martedì 27 agosto 2013

Il monachesimo italiano dal Maestro a san Benedetto; la regola benedettina

                                                      di Salvatore Pricoco  
estratto da "Storia del cristianesimoL’antichità"
a cura dGiovanni Filoramo e Daniele Menozzi - Editori Laterza

Dopo la grande stagione del monachesimo provenzale, e cer­tamente anche per suo influsso, nel VI secolo hanno luogo in Ita­lia gli episodi di più forte e creativo rinnovamento monastico. Nelle regioni centromeridionali, sotto l’influenza ravvicinata del­la chiesa di Roma, vengono redatte le due regole più importanti e originali, quella del Maestro e quella di san Benedetto, e si svi­luppa in alcuni monasteri - come quelli di Fulgenzio in Sardegna e di Eugippio in Campania - un fecondo dibattito dottrinale sul­le idealità monastiche, sull’arianesimo, sul pensiero di Agostino.
Secondo il racconto tradizionale Benedetto nacque a Norcia nel 480 da una famiglia cospicua. Mandato a Roma per comple­tare gli studi, ne ebbe presto disgusto e abbandonò la città per una vita più ritirata, e dopo avere vissuto per tre anni in assoluta solitudine in una spelonca presso Subiaco, allorché si raccolse at­torno a lui un gruppo di discepoli attratti dalla sua virtù e dai suoi prodigi, li organizzò in dodici piccole comunità. Più tardi, lasciò i monasteri sublacensi per dare vita in una località ancora dedita a culti pagani, presso Frosinone, a un’unica, più grande comunità monastica: l’abbazia di Montecassino. Per essa il Santo scrisse la sua Regola gloriosa e in essa, dopo quasi vent’anni impegnati nel­le opere di costruzione del convento, nell’evangelizzazione delle popolazioni circostanti, in un’esistenza fitta di atti miracolosi e di pratiche virtuose, si spense, tre giorni dopo la sorella amatissima, Scolastica. In realtà questo racconto non ha alcun fondamento documentario. Esso è ricavato dai Dialogi di Gregorio Magno, l’o­pera che l’insigne papa scrisse tra il 593 e il 594 sui santi italiani e i loro miracoli, riservando in essa a Benedetto l’intero libro se­condo. Ma i Dialogi sono l’opera forse più discussa di tutta la letteratura altomedievale, oggetto di dibattito critico non meno che di scontri ideologici da quando, a partire dagli storici prote­stanti del XVI secolo, ci si è chiesti come fosse possibile colloca­re nella produzione letteraria di Gregorio un’opera di scoperta affabulazione popolaresca come i Dialogi e accordare il loro bas­so livello letterario, l’ingenuità dei racconti, il miracolismo esage­rato con l’alta dottrina e la spiritualità del grande papa. Non so­no stati pochi, perciò, gli studiosi che si sono pronunciati per l’atetesi dell’opera. Più di recente alcuni, di conseguenza, hanno fi­nito col negare qualsiasi valenza documentaria alle pagine su Be­nedetto (rappresentato come «uomo di Dio», asceta di insupera­bile virtù e, più ancora, operatore infaticabile di miracoli di ogni tipo, guaritore, suscitatore di morti, veggente, mai come legisla­tore sapiente e creatore geniale di nuove forme monastiche), han­no rifiutato l’identificazione del Benedictus al quale la maggior parte dei manoscritti attribuisce la Regola con l’eroe del libro gre­goriano, hanno addirittura posto in dubbio che sia realmente esi­stito il personaggio del quale una storia millenaria ha fatto il fon­datore del cenobitismo europeo.
Oggi non è più questione della realtà storica di Benedetto e le posizioni di massimalismo e oltranzismo critico hanno ceduto a convincimenti più equilibrati. Nel racconto dei Dialogi si ricono­sce, al di là del soverchiante impianto affabulatorio, un sostrato sto­rico verificabile; l’attività di Benedetto nell’area circostante a Ro­ma e il suo ruolo di fondatore di monasteri e di animatore di espe­rienze monastiche nuove non sono più in discussione. E se non so­no più accettabili le date entro le quali la tradizione ha inscritto la biografia di Benedetto, la progredita conoscenza del quadro storico complessivo, una diversa e più puntuale ricognizione dei rifles­si che la società dell’epoca ha lasciato nel testo benedettino, un più attento confronto con la legislazione imperiale, con le altre regole monastiche, con i testi letterari e biblici in circolazione consento­no di fissare riferimenti temporali non perentori, ma di grande ve­rosimiglianza e buona approssimazione. Il 490-500 per la nascita, il 530 circa per l’arrivo a Montecassino, il 560 circa per la morte so­no le date sulle quali si è oggi realizzato il consenso quasi unanime degli studiosi. Entro di esse, dalla maturità alla morte del Santo, non è possibile assegnare una data precisa alla redazione della Re­gola. Di qualche capitolo è rintracciabile il terminus post quem o quello ante quem in virtù delle fonti che vi sono utilizzate, ma l’ar­co di tempo che se ne ricava è assai ampio e può estendersi anche a un trentennio: verosimilmente, il trentennio del soggiorno di Be­nedetto a Cassino, tra il 530 e il 560.
Sostanzialmente chiusa appare oggi anche l’altra questione (peraltro strettamente connessa alla prima), riguardante l’origi­nalità della regola benedettina. La Regola di Benedetto coincide in modo manifesto, nei contenuti e nella struttura, con un altro testo, la cosiddetta Regola del Maestro. Nella parte iniziale, dal prologo al capitolo settimo, la coincidenza è letterale, parola per parola; nel resto vi sono forti e continue analogie di contenuto; solo gli ultimi sei capitoli, dal 68 al 73, non trovano riscontro nel­la Regula Magistri. Questa è la più lunga delle antiche regole la­tine (più che tripla rispetto alla Regola di Benedetto, doppia ri­spetto a quella di Basilio tradotta da Rufino) e la più ricca sia di precetti riguardanti la prassi monastica che di considerazioni teo­riche sulla spiritualità ascetica. Per molto tempo le macroscopi­che analogie tra le due regole non hanno inquietato i loro lettori e la Regula Magistri, rimasta a lungo pressoché ignorata, fu rite­nuta nient’altro che una tardiva e prolissa amplificazione della re­gola benedettina. Ma alla fine degli anni Trenta alcuni studiosi ro­vesciarono il rapporto tradizionalmente accettato e sostennero che la Regula Magistri non è un’imitazione, ma la fonte primaria della Regula Benedicti. Ne derivò, specialmente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, una controversia accesissima, poiché riconoscere il testo benedettino tributario sino al calco letterale di una regola precedente significava incrinare consolidate certez­ze storiografiche e chiedersi fino a che punto fosse lecito conti­nuare a vedere in Benedetto il grande, unico padre del monachesimo europeo.
Oggi si riconosce quasi da tutti l’anteriorità del Maestro ri­spetto a Benedetto. Ricche e approfondite analisi sono venute mo­strando l’unità compositiva e stilistica della Regula Magistri e tut­ta una serie di peculiarità (nella lingua, nella completezza e con­cretezza normativa, nell’utilizzazione delle fonti, nella liturgia) che attestano in essa un testo elaborato organicamente e con ori­ginalità. Meglio inserita nel quadro della prima legislazione mo­nastica, la Regula Magistri appare anche meno misteriosa; sono via via cadute molte delle proposte, talune criticamente inconsi­stenti e persino bislacche, sull’autore, sul luogo e la data di reda­zione. Essa viene oggi datata ai primi decenni del VI secolo, non prima del 500 circa, poiché non sono anteriori a questa data ta­luni scritti, come la Vita s. Silvestri, dei quali si colgono in essa tracce indubitabili, né dopo Eugippio, che intorno al 530 ne tras­se numerosi escerti per la sua regola-centone. Il luogo della re­dazione, dopo le tante proposte avanzate - dalla Dacia e dall’ambiente di Niceta di Remesiana al Norico di san Severino, dal­la Calabria di Cassiodoro alla Spagna, dalla Gallia del monastero del Giura o dell’isoletta di Lérins all’Italia settentrionale e Bob­bio - viene oggi collocato nell’Italia centrale, in una zona d’in­fluenza romana.
Dall’altro canto sono stati rintracciati nella Regula Benedirti sia significativi elementi di seriorità (nella liturgia, nella lingua ecc.), sia i procedimenti con i quali il legislatore di Cassino ha uti­lizzato la sua fonte. Essa non fu scritta di getto, da un teorico del­la vita monastica che vi abbia atteso a tavolino, nel chiuso del suo studio, ma, al contrario, fu composta, per così dire, sul campo, cioè nella concreta sperimentazione dell’esperienza vissuta e con­tinua, da persona che si sia scontrata con le difficoltà e le esigen­ze della realtà quotidiana e ne sia stata con frequenza indotta a rivedere, riconsiderare, tornare indietro, modificare punti di vista e soluzioni normative. La personalità del legislatore è quella di uno spirito eminentemente pragmatico e perciò alieno dalle dis­sertazioni teoriche magniloquenti e anche bizzarre del suo mo­dello, ma giammai dimentico dei fini unicamente spirituali della militanza monastica e perciò più attento al progresso spirituale dei fratelli che alle occupazioni concrete e agli adempimenti del­le opere giornaliere, più compreso dell’alto compito pastorale dell’’abate, responsabile di fronte a Dio (è una notazione ricorrente nella regola) delle loro anime, che degli aspetti pratici della dire­zione, interessato a comporre i fondamenti spirituali della prassi cenobitica in una prospettiva rinnovata. Senza dimenticare la ne­cessità del rapporto verticale, tra l’abate e il monaco, ora l’accento viene posto sui rapporti orizzontali, quelli che si stabiliscono tra i fratelli con l’applicazione costante della carità, la principale del­le virtù predicate dal precetto evangelico. Si fa sentire più netta­mente, tra tutte le voci della tradizione, l’influenza di Agostino e del suo concetto del cenobio, nel quale i monaci interiorizzano la loro personalità a immagine di Cristo donandosi ai fratelli in un continuo rapporto di mutua misericordia e di amore.
Oltre che con Agostino, Benedetto ha debiti continui con tutta la tradizione, e non soltanto in materia di dottrina e di istituzioni, ma nella struttura, nell’uso di immagini e metafore, nel vocabola­rio, perfino in talune movenze dello stile. Questo fitto ordito indi­ca in lui, di contro al mito storicamente inconsistente del legislato­re genialmente rivoluzionario, creatore ex nihilo di un nuovo ordi­ne religioso, l’accorto erede della tradizione, l’abate sagace che ha fornito le sue comunità del frutto prezioso della sapienza monasti­ca ricevuta dai suoi predecessori. Tutti i padri del monachesimo oc­cidentale furono consapevoli di essere eredi del passato, di un pa­trimonio comune da conservare e trasmettere. Il testo benedettino fu più apprezzato di altri non per la sua originalità, ma per la ra­gione opposta, cioè perché sembrò, più e meglio di altri, una sinte­si della precedente esperienza monastica: è questo il fondamento critico della comparazione con le altre regole che ne fece in età ca­rolingia Benedetto di Aniane e del primato assegnatogli su tutte. Felicità della sintesi, equilibrata moderazione e vigile senso della misura (omnia mensurate fiant, è detto nel cap. 48), capacità di discernimento, realismo mai disgiunto dalla considerazione dei fini superiori, giusto rapporto tra prassi e teoria, chiarezza del proget­to pedagogico: queste, e altre ancora, sono le qualità che sogliono essere riconosciute a Benedetto. Per esse la sua regola, a differenza di quasi tutte le altre, non è diventata documento di mero inte­resse storico-archeologico, ma è stata per secoli, e continua a esse­re, strumento di attiva e concreta vita monastica.
D’altra parte la diffusione della regola benedettina fu tutt’altro che rapida. Per più di due secoli, dopo la morte di Benedet­to, essa non fu né largamente nota né diffusamente applicata. Do­po la distruzione di Montecassino a opera dei Longobardi (577 ca.) e l’esodo dei monaci cassinesi non conosciamo fondazioni be­nedettine nell’Italia suburbicaria né altrove; non furono di osservanza benedettina i monasteri romani e quello stesso di Sant’Andrea, nel quale condusse vita monastica Gregorio Magno. Fatta eccezione per le allusioni di Gregorio nei Dialogi, la prima men­zione della Regola si legge in una lettera che Venerando, fonda­tore e abate del convento di Altaripa nell'Aquitania, inviò intor­no al 620-630 al vescovo di Albi, Costanzo. Per tutto il VII secolo il codice benedettino è menzionato assieme ad altre regole, co­me un testo al quale ispirarsi per trarne - secondo la consuetudi­ne della regula mixta - suggestioni e precetti, ma senza farne il re­golamento imperioso e univoco della vita conventuale; echi e accenni negli scritti agiografici o in qualche canone conciliare non bastano a provarne l’uso esclusivo nei monasteri franchi. Fu solo nel secolo Vili che la Regula Benedirti cominciò ad avere diffu­sione europea, per finire poi - per volontà della monarchia caro­lingia - con l’imporsi sulle altre. Da allora, per secoli, l’Europa monastica sarà largamente benedettina.
Il nuovo introdotto da Benedetto nella prassi conventuale fu tutt’altro che rivoluzionario. In generale, c’è nella Regola di Be­nedetto un’attenzione più viva per i rapporti all’interno della co­munità, che trae origine non solo dalla lezione agostiniana e dal­lo spirito pragmatico del legislatore, ma anche da una condizio­ne di più allentata pressione gerarchica e di cresciute resistenze all’interno della comunità nei confronti dell’autorità dell’abate. Molta attenzione è dedicata alle norme sull’ingresso nel cenobio (cap. 58), poiché, a causa dei mutamenti sociali determinati dal lungo e rovinoso conflitto goto-bizantino e delle condizioni di mi­seria e di insicurezza, il monastero appariva spesso l’unica via al­la sopravvivenza. La volontà della comunità di difendere l’acces­so al chiostro ed evitare che il monastero diventi il rifugio di emar­ginati, fuggiaschi, miserabili è evidente in tutte le regole mona­stiche antiche e tutte hanno cercato di saggiare nei postulanti la sincerità della vocazione e la consapevolezza dei propositi. Com­plessivamente Benedetto non rende più difficili i riti e le condi­zioni per l’ammissione; le prove dì tolleranza e umiltà che Paco- mio richiedeva al postulante in attesa alla porta del monastero era­no certamente più dure e spettacolari; più aspre erano quelle pre­viste dalle Regole dei Padri.Ma ora vengono moltiplicate le riser­ve per assicurarsi se il postulante «cerca veramente Dio», revera Deum quaerit, vengono infittite le messe in guardia sulla radica­lità dei mutamenti di vita che l’ingresso nel monastero comporta e sulla loro irreversibilità. Benedetto è ancora più cauto e difen­sivo del Maestro; egli abbrevia e sintetizza, come è suo costume, la sua fonte e ne attenua il tono inquisitorio e ostile, ma le limi­tazioni opposte al candidato sono in lui, sin dal secco ammoni­mento iniziale, più aspre e perentorie; la rapidità formulare con la quale lo avverte di come sia dura la via del Signore e inammis­sibile il ritorno allo stato laicale è indubbiamente più scoraggian­te delle lunghe e minacciose allocuzioni del Maestro.
Trova frequente espressione, anche, la consapevolezza della debolezza dei fratelli e della decadenza dei loro costumi rispetto agli antichi modelli. Da qui una costante tendenza a mitigare gli obblighi e le fatiche della giornata monastica e a rivedere il regime penale. Il complesso delle pene previste per reprimere e cor­reggere le infrazioni, se continua ad ammettere, com’era nello spi­rito dei tempi, lo scopo punitivo della norma e prevede senza troppe esitazioni la vindicta corporalis, cioè l’uso del bastone e del­la sferza, è complessivamente meno puntiglioso e fiscale, più misericordioso e più spesso ispirato dalla volontà di comprendere l’errore e di recuperare gli erranti. Per quanto riguarda la prassi quotidiana, sia in rapporto al Maestro che alle regole più antiche, sono diventati più brevi i tempi della preghiera comune e della li­turgia, è allungato il periodo estivo, che accorcia l'ufficio nottur­no, è meno severo il regime dei digiuni. I capitoli sul regime li­turgico hanno un’accuratezza nuova. Il servizio divino ha un ruo­lo prioritario rispetto agli altri adempimenti della vita conventuale e costituisce lo strumento primario per la formazione spirituale del monaco. Il suo andamento più svelto in confronto al Maestro e all’ufficio romano classico è da mettere in relazione con la di­versa strutturazione imposta alla giornata monastica dalle nuove esigenze lavorative.
Il capitolo che è sembrato più nuovo di ogni altro è il cap. 48, sul lavoro, quello, per intenderci, dal quale deriva il precetto con cui si suole indicare l’essenza del monachesimo benedettino: ora et labora. Esso prevede il lavoro nei campi, ancora escluso dal Maestro, e fissa le ore lavorative e quelle destinate alla preghiera tenendo presenti le esigenze del lavoro nelle diverse stagioni. Ma vi si fa largo spazio anche alla lettura. Da Pasqua a ottobre i monaci sono tenuti a lavorare dalla prima ora alla quarta, dalla quar­ta alla sesta attendano alla lettura, lectioni vacent. Negli altri sei mesi, da ottobre a Pasqua, l’ordine è invertito: si attende alla let­tura al mattino, fino all’ora seconda, poi si va al lavoro. Nei giorni di quaresima la lettura è protratta sino all’ora terza; inoltre, all’inizio della quaresima, tutti riceveranno un libro dalla biblioteca e lo leggeranno per intero, ordinatamente dal principio alla fi­ne.

 In realtà, dunque, la celebre formula con la quale si suole compendiare la giornata del monaco benedettino, deve essere completata così: ora, labora et lege, «prega, lavora e leggi». Ed è per merito di questa triplice prescrizione che si è svolta nei secoli quell’opera preziosa di conservazione e trasmissione della cultu­ra di cui siamo debitori agli antichi monasteri e, in particolare, a quelli benedettini.
Accanto alle grandi figure del Maestro e di Benedetto, ci sono anche altri personaggi da recuperare nel quadro del monachesimo del VI secolo. Da un monastero della Sardegna vandala, dove visse in esilio fino alla morte di Trasamundo (nel 523), il più alacre teo­logo di questi decenni fu l’africano Fulgenzio, che diffuse i suoi scritti contro l'arianesimo ed ebbe tra i suoi interlocutori vergini consacrate, come la nobile Proba, o monaci illustri, come Eugippio, abate del Lucullanum presso Napoli. E una rete di relazioni, questa, di non piccolo significato. Proba era un’aristocratica, forse la figlia di Quinto Aurelio Simmaco e perciò imparentata con Cas­siodoro e Boezio; a lei Dionigi il Piccolo dedicò la traduzione del­la Vita di Pacomio; Fulgenzio le inviò due lunghe lettere sulla ver­ginità, l’umiltà e la preghiera e ne esaltò le eccezionali virtù cristia­ne nella lettera alla sorella di lei, la vedova Galla. Era una donna colta, che possedeva una biblioteca notevole, nella quale erano ac­colti scritti di Agostino, gli stessi (almeno in parte) dai quali Eugippio trascelse un florilegio, che le dedicò. A comporre questa sil­loge di Excerpta Augustini l’abate del Lucullano probabilmente si servì della biblioteca di Proba, mentre alla biblioteca del Luculla­no fece ricorso Fulgenzio. Con Eugippio fu in relazione anche Fer­rando, il biografo di Fulgenzio, il quale indirizzò all’abate campa­no due lettere, una delle quali è un breve trattato dogmatico sulle differenze tra arianesimo e fede cattolica, stilato per rispondere al­le domande che un nobile goto aveva rivolto a Eugippio. Risulta evidente, dunque, la presenza di questo monastero campano nel di­battito culturale di questi anni e indubbia l’opera di promozione e veicolazione da esso svolta almeno in un settore: quello della co­noscenza dell’opera e del pensiero di Agostino. E si tratta di un te­ma di grande importanza per la comprensione del monachesimo italiano di questi anni, se si tiene presente, oltre al sicuro legame che l’agostinismo costituisce tra questi tre personaggi e i diversi ambienti che li esprimono, la crescente rilevanza che gli esegeti mo­derni sono venuti attribuendo alla presenza di Agostino nella Re­gola di Benedetto. Eugippio fu autore, oltre che della raccolta di escerti di Agostino, di una Vita di s. Severino del Norico e di una Regula mixta, redatta in anni prossimi alla morte (intorno al 530) e che accoglie due testi della Regola di Agostino e 45 estratti dalle re­gole di Basilio (nella traduzione di Rufino), del Maestro, di Paco- mio (nella traduzione di Girolamo), da Cassiano, dalla Regola dei quattro Padri. Non si tratta di semplici estratti di lettura, ma di un florilegio compilato con un ordine logico e con una destinazione pratica, cioè di una regola-centone, redatta per essere applicata in un monastero. Tra il Maestro e Benedetto ecco dunque un altro le­gislatore operare in questa parte dell’Italia. La sua regola-centone ha le dimensioni cospicue delle due grandi regole italiane ed è sul­la loro linea nella selezione delle fonti. Anche Eugippio accoglie le voci delle massime tradizioni monastiche, l’Africa di Agostino, l’E­gitto di Pacomio, l’Oriente di Basilio, la Gallia di Cassiano e, pro­babilmente, della Regola dei quattro Padri; addirittura egli sembra precorrere Benedetto nel privilegio accordato ad Agostino e al Maestro e dunque alla cooperazione di due concezioni della vita monastica, quella più severa e più autoritaria della tradizione egi­ziana, e quella più mite, caritatevole e unanimistica di Agostino.
In conclusione, se nel V secolo era stata la Provenza, con le comunità di Lérins e di Marsiglia, con il rifiuto delle tesi pelagiane ma anche dell'agostinismo più intransigente, con l’elaborazio­ne delle prime regole occidentali, a diventare il più fervido e crea­tivo centro monastico dell’Occidente, nel VI secolo è l’Italia, e più precisamente l’Italia centro-meridionale, a diventare la patria delle iniziative monastiche più importanti e durature. Nel meri­dione italiano, in Calabria, a Squillace, dopo la metà del secolo Cassiodoro fonda un monastero, il Vivarium, che non ebbe vita lunga e si estinse quasi sicuramente con il suo fondatore, ma svol­se un grande ruolo nella cultura del tempo. Vi fu costituita una ricca biblioteca e per i monaci del Vivarium Cassiodoro fece tra­durre numerose opere greche. Egli stesso compose per loro quel­le Institutiones che restarono per secoli uno degli scritti fondanti della cultura medievale.




P. Benedictus Gottwald, Catalogus codicum manu scriptorum qui asservantur in Bibliotheca Monasterii O.S.B. Engelbergensis in Helvetia, Freiburg im Breisgau 1891, p. 100.

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