schiera di queste sante persone si sono già introdotti
numerosissimi soggetti ripieni di innumerevoli mali; onde é maggiore in questo
caso l’affanno. Or come non é eguale cosa se cada in fallo una fanciulla libera
o la sua ancella, così anche v’è differenza fra la vergine e la vedova. Per
queste ultime infatti é cosa indifferente il far leggerezze, l’ingiuriarsi a
vicenda, l’adulare, il mostrarsi sfrontate, l’apparire dappertutto e
gironzolare per la piazza; ma la vergine si é disposta a più alto certame ed é
emula d’una più alta filosofia; professa di mostrare sulla terra la condizione
degli angeli e si propone di effettuare, pur circondata di questa carne, le
virtù proprie delle potenze incorporee; onde a lei non s’addice il far lungi e
escursioni, né le si permette di affastellare parole inutili e vane; di
contumelie poi e di adulazioni non deve conoscere neppure il nome; per queste
ragioni essa ha bisogno di più accurata custodia e di maggior soccorso, ché il
nemico della santità sempre più fiero le fronteggia e assedia, pronto, se
taluna vacilli e cada, a ingoiarsela; molti poi sono gli uomini insidiatori, e
a tutto ciò s’aggiunge l’imperversare della natura; onde debbono schierarsi
contro doppio ordine di nemici: quelli che assalgono all’esterno e quelli che agitano
nell’interno. Grande pertanto é il timore di chi vi presiede, maggiore ancora
il pericolo e l’affanno se talvolta (ciò che non accada mai) gli venisse
commesso qualche fallo involontario. Ché se "la figlia rinchiusa toglie il
sonno al padre" (Eccl. 42,9) e l’ansia a riguardo di lei lo tiene sveglio,
sì grande essendo il timore ch’essa non rimanga sterile, o che trapassi l’età
buona, o che sia disamata dal suo fidanzato; quale fiducia avrà colui che ha da
affannarsi non per questi motivi, ma per altri di questi assai maggiori? Qui
non l’uomo viene tradito, ma lo stesso Cristo; né la sterilità genera solo
infamia ma il danno di essa finisce con la rovina dell’anima. "Ogni
albero, dice, che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato sul fuoco"
(Mt. 3,10); e quando sia odiata dallo sposo non basterà prendere il libello di
ripudio, e andarsene, ma s’avrà in pena dell’odio la punizione eterna. Inoltre
il padre carnale ha molti mezzi che gli rendono agevole la custodia della
figlia: v’è la madre, la nutrice, lo stuolo delle ancelle; la sicurezza della
casa poi viene in aiuto al genitore per la custodia della vergine. Non le si
permette di uscire continuamente in piazza, né qualora vi si rechi é
necessitata a mostrarsi ad alcuno di quelli che s’incontrano con lei, giovando
l’oscurità della sera non meno delle mura domestiche, per velare colei che non
vuol farsi vedere; s’aggiunga a tutto ciò ch’essa é libera da ogni causa che la
potrebbe forzare a mostrarsi in presenza d’uomini, perché né la sollecitudine
delle cose necessarie né le macchinazioni degl’iniqui, né altro simile motivo
la costringe a questi incontri, avendo essa il padre che s’occupa in vece sua
di tutte queste faccende. Perciò ella non ha che una sola preoccupazione, di
non fare né dire alcuna cosa indegna del decoro proprio del suo stato. Qui
invece molte cause rendono al padre difficile, anzi persino impossibile la
custodia; egli non potrebbe tenerla rinchiusa insieme con lui, ché tale
coabitazione non é né conveniente, né priva di pericoli; se anche essi non ne
soffrono danno e perdurano nel serbare intatta la santità loro, tuttavia per le
anime che hanno scandalizzate, avranno a rendere non minor conto che se
avessero peccato insieme. Or non essendo ciò possibile, non torna facile né
anche l’intuire i moti dell’anima, né reprimere quelli che si agitano
sregolatamente e coltivare sempre più quelli composti e ordinati e guidarli al
meglio; né torna agevole il sistemare le uscite. La povertà e la mancanza di
protezione non gli permettono d’essere diligente indagatore della decenza che
loro si conviene; infatti quando la vergine é costretta a provvedere da se
stessa a ogni sua necessità, ha molti pretesti per uscirsene in giro, qualora
voglia far disordini; ci vuole pertanto qualcuno che imponga loro di rimanere
sempre e in casa e tolga di mezzo simili occasioni, procurando loro sia la
sufficienza del necessario sia una persona la quale presti loro servizio per
questi bisogni; é d’uopo anche impedirle di recarsi ai funerali e alle vigilie;
perché quell’astuto serpente sa spargere il suo veleno anche fra le opere
buone, onde bisogna che la vergine se ne stia trincerata e poche volte in tutto
l’anno esca fuori di casa, quando motivi imprescindibili e urgenti ne la
costringano.
Che se taluno dicesse
non esservi affatto bisogno che il vescovo compia direttamente alcuno di questi
uffici, sappi bene che le preoccupazioni e i biasimi riguardo a ciascuno d’essi
si rivolgono sempre a lui. E’ molto meglio ch’egli disimpegnando da se stesso
ogni faccenda eviti le accuse che è giocoforza sopportare in grazia de’ falli
altrui, piuttosto che scaricandosi del ministero, paventare le punizioni dovute
a ciò che altri ha commesso. Inoltre colui che esercita da se stesso queste
cariche, compierà ogni cosa con molta agevolezza, mentre invece chi ha da far
ciò dopo d’aver persuaso la volontà di tutti, non riceve dall’aver rinunziato a
far da sé un sollievo corrispondente alle noie e agitazioni cagionategli dai
contraddittori e da quelli che si opporranno alle sue decisioni. Ma non potrei
enumerare tutte le preoccupazioni relative alle vergini; già quando si tratti
di iscriverle esse arrecano brighe non ordinarie a chi é incaricato di questa
amministrazione.
Difficile compito dell’amministrare la giustizia con imparzialità.
Pericoli che possono presentarsi al vescovo per la suscettibilità delle varie
classi di persone a cui deve usare cortesia.
XVII. La parte poi che
riguarda i giudizi arreca infiniti pesi, grande fatica e tali difficoltà, quali
non incontrano neppure i giudici dei tribunali civili. Ché difficile é trovare
il giusto, e che colui che lo trova non lo corrompa. Né solamente fatica e
difficoltà, ma vi si incontra pure non lieve pericolo; già taluni dei più
deboli essendo stati coinvolti in processi, né trovando protezione, finirono
per naufragare nella fede. Poiché molti offesi non meno degli offensori
detestano chi non li soccorre, e non vogliono considerare né l’intricatezza
delle questioni, né la tristezza delle circostanze, né la dignità
ecclesiastica: sono giudici inesorabili che conoscono una sola difesa, cioè la
liberazione dai malanni da cui sono oppressi; chi non é in grado di loro
fornirla, anche se adduca mille ragioni non sfuggirà in alcun modo alla loro
condanna. E poiché ho parlato di protezione, ti svelerò un altro motivo di
biasimi: se colui che occupa la carica episcopale non va ogni giorno in giro
per le case come un vagabondo, ne vengono indicibili malcontenti. Non solo gli
ammalati, ma anche i sani vogliono esser visitati, indotti a ciò non da riverenza,
ma piuttosto per pretesa d’onore e di considerazione. Che se per l’urgenza di
qualche bisogno e a vantaggio della comunità ecclesiastica gli accada di
visitare più assiduamente alcuno dei più ricchi e potenti, subito gliene verrà
taccia di servilismo e di adulazione. Ma che parlo io di protezione e di
visite? anche solo dal modo di salutare sopportano tal peso di accuse da
esserne sovente oppressi e abbattuti per lo scoraggiamento; persino degli
sguardi hanno da rendere ragione; molti poi sottopongono a rigoroso esame ciò
che quelli fanno ingenuamente, indagano sul tono della voce, sull’espressione
degli occhi, sulla misura del sorriso: "al tale, dicono, ha rivolto il
discorso con sorriso marcato, con aspetto giulivo e voce sonora; a me invece
guardò poco e trascuratamente"; e se quando parla e molti stanno seduti
insieme con lui, non porta l’occhio in giro da ogni lato, una parte di loro se
ne adonterà come d’un insulto.
Chi dunque se non
assai forte, potrà resistere a tali accusatori sia per sfuggire a ogni loro
imputazione, sia per purgarsene dopo che gli fu inflitta? per vero bisognerebbe
non aver affatto accusatori; ma se ciò é impossibile, almeno bisognerebbe poter
liberarsi dalle loro accuse; che se anche ciò torna difficile e taluni si
dilettano nel muovere querele, allora bisogna resistere fortemente
all’abbattimento che ne deriva. Più facilmente sopporterebbe l’accusatore chi
fosse incolpato per giusto motivo; ché non essendovi giudice più fiero della
coscienza, quando siamo sopraffatti da questo che é più terribile, sopportiamo
più facilmente quelli esterni che sono più benigni. Ma colui che non ha a
rimproverarsi alcuna colpa, qualora venga accusato senza cagione si eccita
tosto a sdegno e si abbatte facilmente nello scoraggiamento, se prima non si
sia esercitato a sopportare le noie del volgo; ché non é possibile che uno
falsamente accusato e condannato non si conturbi e non soffra qualche cosa per
tanta iniquità.
Ma chi direbbe poi le
afflizioni che debbono soffrire quando sia necessario espellere qualcuno dalla
comunità ecclesiastica? e fosse pure che il male consistesse solo
nell’afflizione l ma v’è anche non poca rovina; poiché v’è timore che punito
oltre i giusti limiti quegli patisca ciò che fu detto dal beato Paolo, e venga
assorbito da eccessivo dolore. Onde anche qui occorre gran diligenza affinché
un mezzo di giovamento non diventi per lui occasione di un danno maggiore. Come
un medico che non avesse inciso convenientemente la ferita, egli subirà in
comune l’ira di Dio, eccitata da ciascuna delle colpe che quegli commetterà
dopo una simile cura. Or quali punizioni dovrà attendersi, quando uno non deve
solo rendere ragione delle mancanze da lui commesse, ma trovasi esposto a
estremo pericolo anche per i falli altrui? Che se dovendo dar conto delle
nostre proprie mancanze noi paventiamo di non poter sfuggire a quel fuoco, che
cosa dovrà aspettarsi di soffrire chi avrà a difendersi da tante colpe? Che poi
ciò sia vero, odi il beato Paolo che lo dice, o piuttosto non lui ma Cristo che
in lui parla: Ubbidite ai vostri capi e assoggettatevi a loro perché essi
vegliano sulle anime vostre come quelli che hanno da renderne conto. È questo
dunque un lieve timore? non è possibile affermarlo. Ma tutte queste cose
bastano per convincere anche i più increduli c ‘restii, che io ho deciso quella
fuga non perché accecato da arroganza e vanagloria, ma solo perché temevo di me
stesso e per riguardo alla maestà dell’ufficio.
NOTA: le citazioni
sono spesso riportate, dallo stesso Crisostomo, a memoria, lievemente
modificate o abbreviate per motivi stilistici, nei casi in cui sono testuali è
utilizzata la LXX o la Volgata
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