mercoledì 2 ottobre 2013

Santuario di Montevergine

Mamma Schiavona. Leggenda e tradizione
Placido Mario Tropeano
Origine del santuario



L'abbazia di Montevergine da quasi nove secoli è il più noto e venerato santuario mariano della Campania, meta di pellegrinaggio anche nei periodi storici più duri; è considerata una specie di casa comune, situata in un appartato pianoro a 1270 m di altitudine, che domina la città di Avellino e l'ampia vallata del Sabato; fu fondata da un pellegrino diretto in Terra Santa, Guglielmo da Vercelli, il quale si ritirò sul monte detto Vergine, perché non ancora raggiun­to e contaminato da strutture fatte dalle mani dell'uomo, con lo scopo dichiarato di vivere solo con Dio.
Ma la solitudine non durò a lungo e il silenzio fu interrotto da schiere di pellegrini, i quali sempre più numerosi vi accorrevano per chiedere all'uomo di Dio una preghiera e una benedizione. Molti, passando dall'ammirazione all'imitazione, chiesero di divenire suoi discepoli, tra cui un gruppo di sacerdoti. Fu così necessario provve­dere alla costruzione di un ospizio per i pellegrini, di una chiesa per il servizio divino e di un monastero per la nascente nuova famiglia religiosa.
Durante la costruzione del complesso monastico arrivò un artista di nome Gualtiero il quale, nei lavori di fortificazione della nuova città di Aversa normanna, era caduto da una impalcatura e aveva riportato la frattura di un braccio; per l'intercessione di San Gu­glielmo ritrovò l'articolazione dell'arto, vestì l'abito monastico e dipinse il dossale, detto Madonna di San Guglielmo, in atto di porgere la mammella al bambino Gesù. Fu la prima icona esposta alla venerazione dei pellegrini, stilisticamente più bella e più valida della Mamma Schiavona, che arriverà nell'ultimo decennio del XIII secolo.
Nella Pentecoste del 1126, il vescovo Giovanni di Avellino consacrò la chiesa e tenne a battesimo la nuova famiglia monastica, che entrò ufficialmente nella storia della Chiesa col nome di congrega­zione di Montevergine.
Era l'epoca esaltante per il Mezzogiorno d'Italia, in cui le gesta gloriose di un principe normanno stavano riunendo sotto un'unica corona i popoli italici, longobardi e bizantini. Il re Ruggiero, dopo aver sottoposto il servo di Dio alla prova del fuoco, "non ebbe altri più caro e più intimo di San Guglielmo", scorse nella nascente congregazione verginiana un germoglio autoctono, a cui affidare la pacificazione degli animi nelle terre di nuova conquista, le opere di bonifica e di ripopolamento nelle zone abbandonate e disabitate,
L'assistenza ai viandanti e ai soldati lungo le strade di grande co­municazione.
Il Messaggero di letizia e di concordia, San Guglielmo trascorse gli ultimi anni della sua vita in assidui viaggi apostolici per l'impianto di nuovi monasteri in diverse parti del Regno normanno. Dovunque si stabilirono, i monaci di Montevergine portarono e diffusero la devozione verso la Vergine del Partenio e organizzarono pellegri­naggi alla loro casa madre, la quale potette così ben presto divenire il santuario mariano più famoso e più accorsato del regno. In questo contesto storico il pellegrinaggio al santuario di Montevergine non stava "a ligare le memorie tradizionali dell'antica con la moderna civiltà" e tanto meno si svolgeva "con gli stessi riti tradizionali di un'antichità remotissima di cui s'ignora l'origine".
All'origine si trova un movimento spontaneo di attrazione a carat­tere religioso verso un luogo misterioso, dove un uomo di Dio ope­rava cose meravigliose; solo dopo la costruzione di un ospizio per l'accoglienza e di una chiesa per la preghiera di fronte a un dossale, dipinto da un artista miracolato e monacato, dietro la spinta pro­pagandistica dei monaci, quel movimento conquistò nuovi spazi e si trasformò in pellegrinaggio mariano.
Un documento del 1139, a poco più di dieci anni dalla fondazione, accenna al significato morale e al valore salvifico del pellegrinaggio al santuario di Montevergine. Un certo Fulco di Avella dona alla chiesa di Santa Maria di Montevergine una terra arbustata, allo scopo di ottenere il perdono di tutti i suoi peccati, e aggiunge che a quella chiesa si portavano moltissimi cristiani per trovare la mise­ricordia di Dio e ottenere il perdono dei loro innumerevoli peccati, mediante la potente intercessione della Madonna e la preghiera dei "santissimi e religiosissimi" monaci che ivi abitavano. Lo scambio tra preghiera e beni materiali sta alla base non solo delle offerte deposte dai pellegrini ai piedi dei monaci, ma anche delle grandi donazioni dei principi normanno-svevi e dei privilegi dei re di Sici­lia, da Ruggero II a Manfredi.
Mamma Schiavona
Carlo I d'Angiò, con la vittoria su Manfredi del febbraio 1266 e con la decapitazione del quattordicenne Corradino nell'ottobre 1268, sbaragliò le ultime resistenze sveve e inaugurò la dominazione an­gioina nel Mezzogiorno d'Italia. L'operazione era stata voluta e finanziata dai papi di Roma: Innocenzo IV, deciso a mantenere la supremazia feudale sul Regno di Sicilia, già prima che il ribelle imperatore Federico II chiudesse gli occhi, aveva maturato il pro­posito di trasferire la corona ad altro principe, più rispettoso dei diritti della Chiesa; Clemente IV, papa francese, fIrmò gli accordi con Carlo d'Angiò, facendo assumere alla conquista del regno di Sicilia l'aspetto e il significato di una vera a propria crociata. Il papa infatti dichiarava di sostenerla col denaro raccolto in Europa per la crociata e impegnava il tesoro e il vasellame prezioso della cappella papale; da parte sua Carlo, in segno di sottomissione feu­dale, accettava di pagare un tributo annuo di 8.000 once d'oro e di mantenere 300 cavalieri per la difesa dello Stato pontificio, e inoltre si obbligava a restituire i beni perduti dagli istituti religiosi e ad esentare il clero dal pagamento delle imposte.

Per una maggiore libertà di azione, Carlo I trasferì la capitale da Palermo a Napoli e, per accontentare i cavalieri e i prelati che lo avevano seguito nella conquista del regno, operò un radicale rinno­vamento nei quadri dell'aristocrazia e negli alti gradi dell'esercito, del clero e dell'amministrazione statale. I monaci di Montevergine, che da sempre avevano mantenuto buoni rapporti con le autorità civili, approfittarono del nuovo regime concordatario e della vici­nanza con la capitale, per avviare strettissimi rapporti di amicizia con i membri della famiglia reale e con la nuova nobiltà. La chiesa di Montevergine diventa un punto di riferimento e di approdo per i vivi e per i morti; in essa sorgono una cappella reale e tante altre cappelle gentilizie, dotate di pingui benefici e di sarcofagi di note­vole interesse artistico.
Sono gli anni in cui sulle cime del Partenio, in un'atmosfera di pietà religiosa e popolare mista ai fasti della famiglia reale e delle nobili casate angioine, si verifica l'avvenimento più importante di tutta la storia del santuario: l'arrivo, o l'esecuzione sul posto, di una secon­da icona la quale, quasi per incanto, sostituisce la Madonna di San Guglielmo e ne eredita la devozione, assume il titolo ufficiale di Madonna di Montevergine e dal popolo napoletano, incline ad un rapporto familiare con la divinità, viene invocata con il titolo di Mamma Schiavona.
La Maestà di Montevergine, avendo ereditato quel pizzico di miste­ro già presente intorno alla Madonna di San Guglielmo, fin dalla sua origine è stata circondata da un'aria incantata in cui verità e leggenda, storia e fantasia, fede e superstizione si sono confuse in un nodo inestricabile, che ha resistito ai secoli e alle vicende umane e ha fatto trascurare il tempo in cui fu dipinta, la bottega e l'artista che le diedero corpo, le persone che ne ordinarono l'esecuzione.
Il supporto della pittura, dalle non comuni dimensioni di 4,30 x 2,10 x 0,6 m, è composto da due tavoloni mantenuti insieme da sbarre trasversali nel retro; mentre l'apposito pezzo di legno, su cui è dipinta la testa della Vergine, è di forma ovoidale, dalle di­mensioni massime di 1 m x 85 cm e uno spessore graduale dal basso all'alto dai 2 ai 5 cm, in modo che, una volta sovrapposto e inserito al centro dei due tavoloni, conferisce al volto della Madonna una leggera inclinazione in avanti, quasi a volerne rendere più accessibile e più familiare l'immagine.
Lo schema iconografico si inserisce nella tradizione delle cosiddette "Madonne di San Luca" o "Odeghetrie" tipicamente bizantine: al centro la madre di Dio col figlioletto sulla gamba sinistra, seduta su un trono regale, circondato da una schiera di otto angeli. Il fondo ligneo, non interessato dalla pittura, è ricoperto da una lamina di ottone dorato, sulla quale sono ricavati tanti piccoli rombi con quat­tro gigli angioini lavorati a cesello. Anche le aureole dei singoli personaggi sono in ottone dorato finemente lavorato a cesello con disegno a fiorame.
Maria, dagli occhi aperti con le larghe pupille nere rivolte contem­poraneamente al cielo, al figlio e ai fedeli in qualunque posizione questi si trovino, è l'unica figura veramente bella del grande qua­dro: essa si impone fra gli altri personaggi sia per grandezza sia per ritmo di ascesa religiosa; come in una sinfonia orchestrale essa unifica, riassume e assomma tutti i motivi sviluppati nelle singole parti e raggiunge il vertice più alto dell'arte e della bellezza. Il bambino Gesù, seduto pesantemente sul ginocchio sinistro della madre, alza appena la testolina paffutella alla ricerca dello sguardo materno; i due angeli, genuflessi sulle due estremità della spalliera del seggiolone in atto di menare il turibolo, e gli altri sei, schierati ai piedi della Vergine come per farle corte, sono figure troppo pic­cole rispetto alla principale, rimangono isolati ed estranei alla gran­diosità del quadro e risultano legati a necessità di culto e vincolati da motivi ieratici e rituali.
Tradizione e leggenda

Gli elementi della tradizione sono come tanti tasselli, elaborati attraverso i secoli e messi insieme per la prima volta dal padre Marco De Masellis nel volume Iconografia della madre di Dio Ma­ria Vergine, dato alle stampe nel 1654. Nell'antiporta del volume una ricca fascia incornicia il titolo e, mediante alcuni riquadri comprendenti personaggi e didascalie, ne anticipa e ne illustra il contenuto. La Madonna e San Luca, gli imperatori svevi Enrico VI e Federico II, l'ultimo imperatore latino d'Oriente Baldovino II, il principe angioino di Taranto Filippo e la moglie Caterina II di Valois entrano direttamente nel progressivo sviluppo della tradizione.

Per primo Vincenzo Verace, rifacendosi alla tradizione orale e po­polare, nel manoscritto Chronica Montis Virginis, datato al 1576, accenna alla Imago in tabulis depicta di cui egli non conosce l'au­tore né il tempo in cui fu portata a Montevergine e tuttavia aggiun­ge che molti ritengono sia stata dipinta da San Luca,quod affirma­re nequeo. Nella prima e seconda edizione italiana della stessa opera, pubblicata con la collaborazione di Tommaso Costo, introdu­ce l'espressione "è opera greca donata (come si crede) da Federico Secondo imperatore" e ripete "sono alcuni, che dicono (e così par'es­sere commune opinione fra le genti) che questa Imagine sia opera dell'Evangelista S. Luca, il che benché io non ardisca d'affermare, pur cosa pia mi pare a crederlo".
A proposito del titolo di Madonna di San Luca, attribuito alle im­magini dei più noti e più antichi ,santuari mariani, è opportuno precisarne l'origine e il significato. E noto che l'iconografia mariana si sviluppò dopo il concilio di Efeso del 431 sulla scia dei fini e precisi bozzetti del Vangelo dell'infanzia, in cui San Luca descrive dal vivo le scene dell'Annunciazione, del Natale, della Circoncisione e della Presentazione al Tempio. Fu pertanto facile passare dal bozzetto letterario a quello artistico e trasformare l'evangelista Lu­ca da scrittore a pittore, creando così la leggenda che egli avrebbe dipinto un ritratto della Vergine,ipsa vivente et presente et suam gratiam inferente.
Felice Renda nel 1581, dando alle stampe la Vita Sancti Guilielmi, opera la distinzione della magnae molis figura usque ad pectus in lino depicta tra il medaglione della testa e il resto del quadro, attribuendo al pennello di San Luca solo la prima parte, senza entrare nel merito dell'identità del secondo artista che avrebbe completato il dipinto; precisa inoltre che quel medaglione proveniva da Gerusalemme ed era stato portato a Montevergine dall'impera­tore Enrico VI poco prima del 30 marzo 1195, durante il governo dell'abate Daniele.
L'ultima pubblicazione del XVI secolo è la Historia della città del regno di Napoli, edita nel 1599 da Giovanni Antonio Summonte. Questi, partendo dal documento del 1310 col quale il principe Filip­po di Taranto assegnò al pittore Montano d'Arezzo alcuni territori, per aver decorato la cappella del suo palazzo napoletano e la cap­pella della chiesa di Montevergine, afferma che l'intero dipinto della Madonna di Montevergine era stato eseguito "da Montano d'Arezzo, eccellentissimo pittore di quei tempi", e conclude "il che non fu noto all'Autor dell'Istoria di Monte Vergine, poiché scrisse quella figura esser'opera Greca, e che si crede esser stata donata dell'lmperador Federico II''.
Nel manoscritto Supplemento alla historia di Monte Vergine, datato al 1619, Ovidio de Luciis elabora una teoria, risultante dal coordi­namento degli elementi precedentemente espressi. Per lui il meda­glione della Madonna era stato segato dall'Odeghetria venerata a Costantinopoli e portata a Montevergine da Baldovino II e dalla nipote Caterina I di Couternay nel 1261. Pietà e fantasia accompa­gnano i due fuggiaschi sbarcati sulle coste pugliesi e diretti verso Napoli. Nei pressi di Avellino il mulo, che trasportava la sacra icona, s'avviò spontaneamente verso Montevergine né fu possibile fargli cambiare direzione. Contemporaneamente una paurosa tem­pesta sbarrò la strada verso Napoli, mentre un raggio di sole illu­minò le cime del Partenio e le campane del santuario da sole comin­ciarono a suonare, "facendo allegrezza all'arrivo della Regina del cielo" e mobilitando i religiosi, perché ricevessero il sacro deposito "con ogni possibile compimento" e lo riponessero "co' hinni, cerei e cantici sopra l'Altare Maggiore". Ma la Madonna non fu contenta di quella sede e "la mattina la ritrovarono nella Cappella, dove s'adora".
Il resto del dipinto sarebbe stato eseguito un cinquantennio più tardi da Montano d'Arezzo dietro ordine di Filippo d'Angiò e della moglie Caterina n Couternay-Valois. Su questa stessa posizione si attesta nel 1646 Girolamo Conte con la Relazione della sacra lma­gine della Madonna di Montevergine, ma ne rettifica la data della traslazione. Secondo lui, Baldovino n e Caterina I avevano sempre sperato di riconquistare il trono imperiale d'Oriente e di riportare la sacra icona a Costantinopoli; mentre Caterina n, dopo aver spo­sato Filippo d'Angiò e perduta ogni speranza di successione al trono orientale, aveva deciso di far completare il quadro da- Montano d'Arezzo per poi trasportarlo al santuario di Montevergine nel 1310. Il De Masellis nell'lconografia, allo scopo di accrescere la devozione verso la Mamma Schiavona "Avvocata particolare del nostro Regno di Napoli", riordina le memorie spigolando nella messe della tradi­zione di altri santuari mariani, aggiungendo nuovi tasselli di fol­klore allo scintillio di un mosaico, che viene a cristallizzarsi nella diversa qualità del legno, nella diversa consistenza della pittura e nella diversa vivacità dei colori tra il medaglione della testa e il resto del quadro. Di conseguenza il doppio autore: per la testa egli accetta la tradizione lucana e l'identificazione con l'Odeghetria di Costantinopoli, trafugata da Baldovino n nel 1261, e per il resto il pittore Montano d'Arezzo, dietro incarico di Filippo d'Angiò, il quale nel 1310 insieme alla moglie Caterina n avrebbe portato l'intero dipinto a Montevergine.
La fantasia diventa realtà

Nell'ultimo cinquantennio, i critici d'arte hanno dato !'impressione di aver raggiunto un accordo nel sostenere che l'intero impianto fosse da attribuirsi al pennello di Montano d'Arezzo; sennonché nel 1989 la Guarducci ha ripreso la tradizione, sostenendo che il tra­sloco del più antico ritratto della Madonna a Montevergine non è frutto di fantasia, ma di una realtà storica, e costituisce un prodi­gioso vincolo fra Occidente e Oriente.
La ricerca dell'eminente archeologa, non nuova a imprese clamoro­se, parte da una precedente scoperta del restauratore e critico d'ar­te fico Cellini il quale, in occasione dell'anno mariano del 1950, restaurò l'immagine della Madonna di santa Francesca Romana di attribuzione lucana e trovò che sotto i volti della Vergine e del bambino ne esistevano altri due più grandi e più antichi, dipinti ad encausto su tela, databili al V secolo. Approfondendo l'esame del dipinto ad encausto su tela, avvertì che presentava alcuni aspetti non riscontrabili in Occidente nelle icone mariane anteriori al Mille e inoltre la grandezza del volto della Madonna e la posizione del bambino sul braccio destro della madre dimostravano che si tratta­va di una copia in controparte o speculare, ripresa cioè a contatto mediante un'impronta su tela e poi dipinta, facendo sì che il destro diventa sinistro e viceversa. Bisognava pertanto ricercare in Orien­te l'archetipo e ricorrere alla controprova pratica, risovrapponendo la copia all'originale controllandone contorni e dettagli.
Il primo accenno all'esistenza di una tavola attribuita al pennello di San Luca si trova nella Storia ecclesiastica di Teodoro il Lettore vissuto nella prima metà del VI secolo. Egli ricorda che l'imperatri­ce Eudocia, nello sciogliere un voto per l'avvenuto matrimonio della figlia Eudossia con !'imperatore Valentiniano m, nel 438 intraprese un pellegrinaggio in Terra Santa e da Antiochia, prima tappa del suo viaggio, inviò un'immagine della madre di Dio dipinta da San Luca alla cognata Pulcheria rimasta a Costantinopoli. Si trattava di un grosso medaglione in legno con pittura ad encausto della sola testa della Madonna, che un artista locale inserì su una tavola di misure adeguate, completò la figura della Vergine col bambino sul braccio sinistro e ottenne il famoso dipinto della Madonna in trono, da collocare in una delle tre chiese fatte costruire da Pulcheria e precisamente in quella degli Odeghi, donde la denominazione di Odeghetria.
La Maestà di Costantinopoli nelle sue eccezionali dimensioni dove­va magnificare il dogma della maternità divina defmito qualche anno prima nel concilio di Efeso del 431, doveva rappresentare il trionfo dell'ortodossia contro l'eresia di Nestorio ed era destinata a divenire patrona della casa imperiale e di tutto il popolo. Rientrata a Costantinopoli Eudocia pensò bene di inviare alla figlia Eudossia e al genero Valentiniano una copia dell'Odeghetria. Allo scopo, forse per maggiore comodità di trasporto, fu presa un'impronta su tela, che doveva essere arrotolata, e dipinta in controparte davanti all'o­riginale, con la conseguenza che il bambino venne a trovarsi a destra della madre. Questa copia, e la Guarducci ne segue il cam­mino e le date, arrivò prima a Ravenna, da qui passò a Roma nel palazzo imperiale del Capitolino, donde alla chiesa di Santa Maria Antiqua e infine nella chiesa di Santa Francesca Romana.
Mettendo a confronto queste sue conclusioni con la tradizione della Madonna di Montevergine, la Guarducci accettò la diversa qualità di legno del medaglione della testa e il resto del quadro e di conse­guenza il doppio autore, la veridicità del trafugamento della testa dell'Odeghetria da parte di Baldovino II con relativo passaggio alla famiglia reale degli Angioini di Napoli e, senza entrare nel merito dell'identificazione del secondo autore e del tempo in cui fu portata a Montevergine, concluse che quella tradizione non era affatto in­verosimile ma poteva trasformarsi in realtà.
Bastava sovrapporre in controparte il lucido della testa della Ma­donna di Santa Francesca Romana, eseguito nel 1950 dal Cellini, sulla copia della testa della Madonna di Montevergine eseguita nel 1960, quando il medaglione fu sfilato dai tavoloni del quadro per agevolarne il trasporto alla Soprintendenza di Napoli per il restau­ro. Il6 maggio 1988, tra l'attenzione generale mista a devozione e trepidazione, il lucido della testa dell'icona romana fu applicato in controparte alla testa della Madonna di Montevergine. La corri­spondenza era perfetta: "la medesima fronte bassa sotto l'orlo del velo, i medesimi occhi neri e profondi e un po' melanconici, il me­desimo naso affilato, la medesima bocca piccola e vivida, e - nel collo -la medesima torsione".
Lo stupore e la commozione fecero riecheggiare le parole del De Luciis: "Però lettor mio la prima imagine de Maria sempre vergine che dal natural dipinse S. Luca essa Vergine, presente et vidente et suam gratiam inferente, fu et è quella propria qual hoggi se ritrova nel sacro monasterio di Montevergine et suo sacratissimo tempio: cosa da far stupire ogni persona essendo uno de principali thesori della cristianità".
Tratto da Storia Illustrata di Avellino e dell'Irpinia.

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