MEDITAZIONI SULLA DIVINA LITURGIA
Traduzione Italiana, presentazione e note
a cura di
PAPAS DAMIANO COMO
II EDIZIONE
“ORIENTE CRISTIANO” – PALERMO
1972
NB Tradizione Cristiana: sia la traduzione dell’ediz. del 1963 che le note dell’ediz. del 1972 curate dal Como sono state qui in una parte revisionate e/o integrate, seguendo tra l’altro una recente edizione della traduzione greca (Sacro Monastero di Paràklitos, 2001). Abbiamo distinto le aggiunte dal testo greco tra parentesi quadra [ ] mentre le frasi tra asterisco * * (non identificate nel testo greco) sono probabilmente in uso nella liturgia slava. Il presente testo non è quindi conforme in tutto alle edizioni menzionate.
PRESENTAZIONE
Nicola Vasiljevic Gogol (1809-1852), nel quadro dei grandi scrittori russi del XIX secolo, ha il posto d’onore ed è considerato come il fondatore del realismo, di un realismo venuto fuori, con un processo assai rapido, dal romanticismo, in un momento in cui sulla scena russa dominavano melodrammi romantici e commedie adattate ad imitazione di quelle francesi. Egli è il creatore di un realismo, possiamo dire, soggettivo, in quanto in tutte le sue opere non mancano elementi moralizzanti, che hanno dato in seguito alla letteratura russa una direzione nuova che dalla classicità di un Puskin si orienta verso un’ispirazione etico religiosa, le cui tracce s’incontrano man mano presso quasi tutti gli scrittori russi, tanto filosofi che teologi, come Chomiakov, Solovjov, Bulgàkov, Berdiàjev, quanto romanzieri come Dostojèvskij e lo stesso Tolstoj.
Nato nel 1809 a Sorocintsy, in Ucraina, da genitori di origine casacca, nutrì sempre una particolare predilezione per la sua terra, attratto dai ricordi della prima fanciullezza e dalla storia del suo popolo, così ricca di gesta e di leggende folcloristiche. Anche quando dovette andare all’estero (e il suo lungo soggiorno lo portò in Germania, Svizzera, Italia e Francia) come quando tornò dal suo pellegrinaggio durato 12 anni, era assillato, in un continuo crescendo, più che dal suo fisico malconcio, dal suo animo profondamente tormentato nella ricerca di un cristianesimo che fosse l’espressione vivente del messaggio evangelico di Cristo. Pur ispirandosi a reminiscenze e ad osservazioni che traevano spunto dalla leggenda, seppe colorire con la sua penna di artista moralista tutti i suoi scritti palpitanti del realismo di cui era maestro. E questi volle profondere al suo popolo, riscuotendo non sempre consensi quanto aspre critiche dovute ad oppositori dell’ambiente progressista che il critico Bjelinskij riassunse in una sua famosa lettera aperta.
Gogol, autore di «Le veglie presso la fattoria di Dikanka», di «Mirgorod», di «Revizor» (L’Ispettore generale), che viene considerata come l’opera di maggior rilievo della sua gioventù, di numerosi racconti come «Vij», «Il cappotto», «Le memorie di un pazzo», «Il ritratto» ecc., giudicati generalmente come i capostipiti di tutta la letteratura realistica russa, deve la celebrità alle «Anime morte», opera assai discussa e di cui non ci rimane che la sola prima parte. Le elucubrazioni del suo spirito inquieto, difatti, l’avevano portato a correggere nella seconda parte delle «Anime morte» i difetti e i vizi del popolo russo descritti nella prima, trattando delle qualità e delle virtù di questo popolo con uno stile tutto proprio che ha il suo fulcro in un malcelato messianismo in cui la triade classica, ortodossia, autocrazia e popolo russo, costituisce l’argomento più veritiero e più discusso. Ma nemmeno di questa seconda parte del suo capolavoro fu contento e, per suo ordine, venne distrutta poco prima della sua morte.
L’interesse e l’amore che nutriva per la sua letteratura non lo distoglievano dalla sua fede cristiana, ma, al contrario, la conoscenza più profonda di questa, rendendolo suscettibile dei suoi difetti, lo portava a dare sempre nuove direzioni alla sua produzione letteraria.
Egli non fu mai cattolico, sebbene del cattolicesimo nutrisse la più alta stima. Conobbe e meditò, specialmente durante il suo lungo soggiorno romano, l’«Imitazione di Cristo» né tralasciò di approfondire le fonti tradizionali della pietà russa: Giovanni Crisostomo, Efrem Siro, Macario d’Egitto, Ticone di Zadonsk. Tuttavia, mentre ripeteva alla madre «cercate di vedere in me il vero cristiano e non il letterato», nel dare un saggio delle sue nuove convinzioni, scriveva: «La nostra religione e la cattolica sono eguali in tutto e quindi non vedo la necessità di cambiare l’una con l’altra. L’una e l’altra sono vere; l’una e l’altra riconoscono lo stesso divino Salvatore, la stessa divina Sapienza che visitò la nostra terra e vi subì la più obbrobriante umiliazione per sollevare la nostra anima e per avviarla al Cielo. Per ciò che riguarda i miei sentimenti religiosi non dovete dubitare per nulla».
In seguito, però, vedendo accusata la Chiesa ortodossa, abbandonerà l’opinione sulla eguaglianza delle due Chiese: «... noi generalmente conosciamo male la nostra Chiesa… La nostra Chiesa deve essere santificata in noi, non nelle nostre parole. Dobbiamo essere la nostra Chiesa e da noi si deve annunciare la sua verità. Dicono (i cattolici) che la nostra Chiesa è immobile. Dicono una falsità, poiché la nostra Chiesa è vita; ma deducono logicamente il loro errore…: noi siamo cadaveri, non già la nostra Chiesa; e, secondo noi, essi hanno chiamato la nostra Chiesa un cadavere… Possediamo un tesoro inestimabile e non ci curiamo di conoscerlo, nemmeno sappiamo dove l’abbiamo… Questa Chiesa che, qual vergine casta, sola si conservò dai tempi apostolici nella sua originaria purezza immacolata, questa Chiesa che con tutti i suoi profondi dogmi e i più minuti riti esterni scese quasi direttamente dal cielo per il popolo russo, che sola è in grado di sciogliere tutti i nostri dubbi e di chiarire le nostre questioni, che può fare un miracolo inaudito davanti a tutta l’Europa… questa Chiesa è da noi ignorata! E questa Chiesa, fondata per la vita, noi fin qui non l’abbiamo ancora innestata nella vita!».
Ed è per questa Chiesa, per metterne in risalto la sua dottrina, che Gogol si dedica adesso con uno studio più approfondito alla liturgia e scrive: «Meditazioni sulla divina Liturgia». Egli ha inteso con questa sua opera spiegare al suo popolo il senso intimo delle parole nascosto nel simbolismo liturgico dei gesti e delle cerimonie. Già i russi conoscevano pubblicazioni come Navaia Skrijal (Le nuove Tavole della Legge) e ancor più «La spiegazione storica, dogmatica e mistica della Liturgia» di Dmitrevski, e di questi testi ne circolavano, specialmente a Mosca, varie edizioni, ma Gogol volle fornire i suoi fedeli di un testo più facile, alla portata di tutti, più maneggevole, anonimo e a basso costo. A questo scopo si procurò i testi originali greci delle Liturgie di S. Basilio e di S. Giovanni Crisostomo, se li fece tradurre in latino, consultò l’Euchologium graecorum di Goar, pubblicato a Parigi nel 1645, i commentari dei Padri e vari altri trattati liturgici che gli fu possibile procurarsi. Era sempre assillato di iniziare i fedeli alla liturgia e di far loro meglio apprezzare le ricchezze in essa contenute: ciò appare chiaro meditando ancor oggi queste pagine così palpitanti di spiritualità. Esse ci spiegano come mai l’anima profondamente religiosa di quel popolo è rimasta tale e non si è piegata, anche dopo le prove e i capovolgimenti così radicali di questo ultimo mezzo secolo. Ed anche in questo, Gogol fu un precursore. La pubblicazione del suo manoscritto, composto nell’ultimo scorcio della sua vita, avvenne nel 1857, qualche anno dopo la sua morte, per essere poi ancora ristampato nel 1859 e inserito nei volumi che contengono le sue opere al completo.
Gli ultimi tempi della vita di Gogol furono piuttosto sereni, essendo riuscito a superare le sue varie crisi religiose. Con preghiere e digiuni si preparò alla morte che sentiva vicina. Serenamente ricevette il santo Viatico e l’Olio santo, ascoltò la lettura dei Vangeli e, con la candela in mano, versando calde lacrime, piamente spirò il giovedì 4 marzo 1852, secondo il calendario giuliano.
Che Gogol abbia sofferto per un certo squilibrio nervoso è cosa certa, ma secondaria e poco originale: tanti altri uomini di eccezionale genio hanno sofferto come lui. Il valore del dramma che egli ha vissuto sta nell’essersi consumato nella ricerca di una forma letteraria al servizio della verità per il bene dei suoi compatrioti. Non è stato compreso. Tuttavia egli ha aperto la via e ha indicato la direzione a tutti quelli che in Russia e altrove si sono sforzati di far ritornare Cristo nella vita.
Con questa prima traduzione italiana di «Meditazioni sulla divina Liturgia», che presentiamo ai nostri lettori, intendiamo dare un pascolo salutare per la loro vita spirituale, sicuri che ne usciranno commossi ed estasiati: che quella candela, simbolo di fede e di speranza, che Gogol morente tenne in mano, sia per tutti i cristiani la fiaccola che ci unisca nella preghiera affinché questo grande popolo russo, dopo tutte le gravissime sofferenze, possa nuovamente e coraggiosamente incontrarsi con il Cristo del suo Gogol, con il Cristo delle sue iconi, anelato universalmente da tutti i credenti in Lui.
Papas Damiano Como
PREFAZIONE
Scopo di questo libro è di mostrare con quale ampiezza e con quale profonda unità interna si svolge la nostra Liturgia e di esporla ai giovani e a tutte quelle persone che ancora non hanno avuto modo di approfondirne il significato. Tra i numerosi commenti tramandatici dai Santi Padri e dai Dottori della Chiesa, abbiamo scelto solo quelli che sono alla portata di tutti per la loro semplicità e che servono soprattutto a far comprendere il passaggio regolare e necessario da un’azione liturgica ad un’altra. È nell’intento dell’autore che pubblica questo libro di radicare nello spirito del lettore la nozione dell’ordine che ne coordina lo svolgimento, persuaso che coloro che con attenzione seguiranno la Liturgia ne vedranno chiaramente svelato il significato interno e profondo.
INTRODUZIONE
La divina Liturgia è il perenne rinnovamento del sublime eccesso di amore compiuto per noi. Afflitta per noi per i suoi disordini, l’umanità, da ogni dove, da ogni angolo remoto della terra invoca il suo Creatore; anche coloro che dimoravano nelle tenebre del paganesimo e che non conoscevano Dio convenivano che l’ordine e l’armonia non potevano regnare nell’universo se non per volontà di Colui che fa muovere in un armonioso ordinamento il mondo da lui creato.
Ogni essere invocava l’Autore della sua esistenza con alte grida e queste risuonavano ancora più forti sulle labbra degli eletti e dei profeti. Essi presentivano e sapevano che il Demiurgo, nascosto negli esseri, si sarebbe presentato di persona, faccia a faccia agli uomini, che non sarebbe apparso sotto altra forma se non come creatura, fatta a sua immagine e somiglianza.
L’incarnazione di Dio sulla terra era presentita da tutti, man mano che la cognizione del Creatore andava perfezionandosi. Tuttavia in nessun luogo s’era parlato di essa chiaramente se non presso i profeti del popolo eletto di Dio. E l’incarnazione più pura a cominciare dalla Vergine era attesa anche presso i pagani, sebbene solo i profeti l’avessero annunziato con inequivocabile chiarezza.
Le suppliche vennero esaudite: apparve nel mondo Colui «per il quale il mondo fu creato». Venne da noi sotto forma di uomo, così come avevano presentito e previsto anche i pagani pur nella loro profonda oscurità – non tuttavia come se l’era raffigurata la loro immaginazione grossolana ed impura: non orgoglioso nel suo splendore e nella sua grandezza, non giustiziere di crimini né come giudice che viene a sterminare gli uni e a premiare gli altri. No. La sua apparizione avvenne in una maniera propria a DIO solo.
«I riti compiuti nella Pròtesis sul pane offerto sono un racconto pratico della passione del Cristo; essi sono infatti un ricordo di questa; quanto soffrì per noi e la sua morte. E così la morte del Signore è qui annunciata non solo da ciò che i sacerdoti dicono ma da ciò che essi compiono. “L’Agnello di Dio è immolato – egli dice – Colui che toglie il peccato del mondo”. Formule e gesti simboleggiano le circostanze di questa morte. Il sacerdote, infatti, incide la croce nel pane, significando così come si è compiuto questo sacrificio, cioè per mezzo della croce. Dopo taglia il pane nella parte destra, mostrando con questa incisione del pane la piaga del costato (del Signore). Appunto per questo chiama Lancia l’oggetto metallico fatto a forma di lancia... E mentre rievoca questi fatti con dei gesti, il sacerdote pronunzia le storiche parole: “E uno dei soldati con la sua lancia trafisse il costato”. Così il sangue e l’acqua che ne sgorgarono il sacerdote li rievoca con le parole e li rappresenta con questi gesti: versa nel sacro Calice vino ed acqua, dicendo questa frase: “E subito ne uscì sangue ed acqua”. Sono queste la commemorazione del Signore e la descrizione della sua morte».(N. Cabasilas, La divina Liturgia, VIII, 3. PG. 385 A-B).
PARTE I
Preparazione spirituale
Il sacerdote cui incombe celebrare la Liturgia, fin dalla vigilia, deve essere sobrio nel corpo e nello spirito. Bisogna che egli sia riconciliato con tutti. Eviti di nutrire risentimenti con chicchessia. La sera, dopo aver recitato le preghiere prescritte, dovrà vivere in spirito di santità pensando a ciò che l’attende l’indomani, e questo pensiero venga santificato e anticipatamente meditato.
Preghiere introduttive
All’ora stabilita, si recherà in chiesa accompagnato dal diacono. Essi si inchineranno profondamente davanti alla «Porta Regia»[1], baceranno la icone del Salvatore e quella della Madre di Dio, s’inchineranno ancora davanti alle iconi degli altri Santi[2]; dopo aver domandato perdono all’assemblea dei fedeli con un triplice inchino in forma di saluto, prima a destra e poi a sinistra, entreranno nel Santuario, recitando a bassa voce il Salmo:
Avanzandosi verso l’Altare (che è rivolto ad Oriente), si prostreranno tre volte davanti ad esso e baceranno la sacra Mensa e l’Evangelo che vi è poggiato sopra[4], come se si trattasse del Signore stesso, assiso sul trono. Si prepareranno quindi ad indossare i paramenti sacerdotali, e ciò per separarsi non solo dagli altri uomini ma anche da loro stessi: infatti, non devono apparire preoccupati, come qualsiasi uomo, per le faccende della sublimità del Mistero che li attende.
Fin dall’epoca apostolica, nella celebrazione del culto divino erano in uso questi paramenti distintivi per i celebranti. Sebbene la Chiesa perseguitata non fosse stata in grado di arricchirne lo splendore che sfoggiano ai nostri giorni, tuttavia, da tempo remoto, essa prescriveva rigorosamente ai sacerdoti di non presentarsi in abiti giornalieri per il servizio del culto; come, del resto, proibiva severamente al Clero di recarsi nelle pubbliche vie con i paramenti del servizio divino.
Nell’indossare questi magnifici paramenti, i ministri della Chiesa si rivestono interiormente delle più sublimi e delle più risplendenti virtù spirituali. Ciascuno, poi, indossando i propri, recita dei versetti, tratti dai salmi, che ne spiegano il profondo significato, in modo che l’azione ordinaria del rivestirsi non distragga il loro pensiero ma l’orienti verso il sublime Ministero e, come Aronne, li tenga costantemente preparati nel corpo e nello spirito a presentarsi dinanzi al trono terrificante dell’Altissimo.
Il sacerdote e il diacono prendono tra le mani i propri paramenti, fanno tre inchini rivolti ad Oriente, e dicono sommessamente:
«O Dio, sii propizio a me che sono peccatore ed abbi pietà di me»[5].
Vestizione del diacono
Il diacono, recando in mano lo stichàrion[6] e l’oràrion[7], li presenta per farli benedire al sacerdote e, avendone ottenuta la benedizione, si scosta e se ne riveste. Contemporaneamente anche il sacerdote indossa lo stichàrion, che viene chiamato podriznik[8], e che consiste in una lunga tunica quasi uguale a quella dei sacerdoti del Vecchio Testamento. Lo stichàrion è sempre di color chiaro, risplendente; vuol simboleggiare e i parati scintillanti degli angeli e la purezza immacolata del cuore, attributo inscindibile dell’ordine sacerdotale.
Quando il diacono indossa lo stichàrion, così come quando il sacerdote veste il podriznik, viene recitata la preghiera:
«Esulterà l’anima mia nel Signore; m’ha rivestito, infatti, di un abito di salvezza e mi ha ravvolto in una tunica di gaudio; come a sposo, ha posto su di me una corona, mi ha ornato di gioie come novella sposa»[9].
Infine bacia e fa girare attorno alla sua spalla sinistra il lungo e stretto oràrion, ornamento distintivo della dignità diaconale: con esso il diacono indica l’inizio di ogni cerimonia ecclesiastica ed invita il popolo alla preghiera, il coro al canto, il celebrante ad adempiere la sua missione e se stesso ad imitare la sollecitudine e la diligenza degli angeli. E infatti, durante la Liturgia, il ministero del diacono è identico a quello di un angelo del cielo: la lunga e stretta stola, che scende dalla sua spalla e che gli svolazza dietro, rassomiglia ad una ala che sta nel cielo; i suoi andirivieni nella chiesa, ci richiamano alla mente – secondo l’espressione di S. Giovanni Crisostomo – il volo di un angelo. In seguito il diacono mette le epimanìkia[10] che fermano le maniche attorno al polso, in modo che le mani abbiano più libertà di movimento durante i sacri riti. Prendendoli, egli pensa alla forza di Dio che crea tutte le cose ed agisce in ogni cosa. E, mettendo la manichetta al braccio destro, dice:
«La tua destra, o Signore, si è mostrata grande nella potenza; la tua mano destra ha distrutto i nemici e con la grandezza della tua gloria hai annientato i tuoi avversari»[11].
Mettendo poi la manichetta sinistra, pensa a se stesso, opera venuta fuori dalle mani di Dio, e prega il Salvatore di guidarlo dall’alto dei cieli e di accompagnarlo con la sua mano sovrana. Egli dice:
«Le tue mani mi hanno fatto e mi hanno plasmato, istruiscimi ed osserverò i tuoi precetti»[12].
Vestizione del sacerdote
Ecco adesso come si veste il celebrante. Innanzitutto egli benedice ed indossa lo stichàrion recitando le stesse preci del diacono; in seguito egli indossa non il semplice oràrion che ricade su una spalla, ma il doppio oràrion, che copre le spalle e circonda il collo e le cui estremità si ricongiungono alla altezza del petto e discendono unite parallelamente fino all’estremità inferiore dello stichàrion. Questo paramento, chiamato epitrachìlion[13], simboleggia l’effusione della grazia celeste sul sacerdote. Quest’atto è accompagnato dalle maestose parole della Scrittura:
«Benedetto sia Iddio che effonde la sua grazia sui suoi sacerdoti: qual profumo di mirra cosparge la testa, scorre giù sulla barba, la barba di Aronne, per scendere poi fino all’orlo della sua veste»[14].
Dopo mette le manichette recitando le stesse preghiere del diacono; quindi la cintura[15], che ferma il podriznik e l’epitrachìlion in modo che l’ampiezza dei parati non l’impaccino durante la celebrazione, e che simboleggiano la sua sollecitudine nel servire Dio: ogni uomo, infatti, si cinge nel mettersi in cammino, nell’intraprendere un’azione importante o un grande affare. Il sacerdote dunque si cingerà nel momento in cui si mette in cammino per compiere il suo celeste ministero. Egli considera questa cintura come la forza divina che lo fortifica; ed allora dice:
«Sia lodato Dio che mi cinge di forza e che rende il mio cammino irreprensibile...»[16].
Il celebrante, se è un dignitario, porta sul fianco l’epigonàtion[17], ornamento che simboleggia il potere spirituale, la forza invincibile della parola divina. Ci richiama la lotta diuturna che incombe sull’uomo quaggiù ovvero la vittoria riportata da Cristo sulla morte affinché la nostra anima immortale lotti validamente contro la propria corruzione. Per questo sull’epigonàtion, a forma romboidale, vi è raffigurata una tremenda arma di battaglia. L’epigonation viene sospeso alla cintura e scende sul fianco dove si trova la forza dell’uomo. Cingendosi di esso, il sacerdote recita la seguente invocazione:
«Cingi il tuo fianco della spada. Tu che sei potente, per tuo splendore e per tuo ornamento; tendi l’arco, avanzati e regna per la verità, la mansuetudine e la giustizia: la tua destra ti guiderà in maniera ammirabile»[18].
Infine, per completare il suo abbigliamento, il sacerdote indossa il felònion[19], paramento che copre tutti gli altri e che simboleggia la giustizia di Dio, che supera e ricopre ogni cosa, e prega così:
«I tuoi sacerdoti, o Signore, si rivestiranno di giustizia e i tuoi santi esulteranno di gioia[20] adesso e sempre e nei secoli dei secoli. Amìn».
Rivestito dei suoi paramenti sacerdotali, il celebrante adesso è tutto un altro uomo. Nel santuario, chiunque egli sia, anche se poco degno, da questo momento è considerato da tutti i fedeli come uno strumento divino che dirige lo stesso Spirito Santo.
Lavabo
Il sacerdote e il diacono si lavano le mani recitando il salmo:
«Laverò nell’innocenza le mie mani, e andrò attorno al tuo Altare, o Signore, per udire la voce di tua lode e narrare tutte le tue meraviglie. Signore, ho amato la maestà della tua casa e il luogo di dimora della tua gloria»[21].
Quindi fanno assieme tre inchini, accompagnandoli dal segno della Croce, e dicono: «O Dio, sii propizio a me che sono peccatore ed abbi pietà di me»[22]. Si drizzano purificati e raggianti come le loro splendenti vesti: in loro non vi è più niente che assomigli agli altri uomini; più che esseri umani, ci appaiono quasi celestiali figure di una estatica visione.
Il diacono da il segnale dell’inizio della celebrazione col seguente invito:
«Benedici, o mio Signore!»,
e il celebrante inizia:
«Benedetto sia Iddio nostro, adesso e sempre e nei secoli dei secoli».
All’altarino della Pròtesis
Dopo ciò, si recano all’altarino laterale[23]. Tutta questa seguente parte del servizio divino ha come scopo di preparare quanto è necessario al sacrificio, e cioè di tagliare dal pane, che rappresenta il corpo di Cristo, delle particelle che verranno poi offerte e consacrate.
Quest’Altare laterale, a sinistra di quello centrale, viene chiamato Pròtesis[24], a motivo dell’offerta dei pani che vi si compie; esso ci ricorda il posto dove, nella Chiesa primitiva, venivano deposte dai cristiani le offerte necessarie per la celebrazione e per la cena comune.
L’insieme della Proskomidìa non è che la preparazione della Liturgia, e la Chiesa vi riconnette il ricordo dei primi anni di Cristo, quando si preparava ai grandi momenti della sua vita pubblica. Questa azione si svolge interamente all’interno del Santuario, dietro le porte chiuse e le tende sbarrate, al riparo dagli sguardi dei fedeli, così come la prima parte della vita di Cristo venne trascorsa inosservata agli occhi del popolo.
Durante questo tempo, i fedeli sono occupati nella recita delle Ore, sequenza di salmi e preghiere che i cristiani recitavano nei quattro momenti più importanti della giornata: la Prima, quando, secondo il computo liturgico, ha inizio il mattino; la Terza, l’ora quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli; la Sesta, l’ora quando il Redentore venne inchiodato sulla Croce; la Nona, l’ora quando Egli spirò.
Le Ore attualmente vengono riunite e recitate di seguito, dato che i cristiani di oggi, a causa dei tempi e delle incessanti preoccupazioni, non le possono recitare nel tempo prescritto.
Preparazione della materia del Sacrificio
Intanto il sacerdote, all’Altare della Pròtesis, comincia col prendere una Oblata[25] e ne ricava, infiggendovi la Lancia, la parte centrale che porta impresso il monogramma di Cristo[26], raffigurando con quest’atto la maniera come Cristo prese carne da Maria Vergine, come avvenne la nascita carnale dell’Essere non carnale. Meditando la nascita di Colui che si è offerto vittima per la salvezza del mondo, il sacerdote vede nell’oblata un agnello donato in sacrificio, e nella lancia[27], necessaria per cavarne l’ostia, la lancia del sacrificio, avendo questa appunto la forma di lancia in ricordo di quella che, sulla Croce, trafisse il costato del Salvatore.
Adesso egli accompagna questa azione non con le parole del Salvatore né con quelle dei testimoni contemporanei all’avvenimento; egli non si riporta col pensiero al tempo quando si compì questo sacrificio: ciò avverrà più tardi, nell’ultima parte della Liturgia; ora si limita a prevederlo nel futuro.
Al pari degli uomini di cui è detto che videro la luce tra le tenebre, egli guarda la luce che va innanzi a lui. Come il profeta Isaia, col suo sguardo lungimirante, prevedeva l’avvenire, così il sacerdote, già dalla Proskomidìa, guarda profeticamente alla celebrazione futura e, unendosi col pensiero al profeta, egli accompagna ciascuna azione con le parole di Colui che, dai secoli più remoti, vaticinava questa mirabile nascita, questa immolazione e questa morte.
Preparazione dell’Amnòs o Ostia grande
Sprofondando la lancia nel lato destro del monogramma, dice:
poi nel lato sinistro:
poi nella parte superiore dell’impronta:
infine, nella parte inferiore pronunziando le parole del profeta che, immerso nella riflessione, si spiega il motivo profondo dell’Agnello condannato a morte:
Allora, con la lancia, solleva la parte centrale così tagliata dicendo:
e nell’inciderla, in forma di croce, dice:
«Viene immolato l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo, per la vita e la salvezza del mondo»[33].
Infigge quindi la punta della lancia nel lato destro dell’Amnòs, ricordando così l’immolazione della vittima e il colpo di lancia inferto nel costato del Salvatore dal centurione che stava ai piedi della Croce, e dice:
«Uno dei soldati gli aprì il costato con la lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua; e colui che ciò vide ne rende testimonianza e la sua testimonianza è vera»[34].
Preparazione del vino e dell’acqua
E queste parole sono il segnale per il diacono di versare vino e acqua nella coppa santa. Questi, che ha assistito con devozione a tutto quanto è stato fatto dal sacerdote, ripete tra sé: «preghiamo il Signore» e versa vino ed acqua nel Calice, domandando al sacerdote di benedirli.
Viene così preparato il pane e il vino in vista della trasmutazione che avrà luogo nel corso della celebrazione dei sublimi misteri. Dopo ciò, il sacerdote, seguendo una santa e antica usanza e un rito della Chiesa primitiva, si occupa delle altre oblate, ne taglia delle particelle in memoria dei morti e dei vivi e le pone a lato dell’Amnòs, che rappresenta il Signore.
Particella in onore della Vergine
Prendendo nelle mani la seconda oblata, ne stacca un pezzetto, a forma di triangolo, in onore e in ricordo della nostra sempre benedetta Sovrana Maria Madre di Dio rimasta Vergine, e lo pone a destra dell’Amnòs, dicendo le parole profetiche del Salmo 44:
«La regina sta alla tua destra, ravvolta in un manto d’oro e ornata di variopinto abbigliamento»[35].
Particole in onore dei Santi
In seguito prende la terza oblata in memoria dei Santi, ne stacca, con la lancia, nove particole e le pone in tre file, ciascuna di tre. La prima particola in onore e memoria di S. Giovanni Battista; la seconda, in onore dei Profeti; la terza, degli Apostoli: termina così di disporre la prima fila e il primo ordine dei Santi. Continua staccando la quarta particola in memoria dei Pontefici; la quinta, dei Martiri; la sesta, dei nostri venerabili e teofori Padri e Madri della fede: completa così la seconda fila e il secondo ordine dei Santi. Prosegue quindi staccando una settima particola in memoria dei Taumaturghi e degli Anarghiri; una ottava, in ricordo dei Progenitori del Signore, Gioacchino ed Anna, e del Santo del giorno; una nona, in memoria di S. Giovanni Crisostomo o di S. Basilio il grande, a secondo che la Liturgia che si celebra sia dell’uno o dell’altro: finisce così la terza fila e il terzo ordine dei Santi. Tutte queste nove particole le ha disposte sul discàrion[36], a sinistra del santo Pane.
Il Cristo così appare in mezzo a coloro che gli sono più vicini. Egli, che abita nei Santi, si mostra ai nostri occhi tra i suoi Santi.
Ricordo dei vivi
Prendendo ancora il sacerdote la quarta oblata per ricordare i vivi, ne stacca delle particelle[37] per tutto l’Episcopato ortodosso, per il S. Sinodo, per i Patriarchi, per i Governanti e le loro famiglie, per i cristiani ortodossi e per coloro che desidera raccomandare in particolare o per quelli che gli hanno espressamente chiesto di essere raccomandati.
Commemorazione dei defunti
Prende infine una quinta oblata e ne stacca delle particole per commemorare i morti, pregando perché vengano liberati dalle loro colpe: li nomina tutti, a cominciare dai Patriarchi, dai Regnanti, dai Fondatori della Chiesa ove celebra, dal Vescovo che l’ha ordinato sacerdote, s’è già defunto, e fino a ricordarsi dei cristiani più dimenticati. Stacca ancora delle particole per i defunti che gli sono stati raccomandati dai fedeli e per coloro di cui egli vuol ricordare la memoria. Infine, egli domanda perdono per i propri peccati e stacca un’ultima particola per se stesso.
Tutte queste particole, in memoria di quelli per i quali egli si ricorderà durante la celebrazione, le dispone sul discàrion, in basso. In questa maniera, attorno al santo Pane, attorno all’Agnello, figura di Cristo, è riunita tutta la sua Chiesa: la «trionfante nei cieli» e la «militante sulla terra». Il Figlio dell’uomo appare quasi in mezzo agli uomini per i quali Egli si è incarnato e si è fatto uomo.
Con una spugnetta[38] il celebrante riunisce adesso con cura le più piccole particole disposte sul discarion.
Scostandosi quindi dall’altarino della Pròtesis, il sacerdote s’inchina come farebbe al cospetto dell’Incarnazione del Cristo e, sotto le specie del pane, preparate neldiscàrion, egli saluta l’apparizione del pane celeste sulla terra. Egli rende onore a questo Pane col profumo dell’incenso e, avendo benedetto l’incensiere, recita questa preghiera:
«Ti offriamo questo incenso, o Cristo Dio nostro, in odore di soavità spirituale; accettandolo nel tuo sovraceleste Santuario, inviaci in contraccambio la grazia del tuo santissimo Spirito».
Simbolismo della Pròtesis
Riportandosi con la mente al tempo e al luogo dove avvenne la nascita di Cristo e ricollegando così il passato al presente, il sacerdote vede, nella Protesis, la grotta misteriosa in cui si degnò nascere il Salvatore, quando il cielo venne traslocato sulla terra e quando esso divenne grotta e questa si cambiò in cielo[39]. Dopo aver incensato la stella[40], la pone sul discarion, a simboleggiare l’astro che guidò i magi alla grotta dove stava Dio bambino e dice:
Avendo incensato il primo velo[42], ne copre il discarion e recita i seguenti versetti del salmo nel quale, con chiara allusione, viene rievocata l’immolazione dell’Essere supremo: nel santo Pane, viene raffigurato il Bambino Gesù; nella patena, la mangiatoia dove è stato adagiato; nei sacri veli, i panni con cui è stato avvolto:
«Iddio ha stabilito il suo regno, si è ammantato di splendore; il Signore si è rivestito di potenza e se ne è cinto»[43],
e questi versetti sono un inno alla meravigliosa maestà del Signore. Dopo aver incensato il secondo velo, il sacerdote ne copre il Calice dicendo:
Prende quindi il velo più grande, chiamato aere, copre discàrion e Calice, e prega Iddio di coprirci col velo protettore delle sue ali. Dopo, scostandosi dallaPròtesis, s’inchina, come fecero i pastori e i magi davanti al Bambino Gesù, e incensa la grotta: questo rito ci richiama alla mente il profumo dell’incenso e della mirra offerti dai magi assieme all’oro[45].
Preghiere finali o Apòlisis
Così come prima, il diacono ha assistito con attenzione allo svolgimento di ogni azione e ha ripetuto l’invocazione «Preghiamo il Signore», indicando nel contempo anche l’inizio di ogni parte del sacro rito. Dopo ciò, ricevuto dalle mani del sacerdote l’incensiere, ricorda al sacerdote la preghiera che bisogna indirizzare al Signore a proposito delle offerte già preparate, e dice:
«Per i preziosi doni preparati, preghiamo il Signore».
E il sacerdote si dispone alla preghiera. Sebbene questi doni non siano che dei preparativi in vista dell’offerta, tuttavia, dato che d’ora innanzi non possono essere destinati ad altro uso, il sacerdote, prevedendone l’accettazione, recita la seguente preghiera della Pròtesis:
«Signore, Dio nostro, che hai inviato qual pane celeste, nutrimento dell’universo, Gesù Cristo, nostro Signore e Dio, nostro Salvatore[46], Redentore e Benefattore, che ci benedice e ci santifica. Tu stesso benedici questa offerta e accoglila sul tuo sovraceleste Altare. Tu, buono e amante degli uomini, ricordati di quelli che l’hanno offerta e di coloro per i quali viene offerta, e custodiscici senza condanna nel compimento dei tuoi divini misteri. Poiché è stato santificato e glorificato il tuttoinsigne e magnifico tuo Nome, del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, adesso e sempre e nei secoli dei secoli»[47].
In seguito, egli fa l’Apòlisis[48] della Proskomidìa.
Il diacono incensa, in forma di croce, la Pròtesis e la sacra Mensa nei quattro lati, meditando la nascita «nel tempo» di Colui che è generato dal Padre «prima di tutti i secoli», e dice sommessamente:
«Nella tomba fosti col tuo corpo, negli inferi con la tua anima, come Dio in paradiso col ladrone, e sul trono della tua gloria con il Padre e lo Spirito, o Cristo, che sei incircoscritto e che riempi ogni cosa»[49].
Incensamento del tempio e suo significato
Esce quindi dal Santuario, con in mano l’incensiere per riempire di profumo tutta la chiesa, e per salutare tutti coloro che sono venuti ad assistere alla santa cena dell’amore[50]. Questo incensamento ha sempre luogo all’inizio dell’ufficio divino, così come gli antichi popoli di Oriente usavano offrire agli ospiti, non appena entravano nelle loro case, di che lavarsi e profumarsi. Questa usanza è passata tale e quale al banchetto celeste, a questa cena mistica, chiamata Liturgia, in cui l’ufficiatura divina si è unita, in maniera così meravigliosa, all’invito amichevole di sedersi a tavola rivolto dallo stesso Salvatore, da Colui che fu il servitore di tutti.
Incensando e salutando con inchini tutti i presenti senza distinzione, ricchi e poveri, il diacono, nella sua qualità di servitore di Dio, da il benvenuto a tutti, quali ospiti graditissimi del celeste Padrone. Egli incensa nello stesso tempo le iconi dei Santi, poiché anche loro sono ospiti venuti per la mistica cena: in Cristo, tutti sono vivi e uniti.
Dopo aver riempito di profumo di incenso la chiesa, egli rientra nel Santuario che ritorna ad incensare. Poi, lasciato l’incensiere, si avvicina al sacerdote e assieme a questi va a mettersi davanti alla sacra Mensa.
Invocazione allo Spirito Santo
In piedi davanti al santo Altare, il celebrante e il diacono si inchinano a tre riprese e, preparandosi a dare inizio alla santa azione della Liturgia, invocano lo Spirito Santo, poiché è lo Spirito che insegna e dirige la preghiera: «Non so – dice l’Apostolo – perché e come bisogna pregare, ma lo Spirito Santo intercede per noi con dei gemiti inenarrabili»[51]. Il sacerdote e il diacono pregano lo Spirito Santo perché venga ad abitare in loro e quindi a purificarli, in vista della celebrazione; poi ripetono due volte il canto con cui gli angeli salutarono la nascita di Cristo;
Dopo questa invocazione, viene aperta la tenda, che simboleggia le porte spirituali che si aprono solamente quando dobbiamo elevare il nostro spirito verso i sublimi misteri dell’alto. Qui, l’apertura delle porte spirituali, subito dopo il canto degli angeli, vuol significare che la nascita di Gesù Cristo non fu rivelata a tutti, che solamente gli angeli del cielo, Maria, Giuseppe, i magi, venuti per adorare il Salvatore, e ancora i profeti, che da tempo l’avevano previsto, la conobbero e ne furono spettatori.
Il sacerdote e il diacono pregano segretamente:
Mentre il sacerdote bacia l’Evangelo, il diacono, baciata la sacra Mensa, inchina il capo, tiene in alto l’oràrion con tre dita, indicando l’inizio della Liturgia, e dice:
«È tempo di offrire il sacrificio al Signore, benedici, o signore».
Il celebrante lo benedice con queste parole:
«Sia benedetto Iddio nostro in ogni tempo, adesso e sempre e nei secoli dei secoli».
Il diacono, conscio di dovere essere il santo animatore, pensa al servizio che gli incombe, nel corso del quale dovrà rendersi simile all’angelo, volando dall’Altare al popolo e dal popolo all’Altare per fare di tutti i fedeli un’anima sola. Di fronte a questo ministero, riconoscendo la propria indegnità, supplica umilmente il celebrante:
«Prega per me, signore»,
e questi risponde:
Il diacono ancora insiste:
«Ricordati di me, Padre santo»
e il sacerdote:
«Il Signore Iddio si ricordi di te nel suo regno, in ogni tempo, ora e sempre e nei secoli dei secoli»[55].
Il diacono pronuncia a bassa voce fiducioso: «Amìn», ed esce dalla porta settentrionale verso il popolo. Salendo sull’ambone, che si trova davanti alle Porte Regie, ripete tra sé ancora una volta:
Quindi, rivolto verso l’Altare, in modo da essere sentito da tutti, s’indirizza al sacerdote e dice:
«Benedici, signore».
Dal fondo del santuario allora il celebrante eleva la voce e canta:
«Benedetto sia il regno del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, adesso e sempre e nei secoli dei secoli».
La Liturgia è cominciata.
PARTE II
La seconda parte della Liturgia si chiama Liturgia dei Catecumeni[57].
Come la prima parte, la Proskomidìa, corrispondeva ai primi anni della vita di Cristo: alla sua nascita rivelata solo agli angeli e a pochi uomini, alla sua infanzia trascorsa misteriosamente nascosta fino al giorno della sua manifestazione al mondo; così la seconda corrisponde alla sua vita pubblica, tra gli uomini che Egli ha catechizzato con la sua parola di verità. Viene chiamata tuttora Liturgia dei Catecumeni poiché, ai tempi dei primi cristiani, v’erano ammessi solo coloro che si preparavano ad abbracciare il cristianesimo e che non avevano ancora ricevuto il battesimo, per cui erano annoverati tra i catecumeni. D’altra parte, anche la struttura stessa di questa azione sacra, comprendente letture tratte dalle Epistole e dagli Evangeli, è essenzialmente catechetica.
Invocazione alla Trinità
Il sacerdote, dall’interno del santuario, inizia la Liturgia con l’invocazione:
«Benedetto il Regno del Padre e del Figlio e del Santo Spirito»[58].
L’invocazione alla Trinità precede ed illustra ogni azione liturgica, per lo stesso motivo per cui questo mistero venne rivelato al mondo in maniera manifesta con l’Incarnazione del Figlio. Essa impegna ancor più i fedeli, che già si sono distaccati da ogni mondana sollecitudine, a porsi sotto la protezione del regno della tuttasanta Trinità.
Preghiere Ireniche
In piedi sull’ambone, rivolto verso le Porte Regie, tenendo in alto tra le tre dita la stretta benda dell’oràrion, simbolo delle ali angeliche, il diacono, in atteggiamento di angelo che esorta gli uomini alla preghiera, invita l’assemblea dei fedeli a rispondere alle invocazioni che la Chiesa, in questo momento, pone sulle sue labbra e che continua a ripetere fin dall’epoca apostolica[59].
Egli comincia col domandare la pace, senza la quale ci è impossibile pregare. I fedeli, dopo essersi segnati, si sforzano di realizzare, con i loro cuori in preghiera, l’armonia delle corde di un’arpa che ogni invocazione del diacono dovrebbe far vibrare. Unendosi al canto dei cori, essi mentalmente ripetono: «Kyrie eleison», Signore, abbi pietà.
In piedi sull’ambone, tenendo la stola della preghiera che ci richiama l’ala spiegata in alto dell’angelo che sollecita i fedeli, il diacono esorta tutti a pregare per la pace che viene dall’alto e per la salute delle anime nostre; per la pace di tutto quanto il mondo, per la prosperità delle sante Chiese di Dio e per l’unione di tutti; per il santo Tempio e per coloro che vi entrano con fede, devozione e timor di Dio; per i Governanti ed il loro esercito; per la Città, per ogni Città e per i fedeli che vi abitano; per la chiesa ove si celebra la divina Liturgia; per la salubrità del clima, per l’abbondanza dei frutti della terra e per i tempi di pace; per i naviganti, i viandanti, i malati, i sofferenti, i prigionieri e per la loro salvezza, per essere liberati da ogni afflizione, flagello, pericolo, necessità. Congiungendo tutta questa serie di invocazioni chiamate Ectènie (litanie per la pace)[60], quasi anelli di una catena di preghiere, l’assemblea dei fedeli ad ognuna risponde unendosi al coro dei cantori : «Signore, abbi pietà»[61].
A significare l’inefficacia delle nostre preghiere, prive della purezza dell’anima e della vita celeste, il diacono, indirizzandosi verso le iconi della Madre di Dio e dei Santi, disposte nell’iconostasi, invita i fedeli a ricordarsi di quelli che hanno saputo pregare meglio di noi e che ora in cielo pregano per noi, e a raccomandare noi stessi, gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio:
[«Facendo memoria della santissima, intemerata, benedetta sopra ogni creatura e gloriosa nostra Sovrana, la Madre di Dio e sempre Vergine Maria, con tutti i Santi, raccomandiamo noi stessi, e gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio»].
Nel sincero desiderio di offrire noi stessi, gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio, come sapevano farlo e la Madre di Dio e, con Lei, i Santi e coloro più perfetti di noi, la Chiesa tutta all’unisono col coro esclama:
«A te, o Signore».
Glorificazione della tuttasanta Trinità
Questa serie di suppliche, la Grande Sinaptì, viene completata dal sacerdote con la glorificazione della tuttasanta Trinità, glorificazione che, come filo conduttore, allaccia tutta la Liturgia dal principio alla fine, inizia e termina ogni atto liturgico. L’assemblea in preghiera esprime la sua adesione con Amìn, così sia.
1ª Antifona
Il diacono scende dall’ambone; vengono intonate le antifone. Le antifone (antiphonae) sono dei canti, tratti dai salmi, annunzianti profeticamente la venuta del Figlio di Dio nel mondo; esse vengono cantate alternativamente dai cori.
Durante il canto della prima antifona, il sacerdote, nel santuario, recita una preghiera segreta e il diacono va a porsi davanti all’icone del Salvatore, in atteggiamento di preghiera, tenendo l’oràrion con le tre dita.
Terminato il canto della prima antifona, il diacono sale nuovamente sull’ambone per esortare l’assemblea dei fedeli con questo invito:
«Ancora e poi ancora preghiamo in pace il Signore».
L’assemblea risponde: «Signore, abbi pietà». Dirigendo poi il suo sguardo verso la schiera dei Santi (raffigurati nell’iconostasi), il diacono invita ancora a fare memoria della Madre di Dio e di tutti i Santi, a raccomandare gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio.
Il coro, a nome di tutta l’assemblea risponde:
«A te, o Signore».
Anche questa preghiera termina con la dossologia alla santa Trinità. Tutta la Chiesa risponde con un Amìn di assenso.
2ª Antifona
Viene intonata la seconda antifona. Durante questo canto, il sacerdote, nel santuario o Vìma, recita una preghiera segreta, mentre il diacono in atteggiamento di preghiera, tenendo tra le dita la stola diaconale, si porta nuovamente davanti alla icone del Salvatore. Finito il canto, il diacono risale sull’ambone, esortando l’assemblea dei fedeli con queste parole:
«Ancora e poi ancora preghiamo in pace il Signore».
L’assemblea risponde:
«Signore, abbi pietà».
Il diacono continua:
«Soccorrici, salvaci, abbi pietà di noi e custodiscici, o Dio, con la tua grazia».
L’assemblea risponde di nuovo:
«Signore, abbi pietà».
In seguito, il diacono:
«Facendo memoria della tuttasanta, immacolata, benedetta sopra ogni creatura e nostra gloriosa Regina, la Madre di Dio e sempre Vergine Maria, insieme con tutti i Santi, raccomandiamo noi stessi, gli uni gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio».
L’assemblea risponde: «A te, o Signore».
La glorificazione della Trinità chiude la preghiera. Tutti rispondono con un Amìn di assenso. Il diacono discende dall’ambone. Il sacerdote, nell’interno del santuario che ha le porte sbarrate, recita la seguente preghiera segreta:
«Tu che ci hai concesso la grazia di pregare insieme unendo le nostre voci, tu che hai promesso di esaudire le suppliche anche di due o tre riuniti nel tuo nome[62], Tu, anche in questo momento esaudisci in loro favore le suppliche dei tuoi servitori; accordaci nell’ora presente la conoscenza della tua verità e nel secolo futuro la vita eterna».
3ª Antifona Beatitudini
Viene quindi intonato ad alta voce dai cori il sublime canto delle Beatitudini, descritte nell’Evangelo di Cristo[63]. L’assemblea, facendo sua la preghiera che il buon ladrone sulla Croce aveva rivolto all’indirizzo del Cristo, esclama: «Ricordati di noi, o Signore, quando sarai giunto nel tuo regno» e ripete con i cantori le parole del Salvatore:
«Beati i poveri di spirito perché a loro appartiene il regno dei cieli», cioè felici gli umili che non si esaltano.
«Beati coloro che piangono perché saranno consolati», cioè felici coloro che sono più afflitti per le proprie imperfezioni ed i propri difetti anziché per le offese e gli oltraggi che hanno ricevuto.
«Beati i mansueti perché avranno in retaggio la terra», cioè felici coloro che non nutrono collera con chicchessia, che sono inclini a perdonare tutto e ad amare tutti e che hanno per arma una invincibile dolcezza.
«Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati», cioè felici coloro che hanno fame della giustizia celeste, che hanno sete di ristabilirla per primo in loro stessi.
«Beati i misericordiosi perché riceveranno misericordia», cioè felici coloro che hanno compassione dei loro fratelli e che vedono in quelli che li supplicano il Cristo in persona che implora a loro mezzo.
«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio», cioè, come lo specchio puro di un’acqua tranquilla e limpida, senza polvere o fango, riflette la purezza del firmamento, così lo specchio del cuore puro, non turbato da alcuna passione, scevro da sollecitudini umane, riflette solo l’immagine di Dio.
«Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio», cioè felici coloro che, sull’esempio dello stesso Figlio di Dio che è disceso dal cielo per portare la pace nelle nostre anime, arrecano pace e riconciliazione nei focolari, come veri figli di Dio.
«Beati i perseguitati per la giustizia perché di loro è il regno dei cieli», cioè felici coloro che sono perseguitati per avere annunziato e difeso la giustizia, non solo con le parole ma soprattutto col profumo di tutta la loro vita.
«Beati siete voi se riceverete oltraggio o se vi si perseguita o se vi si dirà male ingiustamente a causa mia. Rallegratevi allora ed esultale perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli», grande perché il merito di costoro è triplice: primieramente per essere stati innocenti e puri; poi, pur essendo puri, per essere stati calunniati; in terzo luogo, pur calunniati, per aver gioito nel soffrire per Cristo.
L’assemblea in preghiera ripete in lacrime, a seguito del lettore, le parole del Salvatore dove Egli annunzia chi sono coloro che possono sperare di attendere la vita eterna nel secolo futuro, chi sono i veri re della terra, gli eredi ed i partecipi del regno dei cieli.
In questo momento vengono aperte le Porte Regie, le porte – si direbbe – di questo regno celeste. Agli sguardi di tutti i fedeli si presenta l’Altare risplendente di luci, simile alla dimora della gloria divina, alla cattedra eccelsa da dove ci proviene la conoscenza della verità e da dove ci viene annunziata la vita eterna.
Ingresso con l’Evangelo
Dall’Altare viene prelevato dal sacerdote e dal diacono il libro dell’Evangelo e quindi portato solennemente all’assemblea non per le Porte Regie, ma attraverso la porta laterale, che si trova in corrispondenza dell’altarino della Pròtesis e che ci richiama la porta situata nella camera laterale da dove, nei primi tempi, si portavano i libri santi per la lettura.
L’assemblea dei fedeli vede nell’Evangelo, portato processionalmente dalle mani di umili servitori della Chiesa, lo stesso Redentore che appare per la prima volta in pubblico per la divina predicazione. Esce dalla porta settentrionale[64], quasi fosse ancora sconosciuto, e arriva nel mezzo della Chiesa per mostrarsi a tutti; dopo, rientra nel santuario per le Porte Regie. I ministri di Dio si fermano al centro della Chiesa ed inchinano la testa. Il sacerdote recita una preghiera segreta domandando a Colui che ha stabilito nei cieli le milizie ed i cori degli angeli, in vista della sua gloria, di ordinare a queste schiere, a queste stesse Potenze celesti, che concelebrano con noi, di far assieme a noi l’ingresso nel santuario. Il diacono indicando con la stola della preghiera le Porte Regie, dice al sacerdote:
«Benedici, Signore, questo santo Ingresso».
E il sacerdote sussurrando:
«Benedetto sia l’ingresso dei tuoi Santi in ogni tempo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli».
Il diacono gli presenta il santo Evangelo e glielo fa baciare, dopo, avanzandosi verso l’Altare, si ferma al limite delle Porte Regie e, alzando l’Evangelo, esclama:
«Sapienza!»,
designando con questa parola il Verbo di Dio, il Figlio, la Sapienza eterna annunziata al mondo con l’Evangelo, ed aggiunge:
cioè scuotetevi ed uscite dalla vostra tiepidezza indolente. L’assemblea dei fedeli, in piedi, elevandosi nello spirito, si unisce alle invocazioni del coro:
«Venite, inchiniamoci e prostriamoci davanti a Cristo. O figlio di Dio, ammirabile nei Santi (nella Domenica: «Tu che sei risorto dai morti») salva noi che a te cantiamo: Alliluia»[66].
La parola Alliluia viene dall’ebraico e significa: «Il Signore viene. Lodate il Signore». Ora, nel linguaggio sacro, la parola «viene» implica il presente ed il futuro, cioè «giunge Colui che è venuto e che ritornerà a venire». Da ciò, simboleggiando il moto eterno di Dio, questa parola Alliluia accompagna sempre gli atti liturgici quando il Signore si presenta Egli stesso al popolo, sotto forma dell’Evangelo o dei sacri doni.
L’Evangelo, col quale è annunziata la parola di vita, viene deposto sull’Altare.
Tropàri
Intanto i cori intonano i canti in onore della festa del giorno e i tropàri[67] di lode e gli inni in onore del Santo che viene celebrato in quel giorno dalla Chiesa, poiché questi si è reso simile a coloro che il Cristo ha rievocato nelle beatitudini e poiché ha mostrato, con l’esempio eloquente della propria vita, come bisogna slanciarsi sull’esempio di Cristo verso la vita eterna.
Trisàgion
Dopo i tropari, viene il momento del canto del Trisàgion[68]. Il diacono, avendo domandata per sé la benedizione dal sacerdote, si sposta verso le Porte Regie e, alzando l’oràrion, da il segnale ai cori. Il Trisagion, composto dalla seguente triplice invocazione a Dio:
«Santo Dio, santo Forte, santo immortale, abbi pietà di noi» echeggia solenne in tutta la chiesa.
Per tre volte i cori ripetono questo canto e lo fanno risuonare maestosamente nel tempio. Frattanto il sacerdote, nel santuario, affinché sia accetta a Dio l’invocazione dell’inno Trisàgion, recita segretamente la seguente preghiera: «Dio santo, che riposi tra i santi, celebrato con l’inno Trisàgion dai Serafini, glorificato dai Cherubini, adorato da tutte le Potestà sovracelesti; Tu, che dal nulla hai tratto all’essere tutte le cose, che hai creato l’uomo a tua immagine e somiglianza adornandolo di tutti i tuoi carismi; Tu, che dai sapienza e prudenza a chiunque te ne domanda e non disprezzi il peccatore, avendo istituita la penitenza per la salvezza; Tu, che hai fatti degni noi, umili ed indegni tuoi servi, di stare dinanzi alla gloria del tuo santo Altare e di offrirti l’adorazione e la glorificazione a te dovuta; Tu stesso, o Sovrano, accetta anche dal labbro di noi peccatori l’inno Trisàgion e visitaci nella tua bontà. Perdonaci ogni colpa volontaria ed involontaria; santifica le nostre anime e i nostri corpi, e concedici di poterti servire in santità tutti i giorni della nostra vita, per intercessione della santa Genitrice di Dio e di tutti i Santi che dal principio dei secoli ti furono accetti».
Quindi il sacerdote s’inchina tre volte davanti all’Altare ripetendo tra sé: «Santo Dio, santo Forte, santo Immortale, abbi pietà di noi».
Simbolismo del Trisàgion
Con l’invocazione santo Dio, l’inno Trisàgion confessa Dio Padre; con santo Forte, Dio Figlio, la sua Forza, il Verbo creatore; con l’invocazione santo Immortale, l’Ispirazione immortale, la volontà eterna e vivente di Dio, cioè lo Spirito Santo , l’immortale e vivificante.
I cori riprendono a cantare ancora per tre volte l’inno Trisàgion e lo fanno riecheggiare agli orecchi di tutta l’assemblea, sì da far comprendere a tutti che nell’eterna presenza di Dio è contenuta la presenza eterna della Trinità e che non vi è stato mai attimo in cui in Dio non sia stato il Verbo e in cui nel Verbo sia mancato lo Spirito Santo.«È per il Verbo di Dio che i cieli furono stabiliti ed è col soffio delle sue labbra che hanno ricevuto tutta la loro potenza»[69] – dice il profeta David. Ciascuno nell’assemblea è consapevole che in sé, in quanto immagine di Dio, si ritrova questo triplice essere: Egli stesso, il suo Verbo e il suo Spirito, cioè il pensiero che muove il verbo. D’altra parte ciascuno sa che il verbo umano è impotente, si spande invano e non produce effetto; il suo spirito non gli ubbidisce, influenzato come è da ogni sorta di frivoli pensieri. È solo allora, quando egli è tutto proteso verso Dio, che il verbo e lo spirito, in lui, acquistano la forza: nel suo verbo si riflette il Verbo divino; nel suo spirito lo Spirito di Dio. E l’immagine della Trinità creatrice si imprime nella creatura, e la coscienza diviene simile al Creatore.
Cosciente di ciò, ad ogni ripetizione dell’inno Trisàgion, ciascuno prega nel suo animo affinché Dio santo, potente ed immortale, lo purifichi del tutto e faccia di lui il suo tempio e la sua dimora, mentre ripete: «Santo Dio, santo Forte, santo Immortale, abbi pietà di noi».
La stessa preghiera viene ripetuta nel santuario dal sacerdote e a questi si unisce il diacono che accompagna e ripete l’invocazione del Trisàgion, inchinandosi per tre volte davanti al santo Altare.
Dopo questo triplice inchino, il sacerdote si dirige verso il fondo del santuario, dove si trova la Cattedra detta superiore[70], come nelle intime profondità della contemplazione divina, da dove è sgorgato il mistero della tuttasanta Trinità, dicendo:
E non è senza tremore e timore che egli vi si reca, poiché, alla domanda del diacono
egli risponde:
«Benedetto sei Tu, assiso sul Trono della gloria nel tuo regno, Tu che siedi sui Cherubini[73], adesso e sempre e nei secoli dei secoli».
Va a sedersi quindi su un seggio, a lato del trono destinato al Vescovo, e vi rimane durante la lettura dell’Epistola. Di là, con lo sguardo verso il popolo, come l’apostolo, egli presta attenzione alla lettura della Epistola.
Epistola
Il lettore, recando nelle mani l’Epistolàrion[74], si porta al centro della chiesa; il diacono, nel mentre, richiama l’attenzione di tutti con le parole:
«Stiamo attenti. Sapienza. Stiamo attenti».
Il sacerdote dal fondo del santuario invia il suo augurio di pace al lettore e ai fedeli. Siccome però il suo ministero deve essere spirituale, simile in ciò a quello degli apostoli che quando predicavano non seguivano se non l’ispirazione dello Spirito Santo che parlava con le loro labbra, così i fedeli non rispondono: «Pace a te», ma «al tuo Spirito».
Il diacono esclama: «Sapienza» e il lettore inizia a leggere, modulando la voce in maniera alta ed intelligibile, in modo che ogni parola sia compresa da tutti. L’assemblea ascolta con viva attenzione, con cuore docile e con spirito indagatore, con una intelligenza che si sforza di penetrare il senso intimo della lettura; l’epistola, infatti, serve di gradino e come preparazione per elevarsi a comprendere meglio l’Evangelo che seguirà.
Terminata l’epistola, il sacerdote benedice il lettore dicendo:
«Pace a te»
*e questi risponde: «E al tuo Spirito».
Il diacono di nuovo esclama: «Sapienza»*
e il coro fa risuonare l’Alliluia che annunzia l’avvicinarsi del Signore che viene a parlare al suo popolo per bocca dell’Evangelo.
Incensamento
Antecedentemente il diacono ha sparso a profusione nel tempio il profumo dell’incenso, quasi a preparare la venuta del Salvatore. Questo incensamento ci richiama la purezza spirituale delle nostre anime richiesta per ascoltare le parole sublimi dell’Evangelo.
Evangelo
Il sacerdote, nel Vìma, recita una preghiera segreta per domandare che la luce della scienza divina brilli nei nostri cuori[75] e che gli occhi del nostro intelletto possano aprirsi per comprendere la predicazione evangelica. A lui si unisce nella preghiera l’assemblea dei fedeli, pregando perché anch’essa venga ugualmente illuminata. Dopo aver domandata la benedizione del sacerdote e dopo aver ricevuto da questi l’augurio:
«Che Iddio, per le preghiere del santo e glorioso apostolo ed evangelista (segue il nome dell’Evangelista) ti conceda di annunziare con grande efficacia la sua parola, in adempimento dell’Evangelo del suo diletto Figlio e Signore nostro, Gesù Cristo»,
il diacono sale sull’ambone, preceduto dalle candele accese portate dai ceroferari, simbolo della luce di Cristo che illumina tutto il mondo, ad indicare ancora la venuta del Cristo preceduta da quella del Precursore del Signore, il Battista, fiamma della luce. Il sacerdote, dal Vìma, grida:
Il coro risponde:
«E al tuo spirito».
Il diacono intona l’Evangelo.
Con il capo religiosamente inchinato, prestando attenzione alla lettura dell’Evangelo fatta dall’ambone, tutti i fedeli, come lo farebbero per Cristo in persona che predichi sulla montagna le beatitudini, si sforzano di ricevere il seme della parola santa che, per bocca del suo ministro, il celeste Seminatore, sparge Egli stesso nei loro cuori. E i loro cuori non sono però simili a quelli che il Salvatore paragona al terreno dei sentieri dove son caduti i chicchi di grano che tosto divengono cibo per gli uccelli, cioè a dire non sono simili ai cuori travagliati da intenzioni perverse; né assomigliano al terreno pietroso, ricoperto da uno strato di terra così sottile che, anche se volentieri riceve la parola divina, tuttavia non gli permette di spingere radici profonde. No. I loro cuori non assomigliano a quel terreno incolto, pieno di spine, in cui il seme, ha sì una spinta a venir fuori, ma tosto è soffocato dalla folta e vigorosa zizzania, simboleggiante gli affanni e le preoccupazioni del secolo, gli innumerevoli allettamenti della vita corrotta e i suoi miraggi seducenti, che tolgono ogni vitale possibilità alle rachidi delle spighe del grano appena formate, non permettendo al seme di produrre il suo frutto. Al contrario i loro cuori docili sono da paragonare a quel terreno fertile che fruttifica trenta, sessanta, cento volte in più; sono cuori che, quando usciranno dal tempio, semineranno tutto ciò che hanno assimilato tra i loro parenti, nelle loro case, nei loro uffici, tra i loro colleghi di lavoro, nelle loro conversazioni, dovunque e sempre, sia durante le ore di riposo che in quelle di raccolta solitudine.
Ogni fedele si sforza di divenire colui che nello stesso tempo ascolta e mette in pratica, colui che il Salvatore divino paragona al savio che edifica la sua casa non sulla sabbia ma sulla roccia. Si abbattano pure su di lui, all’uscita dal tempio, torrenti d’acqua ed uragani, e contrarietà d’ogni sorta: l’edificio interiore della sua anima rimarrà saldo ed incrollabile come fortezza edificata sulla roccia.
Terminato il canto dell’Evangelo, il celebrante dal Vima, benedice il diacono:
«Pace a te che hai annunziato l’Evangelo».
I fedeli, sentitamente riconoscenti per essere stati resi degni di ascoltare l’Evangelo, unitamente ai cori esclamano:
«Gloria a te, o Signore, gloria a te».
Il sacerdote, in piedi davanti alle Porte Regie, riceve dalle mani del diacono l’Evangelo e lo depone sull’Altare, come il Verbo che, venuto fuori da Dio, ritorna a Lui. Il santuario o Vima, raffigurante il tabernacolo celeste, viene ora nascosto agli sguardi: vengono chiuse le Porte Regie, a significare che non vi sono altre porte nel regno dei cieli all’infuori di quella aperta da Gesù Cristo, che ha detto: «Io sono la porta»[77].
A questo punto, ordinariamente, nei primi tempi del cristianesimo aveva luogo la predicazione e veniva spiegata e commentata la perìcope evangelica che era stata letta[78]. Dato però che ai nostri giorni nella predicazione si fa riferimento anche ad altri testi e non ci si limita solo al commento dell’Evangelo del giorno, il sacerdote terrà il suo discorso alla fine della cerimonia, per non rompere l’ordine armonioso e l’unità della santa Liturgia.
Ectènia impetratoria
In atteggiamento dell’angelo che stimola gli uomini alla preghiera, il diacono risale sull’ambone per invitare i fedeli a pregare con più attenzione e con sempre più vigore:
«Diciamo tutti con tutta la nostra mente, e ripetiamo»,
esclama il diacono alzando con le tre dita la stola diaconale. Di rimando, i fedeli rispondono: «Signore, abbi pietà».
Il diacono, di nuovo, con più pressante istanza, rivolge un triplice appello alla pietà dei fedeli e li esorta a supplicare Dio, incominciando da coloro che sono preposti ai più elevati gradi della Gerarchia e che occupano posti di alta responsabilità per cui hanno più bisogno dell’aiuto divino, dovendo superare maggiori ostacoli ed essendo più esposti a difficoltà. Ogni fedele, conoscendo come il benessere del popolo dipende dall’adempimento integro dei doveri propri delle supreme Autorità, prega per loro con particolare fervore, ripetendo non una, ma tre volte: «Signore, abbi pietà».
Tutta questa serie di invocazioni è chiamata Ectènia, ossia litania continuata o pressante preghiera impetratoria[79].
Preghiere per i defunti
Se in quel giorno viene commemorato qualche defunto, allora dopo questa Ectènia viene cantata quella per i defunti. Alzando con le tre dita la stola diaconale, il diacono esorta a pregare per il riposo delle anime dei servitori di Dio e le enumera dicendone il nome, chiedendo a Dio di perdonare loro ogni colpa volontaria ed involontaria, e domandando di concedere la pace alle loro anime là dove i giusti godono del riposo eterno. Vengono ricordati dai fedeli i defunti a loro più cari, e ciascuno, mentalmente, ad ogni invocazione del diacono, pregando anche per tutti gli altri cristiani defunti, ripete per tre volte: «Signore, abbi pietà».
Il diacono continua:
«Per essi domandiamo a Cristo, nostro Re immortale e nostro Dio, la misericordia divina, il regno dei cieli e il perdono delle loro colpe».
L’assemblea e il coro rispondono: «Concedi, o Signore».
Il sacerdote, nel Vima, prega Colui che ha trionfato sulla morte e che ha dato in grazia la vita eterna di concedere alle anime dei cristiani defunti il riposo nel luogo della luce, del refrigerio, là dove non vi è dolore, né affanno, né gemito, e ad alta voce conclude:
«Poiché Tu sei la resurrezione e la vita[80] e il riposo dei tuoi servi defunti, Cristo Dio nostro, e a te rendiamo gloria assieme all’eterno tuo Padre e al santissimo, buono e vivificante, tuo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Il coro risponde con un Amìn di assenso.
Preghiere per i catecumeni
Il diacono intona le preghiere litaniche per i catecumeni[81]. Sebbene ai giorni d’oggi non sempre vi siano veri catecumeni, cioè persone non ancora cristiane che chiedono di essere battezzate, tuttavia, chi assiste ai misteri, data la mancanza di vera fede e di vita cristiana, si annovera tra i catecumeni: infatti, anche nei primi secoli del cristianesimo, i fedeli che erano riconosciuti soli degni di essere ammessi ad assistere alla cena dell’amore, consci della loro fede ancora languida e fredda, riconoscendo in loro la mancanza di quel fuoco dell’amore che tutto perdona e che fonde la durezza dell’anima nei confronti dei propri fratelli, credevano di non possedere l’adeguata perfezione onde partecipare alla celebrazione divina. Così, all’appello del diacono
«Catecumeni, pregate il Signore»,
ciascuno con cuore contrito risponde: «Signore, abbi pietà».
«Fedeli – continua il diacono – preghiamo per i catecumeni: affinché il Signore abbia misericordia di loro, perché li istruisca nella parola della verità, perché riveli loro l’Evangelo della giustizia, perché li unisca alla sua santa Chiesa cattolica ed apostolica. Salvali, abbi pietà di loro, soccorrili e custodiscili, o Dio, con la tua grazia».
E i fedeli, coscienti di essere assai poco degni di questo nome, pregando per i catecumeni, pregano anche per loro stessi, e, a ciascuna invocazione del diacono, con cuore contrito rispondono: «Signore, abbi pietà».
Il diacono:
«Catecumeni, inchinate il vostro capo al Signore».
Tutti s’inchinano, unendosi al canto dei cori e ripetendo mentalmente: «A te, o Signore».
Preghiera conclusiva per i catecumeni
Il sacerdote prega segretamente per i catecumeni e per coloro che per umiltà di spirito si considerano tali:
«Signore Dio nostro, che abiti nel più alto dei cieli e che rivolgi il tuo sguardo sulle più umili creature; Tu che, per la salute del genere umano, hai inviato l’unigenito tuo Figlio e Dio, il Signore nostro Gesù Cristo, volgi benigno lo sguardo sopra i tuoi servi catecumeni, che a te inchinano il loro capo e rendili degni, nel tempo opportuno, del lavacro della rigenerazione, della remissione dei peccati e della veste della incorruttibilità, uniscili alla tua santa Chiesa cattolica ed apostolica, ed annoverali tra l’eletto tuo gregge».
In seguito alzando la voce:
«Affinché essi assieme a noi glorifichino l’onorabilissimo e magnifico nome tuo, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli».
Il coro conclude: «Amìn».
Licenziamento dei catecumeni
Per ricordare che è venuto il momento nel quale i catecumeni venivano condotti fuori dal tempio, il diacono grida:
«Quanti siete catecumeni, uscite!».
Ancora una seconda volta, alzando la voce, egli ripete l’invito di congedo:
«Catecumeni, uscite![82] Nessun catecumeno rimanga qui, Tutti noi fedeli, ancora e poi ancora preghiamo in pace il Signore».
A queste parole, ciascuno, riconoscendo la propria indegnità, freme e viene scosso. Gridando mentalmente allo stesso Cristo, che scacciò dal tempio i venditori impudenti e i commercianti sfrontati, che avevano fatto del suo santuario un mercato, ciascuno si sforza di bandire dal tempio della propria anima l’uomo carnale, il catecumeno non ancora iniziato ad essere ammesso alle sacre cerimonie; ciascuno supplica quello stesso Cristo di resuscitare in lui l’uomo dal cuore umile e fedele, figurante nel gregge degli eletti di cui l’apostolo ha detto: «Nazione santa, popolo destinato alla salvezza, pietra con cui sarà edificato il tempio spirituale»[83]; ogni fedele brama di essere annoverato tra i veri fedeli, tra coloro che ai primi tempi del cristianesimo potevano assistere alla Liturgia e le cui immagini ora si ritrovano fra quelle dell’iconostasi. Pertanto, abbracciandoli tutti col suo sguardo, il fedele li chiama in suo aiuto come fratelli che oggi pregano dal cielo: che le loro preghiere facciano nascere in lui il vero fedele e lo rendano degno di assistere alle auguste e sublimi cerimonie che seguiranno.
Ha inizio la Liturgia dei fedeli.
PARTE III
Nel santuario o Vìma, chiuso agli sguardi dei fedeli dalle tende dell’iconostasi, il celebrante spiega sull’Altare l’antimìnsion[84], dove è rappresentata la deposizione del Salvatore. In esso sono racchiuse delle reliquie e su di esso vengono posti e il santo pane e il Calice contenente il vino con dell’acqua, già preparati dal sacerdote durante la Proskomidìa. Questi sacri doni vi saranno trasportati solennemente dall’altarino della Pròtesis, alla vista di tutta l’assemblea dei fedeli.
L’antimìnsion ci richiama i tempi delle persecuzioni dei cristiani, quando la Chiesa non aveva ancora una dimora stabile e quindi non poteva facilmente trasportare l’Altare da un luogo ad un altro: si serviva pertanto di questo antimìnsion, assai maneggevole, che conteneva – come si è detto – delle reliquie. Ancor oggi esso testimonia che la Chiesa di Cristo non fissa la sua dimora in maniera esclusiva in alcun edificio, in una città o in un determinato luogo, ma, qual naviglio, è portata dai flutti di questo mondo senza gettar l’ancora in nessun posto fisso: il suo posto è in cielo.
Dopo aver aperto l’antimìnsion, il celebrante si avvicina all’Altare nella stessa maniera come ebbe a farlo da principio e come se solo ora si preparasse al suo servizio: nei primi tempi del cristianesimo, infatti, congedati i catecumeni, in questo momento venivano aperte le porte e le tende della iconostasi e si dava inizio alle preghiere per i fedeli[85].
Preghiere per i fedeli
Il sacerdote s’inchina davanti all’Altare e, recitando le due preghiere segrete per i fedeli, domanda di essere anch’egli purificato in modo di stare senza condanna davanti al santo Altare e di offrirvi il sacrificio con pura testimonianza di coscienza[86].
Il diacono, in piedi sull’ambone, tenendo l’oràrion con le tre dita della mano destra, esorta i fedeli ad unirsi a quelle stesse preghiere con le quali venne iniziata la liturgia dei catecumeni. Sforzandosi di realizzare nei loro cuori l’armoniosa unione della pace, più che mai indispensabile in questo momento, i fedeli ripetono «Signore, abbi pietà» e pregano ancora con più fervore per la pace che viene dall’alto, per la pace di tutto quanto il mondo, per la prosperità delle Chiese di Dio e l’unione di tutti, per il santo tempio e per coloro che vi entrano con fede, riverenza e timor di Dio, per essere liberati da ogni afflizione, ira e bisogno, ed invocano dal profondo del cuore: «Signore, abbi pietà».
Il diacono grida: «Sapienza» per significare che la medesima Sapienza, l’eterno Figlio di Dio, simboleggiato dall’Evangelo che è uscito poc’anzi per seminare la parola di vita, ritornerà fra poco ad essere portato processionalmente sotto le specie del santo pane per essere immolato per la salvezza del mondo.
Preghiera propiziatoria per l’offerta
Ravvivati da questi pensieri, i fedeli si concentrano nella contemplazione dei celesti misteri che stanno per svolgersi, mentre il sacerdote officiante recita davanti all’Altare questa sublime preghiera:
«Nessuno che sia schiavo di desideri carnali e di voluttà è degno di presentarsi o d’appressarsi o di offrir sacrificio a te, Re della gloria. Servire te, infatti, è cosa grande e tremenda anche per le stesse Potenze sovracelesti. Nondimeno, per il tuo ineffabile e immenso amore per gli uomini, ti sei fatto uomo senza verun cambiamento e mutamento e sei stato costituito nostro Pontefice e ci hai affidato come Signore dell’universo, il ministero di questo liturgico ed incruento sacrificio. Tu solo, infatti, o Signore Dio nostro, imperi sovrano sulle creature celesti e terrestri, assiso sul trono dei Cherubini, tu, Signore dei Serafini e Re di Israele, tu che sei il solo santo e riposi tra i santi. Te dunque prego, te che solo sei buono e pronto ad ascoltarmi: volgi benigno lo sguardo sopra di me peccatore ed inutile tuo servo, e purifica la mia anima e il mio cuore da ogni prava coscienza; e per la potenza del tuo Santo Spirito, fa che io, rivestito della grazia del sacerdozio, possa presentarmi a questa tua sacra Mensa e consacrare il santo e immacolato tuo Corpo e il tuo prezioso Sangue. A te mi appresso, inchinando il mio capo, e così ti prego: non distogliere da me il tuo volto e non rigettarmi dal numero dei tuoi servi, ma concedi che io, peccatore ed indegno tuo servo, ti offra questi doni. Tu, infatti, o Cristo Dio nostro, sei l’offerente e l’offerto, Colui che riceve e Colui che è distribuito, e a te rendiamo gloria in unione con l’eterno tuo Padre e col tuo Santo Spirito, buono e vivificante, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amìn»[87].
All’inizio di questa preghiera sono state aperte le Porte Regie, facendo ammirare ai fedeli il sacerdote orante che, tenendo le mani elevate, ne ripete le parole con voce sommessa. Il diacono esce agitando il turibolo per preparare la via al Re dell’universo; e, mentre fa alzare nuvole d’incenso che si trasformano in volute fumanti tra le quali passeranno solennemente in processione i sacri doni, ricorda a tutti che, qual profumo di Cristo – secondo l’espressione del Salmista – la loro preghiera deve elevarsi come l’incenso[88] e che, per ricevere il Signore, devono divenire anch’essi puri come i cherubini.
Inno cherubico
I cori, a nome di tutta la Chiesa, intonano il canto dei cherubini:
«Noi che misticamente raffiguriamo i Cherubini e alla Trinità vivificante cantiamo l’inno Trisàgion, deponiamo ogni mondana preoccupazione per accogliere il Re dell’universo, invisibilmente scortato dalle angeliche Schiere. Alliluia»[89].
Questo Alliluia (cioè: «Lodate il Signore») è il canto proprio dei Cherubini, poiché è con questa esclamazione che, secondo la santa Scrittura, essi invocano il Signore[90].
Per comprendere quest’inno, bisogna sapere che era in uso presso gli antichi romani di mostrare al popolo l’imperatore neoeletto in piedi su un grande scudo, tenuto in alto dai soldati e scortato dalle legioni imperiali, all’ombra di un gran numero di lance e d’insegne piegate verso di lui gridando trionfalmente “Viva il Caesar!”. Ora, questo inno liturgico fu composto proprio da un imperatore che, all’apice della sua gloria, precipitò nella polvere con tutto l’apparato terrestre della sua grandezza al cospetto della maestà del Re dell’universo, portato in trionfo dai cherubini e dalle milizie celesti[91]. Da allora, anche gli imperatori si unirono alla fila dei servitori dell’Altare al momento della processione, quando vengono portati i sacri doni.
Il canto dell’inno cherubico è tutto un’angelica melodia e risuona ai nostri orecchi come cantato dalle Potenze invisibili negli spazi celesti. Il sacerdote e il diacono lo ripetono a bassa voce e dopo si dirigono verso l’Altare della Proskomidìa. Appressandosi ai sacri doni, che sono ricoperti dai veli, il diacono dice:
«Toglili, o signore».
Il sacerdote leva il velo e lo pone sulla spalla sinistra del diacono dicendo:
Grande Ingresso
Dopo prende il discàrion (patena), lo porge al diacono, che lo pone sul capo, prende quindi egli stesso il santo Calice e preceduti dai ceroferari escono dalla porta Nord, dirigendosi verso i fedeli. Quando però vi sono parecchi concelebranti, uno porta il Calice, un altro il cucchiaino[93], un terzo la piccola lancia, altri ancora i vari oggetti in uso per il santo sacrificio[94] ivi compresa la spugnetta che è già servita per raccogliere le particelle del santo pane sul discarion e che simboleggia quella imbevuta di aceto e di fiele che gli uomini presentarono al loro Creatore in croce per spegnere lo stimolo della sete.
Dopo aver cantato la prima parte dell’inno, il coro sta in silenzio per un attimo; ed ecco, simile alla falange delle Potenze celesti, avanzarsi i ministri in corteo solenne. Quest’azione liturgica è chiamata «Grande Ingresso»[95]. Alla vista del Re di tutte le cose, portato sotto l’umile apparenza di agnello, poggiato sulla patena come su uno scudo, attorniato dagli strumenti delle sue sofferenze terrene quasi fossero le lance delle innumerevoli Schiere delle Potenze celesti, tutti i fedeli inchinano la testa e ripetono le parole che il buon ladrone indirizzò sulla croce al Salvatore: «Ricordati di me, o Signore, quando rientrerai nel tuo regno»[96].
Il corteo, giunto in mezzo al tempio, si ferma[97]. Il sacerdote celebrante sceglie questo momento solenne per raccomandare al Signore tutti i cristiani: comincia da coloro cui incombono le cariche più pesanti e più sante, dal cui adempimento dipende la felicità di tutti e la salvezza delle loro anime, e conclude:
«Che il Signore Iddio si ricordi di voi e di tutti i cristiani ortodossi nel suo regno, adesso e sempre e nei secoli dei secoli».
Il coro ora completa l’inno: «Per accogliere il Re dell’universo, invisibilmente scortato dalle angeliche Schiere» e termina il canto dei Cherubini con la triplice acclamazione: Alliluia, che annunzia la venuta del Signore e che accompagna questa misteriosa marcia del «Re dei re e del Signore dei signori»[98] verso la passione volontaria e la sua morte per la salvezza del mondo.
E il corteo entra nel santuario per le Porte Regie. Precede il diacono e si ferma al limite delle Porte Regie, a destra, accogliendo il sacerdote con queste parole:
«Che il Signore Iddio si ricordi del tuo sacerdozio nel suo Regno».
Il sacerdote gli risponde:
«Che il Signore Iddio si ricordi della tua dignità diaconale nel suo Regno, adesso e sempre e nei secoli dei secoli»,
quindi depone i sacri doni, simboleggianti il corpo di Cristo, sull’Altare che ricorda il suo sepolcro.
Vengono chiuse le Porte Regie come vennero rinchiuse quelle di accesso al sepolcro del Salvatore; vengono ancora chiuse le tende, quasi custodia posta presso il sepolcro.
Il sacerdote prende dal diacono il sacro discàrion, come se staccasse dalla croce il corpo stesso del Salvatore, lo pone sull’antimìnsion spiegato sull’Altare, come se lo deponesse sulla sindone, e accompagna questa azione con le parole:
«Il nobile Giuseppe, calato dalla croce l’immacolato tuo corpo, l’avvolse in un lenzuolo e lo cosparse di aromi, e, avendogli reso funebri onori, lo depose in un sepolcro nuovo».
Ricordandosi dell’onnipresenza di Colui che ora gli giace davanti nel sepolcro, egli ripete tra sé:
«O Cristo, fosti presente col tuo corpo nel sepolcro e con la tua anima negli inferi, come Dio eri in paradiso col ladrone, e ancora sul tuo trono con il Padre e lo Spirito Santo, essendo ovunque e riempiendo ogni cosa, tu che sei incircoscritto».
Ricordando ancora la gloria che circonda questo sepolcro, egli dice:
«Sorgente di vita, più bello del paradiso, più splendido ancora di tutti i palazzi dei re, ci è apparso, o Cristo, il tuo sepolcro, fonte della nostra resurrezione».
Togliendo quindi i veli con cui era coperto il discàrion o patena e il Calice, e levando dalle spalle del diacono il velo grande (aere), i quali tutti da ora innanzi non simboleggeranno più i panni nei quali venne avvolto Gesù bambino, ma il sudario con il quale venne coperto il corpo del Salvatore, il sacerdote con l’aere ricopre il Calice e il discàrion *dicendo: «Il nobile Giuseppe...»*. In seguito, ricevuto il turibolo dal diacono, egli incensa i sacri doni e si prepara per l’imminente sacrificio, recitando le parole del profeta David:
«Sii indulgente, o Signore, nella tua benevolenza verso Sion e siano edificate le mura di Gerusalemme. Allora gradirai sacrificio di giustizia, oblazione ed olocausti; allora si offriranno vitelli sul tuo Altare»[99].
Infatti, finché Dio stesso non innalza le nostre anime, attorniandole di mura, come per Gerusalemme, sì da porle arbitre di ogni intrusione di appetiti carnali, noi non saremo capaci di offrirGli sacrifici ed olocausti, e la fiamma della nostra preghiera non potrà spiritualmente elevarsi, distratta com’è da pensieri estranei, assaltata da passioni, presa dal turbinio delle rivolte interne. Nel ridare al diacono l’incensiere, il sacerdote prega per la purificazione dell’anima in vista del sacrificio e, inchinando il capo, così continua:
«Ricordati di me, fratello e concelebrante»,
«Il Signore Dio si ricordi del tuo sacerdozio nel suo Regno in ogni tempo, ora e sempre e nei secoli dei secoli»,
gli risponde il diacono e, a sua volta, considerando la propria indegnità, inchina il capo e alza l’oràrion dicendo:
«Ricordati di me, signore santo».
Il sacerdote gli risponde:
«Lo Spirito Santo discenderà su di te, e la potenza dell’Altissimo abiterà in te».
Il diacono aggiunge:
«Questo stesso Spirito concelebrerà con noi tutti i giorni della nostra vita».
E conscio più che mai della propria indegnità, il diacono supplica per la seconda volta:
«Ricordati di me, signore santo»
E il sacerdote:
«Il Signore Dio si ricordi di te nel suo Regno, adesso e sempre e nei secoli dei secoli».
Il diacono, avendo concluso con un Amìn di assenso e avendo baciata la destra al sacerdote, esce dalla porta del Nord per esortare i fedeli alla preghiera dell’offerta dei sacri doni.
Riti dell’offerta
Salito sull’ambone, rivolto verso le Porte Regie e alzando l’oràrion, quasi ala distesa di un angelo che incita i fedeli alla preghiera, il diacono inizia la serie delle invocazioni, che questa volta sono differenti dalle precedenti. Comincia con un invito alla preghiera per le offerte portate sull’Altare per continuare poi con delle domande che solo i credenti che vivono una vita cristiana possono rivolgere al Signore[100].
«Perché tutta questa giornata sia perfetta, santa, pacifica e senza peccato, chiediamo al Signore» – invoca ad alta voce il diacono.
E l’assemblea dei fedeli, desiderando trascorrere così la giornata, si unisce al coro e, dal profondo del cuore, canta:
«Concedi, o Signore».
«Affinché un angelo di pace, quale fedele protettore e guida, custodisca le nostre anime e i nostri corpi, chiediamo al Signore».
Pregando per ottenere l’aiuto di questo angelo, tutti esclamano: «Concedi, o Signore».
«Il perdono e la remissione dei nostri peccati e delle nostre colpe, chiediamo al Signore».
Pregando con lacrime perché questo perdono sia accettato, ognuno ripete: «Concedi, o Signore».
«Ogni bene, vantaggioso alle nostre anime e la pace nel mondo, chiediamo al Signore».
Tutti, al fine di ottenere ciò, supplicano con più forza: «Concedi, o Signore»,
«Perché possiamo passare in pace e in penitenza quanto ci resta della nostra vita, chiediamo al Signore».
Pregando per questa intenzione, come per la grazia più desiderabile, l’assemblea dice: «Concedi, o Signore».
«Una morte cristiana, senza dolore, rimorso, placida, una valida difesa dinanzi al tremendo tribunale di Cristo, chiediamo al Signore»,
all’unisono, fondendo in un sol grido la supplica, l’assemblea invoca: «Concedi, o Signore».
Alzando gli occhi corporei e spirituali verso le iconi dei santi, il diacono esclama:
«Facendo memoria della santissima, intemerata, benedetta sopra ogni creatura e gloriosa nostra Sovrana, la Madre di Dio e sempre Vergine Maria, con tutti i Santi, raccomandiamo noi stessi, e gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio».
Protesi in un desiderio ardente e sincero di offrirsi «loro stessi, e gli uni e gli altri», a Cristo Dio, così come fece la Madre di Dio e tutti i Santi, i fedeli gridano: «a te, o Signore».
[Nel frattempo, dopo la deposizione dei santi donni sulla sacra Mensa, il sacerdote dice in segreto la preghiera della Proskomidìa:
«Signore, Dio onnipotente, unico santo, Tu accetti l’immolazione di lode da quanti ti invocano di tutto cuore, accogli anche la preghiera di noi peccatori e mettici in grado di offrirti doni e immolazioni spirituali per i nostri peccati e per disconoscenze del popolo. Consentici anche di trovar grazia al tuo cospetto affinché ti sia benaccetta la nostra immolazione e lo Spirito della tua grazia, che è buono, dimori su di noi e su questi Doni imbanditi, e su tutto il popolo tuo».]
Termina l’Ectènia con la seguente invocazione ad alta voce:
«Per le misericordie del tuo unigenito Figlio, con il quale sei benedetto, insieme con il santissimo buono e vivificante tuo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Il coro fa risuonare Amìn.
Il Vìma è rimasto chiuso e il celebrante non ha ancora proceduto all’offerta della vittima, poiché bisogna che prima precedano altri atti di preparazione. Egli si concentra in profondo raccoglimento nel ricordo dell’ultima cena. Il santuario o Vìma diviene l’aula del cenacolo; il santo Altare, la tavola; i fedeli che affollano il tempio, gli apostoli che vi assistettero. Dal fondo del Santuario, il celebrante indirizza all’assemblea lo stesso augurio del Salvatore: «Pace a tutti». Gli viene risposto: «E al tuo spirito».
In piedi sull’ambone, il diacono, come ai tempi dei primi cristiani, invita i presenti ad amarsi reciprocamente, dicendo:
«Amiamoci gli uni gli altri, affinché in unità di spirito professiamo la nostra fede...».
E il coro riprende e termina quest’invito con le seguenti parole:
«…nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, Trinità consustanziale e indivisibile».
Poiché, se non ci amiamo a vicenda, non ci è possibile amare Colui che è tutto Amore, Amore completo e perfetto.
Per tre volte il celebrante s’inchina davanti all’Altare, ripetendo segretamente:
«Ti amerò, o Signore, mia forza; il Signore è mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore»[101],
e bacia il velo (l’aere) in corrispondenza del discàrion e del Calice e, quindi, l’angolo della sacra Mensa.
Bacio di pace
Qualunque sia il numero dei concelebranti, tutti ripetono lo stesso atto e dopo si scambiano l’abbraccio di pace, l’uno dicendo:
«Cristo è in mezzo a noi»
e l’altro rispondendo:
I diaconi, nel mentre, qualunque sia il loro numero, fanno tre inchini o metànie e baciano la croce trapunta nell’estremità dell’oràrion, dopo, ognuno bacia l’altro nella spalla, ripetendo le stesse parole dei concelebranti.
Una volta anche i fedeli presenti nel tempio si scambiavano questo abbraccio, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne[103]. Il primo diceva: «Cristo è in mezzo a noi» e l’altro rispondeva: «È e sarà». Ecco perché oggi, ogni fedele, raffigurandosi in spirito tutti i fedeli, non soltanto coloro che sono presenti in chiesa ma anche gli assenti, non solo coloro che sono vicini al suo cuore ma anche coloro che ne sono lontani, si sforza di riconciliarsi con quelli verso i quali nutre odio, risentimento od inimicizia e, nel suo animo, da a ciascuno il bacio della riconciliazione e della pace, dicendo tra sé: «Cristo è in mezzo a noi» «È e sarà». Poiché, senza questa riconciliazione, egli può considerarsi morto e quindi assente dalle cerimonie che seguiranno, in forza delle parole dello stesso Cristo: «Lascia la tua offerta ai piedi dell’Altare e va prima a riconciliarti col tuo fratello, e solo allora ritorna ad offrire la tua offerta»[104] e, secondo le parole dell’Apostolo di Cristo: «Se qualcuno dice: io amo Dio, mentre odia il suo fratello, è bugiardo, poiché non amando il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio che non vede?»[105].
In piedi sull’ambone, il diacono, alzando la stola con le tre dita, stimola l’attenzione dei fedeli con questa esclamazione:
«Le porte, le porte!».
Una volta quest’avvertimento era indirizzato a coloro che erano messi a custodia dell’ingresso del tempio, in modo che non accadesse che qualcuno che non aveva diritto ad assistere alla Liturgia dei fedeli entrasse nella chiesa; oggi vengono ammoniti i fedeli perché veglino sull’ingresso dei loro cuori, nei quali – in seguito all’invito della Chiesa – è stato riposto l’amore. Bisogna che si impedisca che venga introdotto nell’intimo di questi santuari spirituali lo spirito d’inimicizia affinché i fedeli tutti possano aprire la loro bocca e i loro orecchi per professare ed ascoltare la recita del simbolo della fede.
Il diacono invita tutti i fedeli e dice:
«Prestiamo attenzione e siamo saggi».
Simbolo di fede
I cori, con ritmo cadenzato e solenne, come in una recita, scandiscono a voce alta e chiara:
«Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli; e si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria vergine e si è fatto uomo. Fu pure crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, e patì e fu sepolto. E risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture. E salì al cielo e siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti: e il suo regno non avrà fine. E nello Spirito Santo, che è Signore e da vita, che procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, che ha parlato per bocca dei Profeti. E nell’una, santa, cattolica ed apostolica Chiesa. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la resurrezione dai morti e la vita del mondo che verrà. Amìn»[106].
Ripetendo il simbolo con voce ferma e sicura, al seguito dei cantori, ogni fedele ne ha riportate impresse nel proprio cuore le singole parole. Davanti all’Altare, che deve rappresentare la santa tavola dell’ultima cena, il sacerdote, con animo tranquillo e fiducioso, recita a voce sommessa il credo e tutti i concelebranti si uniscono a lui, agitando il grande velo (aere) al di sopra dei sacri doni[107].
Inizio dell’Anafora
Quindi il diacono:
«Stiamo con devozione, pieni di riverente timore, stiamo attenti ad offrire in pace la santa oblazione»[108],
cioè comportiamoci come se fossimo alla presenza di Dio: con tremore e timore e, nello stesso tempo, con quel vigore audace dello spirito, indispensabile per elevarsi al Signore e che sa indirizzare a Dio lodi, in armonia con la pace testé ristabilita nei cuori.
In risposta a questo invito, tutta la Chiesa, recando in sacrificio la lode che proviene dalle labbra dei cuori raddolciti, ripete con i cantori:
«Offerta di pace, sacrificio di lode».
Il diacono rientra nel Vìma, prende tra le mani il ripìdion[109] e lo agita al di sopra dei sacri doni.
Il sacerdote dall’Altare, disponendosi a compiere i misteri della cena, indirizza ai fedeli il saluto dell’Apostolo:
«La grazia del Signore Nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione del Santo Spirito siano con tutti voi»[110].
Ad esso tutti rispondono:
«E con il tuo spirito».
Il santuario che raffigurava la spelonca o la grotta dove nacque Cristo, rappresenta ora il cenacolo; l’Altare non simboleggia più la tomba, ma è divenuto la tavola per la cena. Il celebrante, ricordando come il Salvatore prima di dare ai suoi discepoli il cibo divino elevò gli occhi al cielo, esclama:
«Eleviamo i cuori!».
Tutti i fedeli meditano ciò che sta per compiersi: in questo momento l’Agnello divino sta per essere immolato per ciascuno di loro, il sangue del Signore è pronto per spandersi anche per la loro purificazione; per la loro salvezza, tutte le Potenze celesti si uniscono nella preghiera al celebrante. Così assorti, con tutto lo slancio del loro cuore, ognuno lascia la terra per librarsi nei cieli, abbandona le tenebre in cerca della luce, ed esclama:
Per ricordare come il Salvatore nell’ultima cena prima di spezzare il pane rendeva grazie a Dio Padre, il celebrante dice:
«Rendiamo grazie al Signore».
E il coro gli risponde:
«È degno e giusto adorare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, Trinità consustanziale e indivisibile».
Preghiera eucaristica
Allora il sacerdote continua sommessamente a pregare:
«È degno e giusto[112] celebrarti, lodarti, ringraziarti, adorarti in ogni luogo del tuo dominio: Tu infatti sei il Dio ineffabile, inconcepibile, invisibile, incomprensibile, sempre esistente e sempre lo stesso, Tu, ed il tuo unigenito Figlio, e il tuo Santo Spirito. Tu dal nulla ci hai tratti all’esistenza e, caduti, ci hai rialzati; e nulla hai omesso di fare fino a quando non ci hai ricondotti in cielo, e ci hai donato il regno tuo avvenire. Per tutti questi doni rendiamo grazie a Te e all’unigenito tuo Figlio e al tuo Spirito Santo, per tutti i beni che conosciamo e per quelli che non conosciamo, per i benefici palesi ed occulti che ci sono stati fatti. Ti rendiamo grazie altresì per questo sacrificio che ti sei degnato di ricevere dalle nostre mani, sebbene ti stiano dinanzi migliaia di Arcangeli e miriadi di Angeli, i Cherubini e i Serafini con sei ali, con molti occhi, sublimi, alati…
(e termina ad alta voce):
…i quali cantano l’inno della vittoria esclamando, e a gran voce dicendo:»
(e il coro continua)
«…Santo, santo, santo, il Signore degli eserciti; il cielo e la terra sono pieni della tua gloria».
Con la parola santo, ripetuta tre volte, si vuole indicare il mistero della Trinità; con il Signore degli eserciti, l’Unità di Dio.
Al canto trionfale dei Serafini, riecheggiante nei cieli, si unisce il coro della Chiesa, che dalla terra eleva la sua voce e gli va incontro. Lo stesso inno innalzarono i figli degli Ebrei che andarono a ricevere il Re del cielo, sceso in terra, quando fece il suo ingresso a Gerusalemme:
«Osanna nel più alto dei cieli, benedetto Colui che viene nel nome del Signore».
Con questo stesso canto ancor oggi tutta la Chiesa accoglie Colui che discende invisibilmente dal cielo in questo tempio, quasi misteriosa Gerusalemme, per offrirsi in vittima nel mistero che si avvicina. Ed ecco perché ciascun fedele, mentre finora aveva impersonato i cherubini che assieme alle milizie celesti avevano annunziato l’Incarnazione di Cristo unendosi a questi per accogliere il Re dell’universo scortato dalle Gerarchie angeliche, adesso in unione con i solerti serafini canta a Dio l’inno della vittoria:
Inno dei Serafini
«Santo, santo, santo, il Signore degli eserciti; il cielo e la terra son pieni della tua gloria[113]. Osanna nel più alto dei cieli. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli»[114].
«Puoi elevarti all’altezza dei serafini, solo se lo vorrai – dice S. Giovanni Crisostomo – basta che riesci a raffigurarti quanto di più bello hai visto sulla terra, che riesci a ricordarti di quello che ti ha rapito e per cui sei rimasto estasiato. Pensa allora a tutte queste meraviglie: a te sembrano grandi e straordinarie, esse però riflettono solo imperfettamente la sublime bellezza celeste e non lasciano trasparire fugacemente che la frangia di un solo abbigliamento sfavillante divino. La tua anima allora si eleverà verso la fonte e la dimora della bellezza e canterà l’inno trionfale, inchinandosi con i serafini dinanzi al trono eterno dell’Altissimo»[115].
Mentre nel tempio risuona la dolce e solenne melodia dei serafini, il diacono rimane nel Vìma ed agita il ripìdion al di sopra dei sacri doni.
Memoriale della Mistica Cena
Il sacerdote recita in segreto la seguente preghiera:
«Noi pure, o Sovrano amico degli uomini, con queste beate Potenze esclamiamo e diciamo: sei santo, tutto santo, Tu e il tuo unigenito Figlio e il tuo Santo Spirito. Sei santo, tutto santo, e magnifica è la tua gloria. Tu hai amato tanto il mondo fino a dare l’unigenito tuo Figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Egli, compiendo con la sua venuta tutta l’economia di salvezza a nostro favore, nella notte in cui veniva tradito, o piuttosto consegnava sé stesso per la salvezza del mondo, prese del pane nelle sue mani sante, intemerate ed immacolate, rese grazie, lo benedisse, lo santificò, lo spezzò e lo diede ai suoi santi discepoli ed apostoli, dicendo (a questo punto il celebrante continua ad alta voce e con devozione):
Prendete, mangiate, questo è il mio corpo che per voi viene spezzato in remissione dei peccati»[116].
Il diacono accompagna queste parole del sacerdote con un gesto: alzando l’oràrion, indica il santo discàrion sul quale è disposto il santo pane; il coro, nel mentre, risponde solennemente: Amìn.
Il sacerdote continua a bassa voce:
«Similmente prese anche il calice, dopo che ebbe cenato, dicendo (e continua ad alta voce con le parole domenicali):
Bevetene tutti: questo è il mio Sangue, quello della Nuova Alleanza, che per voi e per molti viene sparso in remissione dei peccati»[117].
Anche queste parole sono accompagnate da un gesto rispettoso del diacono che indica il santo Calice. Il coro ritorna a rispondere: Amìn.
L’assemblea dei fedeli ascolta queste parole come se fossero pronunziate dallo stesso Salvatore. Si avvicina l’istante del sacrificio. Il santuario o Vìma non è più il cenacolo; l’Altare non rappresenta più la tavola per la cena: essi sono il luogo del sacrificio, il Golgota, dove il Figlio di Dio si è offerto vittima per noi.
Anamnesi
Il celebrante continua a pregare in segreto:
«Memori dunque di questo salutare precetto e di tutto ciò che è stato fatto per noi: della croce, della sepoltura, della resurrezione al terzo giorno, dell’ascensione nei cieli, dell’intronizzazione alla destra del Padre, della seconda e gloriosa venuta».
E aggiunge, alzando la voce:
Offerta
Nel momento in cui i cori modulano la commovente e dolce melodia:
«A Te inneggiamo, te benediciamo, te ringraziamo, o Signore, e ti supplichiamo, o Dio nostro»,
si compie nel Vìma il sacro rito più terrificante e più misterioso di tutta la Liturgia: il sacrificio offerto al Salvatore diviene allora realmente il sacrificio stesso che il Redentore offrì sul Calvario per tutti gli uomini. Il pane e il vino, che hanno raffigurato il corpo e il sangue, diventano realmente corpo e sangue di Cristo.
[Ora nel Santuario si fa l’invocazione al Santo Spirito. Il sacerdote, inchinato e con profonda devozione, dice prima segretamente:
«Ancora ti offriamo questo culto razionale e incruento e ti invochiamo, e ti preghiamo, e ti imploriamo: manda il tuo Spirito Santo su di noi e su questi Doni imbanditi».]
Poi viene innalzata una triplice invocazione allo Spirito Santo:
«Signore, tu che alla terza ora hai inviato il tuo Santissimo Spirito ai tuoi Apostoli, non ce lo togliere, Dio buonissimo, ma rinnovalo in noi, te ne preghiamo»[119].
Finita la prima invocazione, il diacono intercala il seguente versetto:
Dopo la seconda invocazione dice:
Epiclesi
Dopo la terza, il diacono, con la testa china[122], indicando con l’oràrion il santo Pane, non osando proferir parola, dal profondo del suo cuore invoca:
«Benedici, Signore, questo santo Pane».
Il celebrante fa un segno di croce sul Pane, pronunciando le parole consacratorie del sacramento dell’Eucaristia:
[«E fa di questo Pane il Prezioso Corpo del Corpo del tuo Cristo».]
Il diacono risponde Amìn e, mostrando con riverenza il Calice, dice:
«Benedici, Signore, il santo Calice».
Il celebrante [facendo un segno di croce anche su questo] pronunzia le parole consacratorie proprie per il Calice:
«E fa di ciò che è in questo Calice il Prezioso Sangue del tuo Cristo»
Il diacono risponde ancora Amìn. Di nuovo, indicando il discàrion e il Calice, il diacono invita il sacerdote a benedirli:
«Benedici, Signore, l’uno e l’altro».
[E il sacerdote, benedicendo a forma di croce il santo pane e il santo Calice, dice:
«Trasmutandoli per opera del tuo Spirito Santo».]
Conclude il diacono con:
La trasmutazione è compiuta. Quello stesso corpo che ha rivestito il Verbo eterno sulla terra, lo stesso corpo del Signore, è ora presente sull’Altare. L’immolazione è avvenuta nell’istante del proferimento di una parola, anziché nel momento in cui, per mezzo di una lancia, venne trafitto il corpo del Redentore.
In quell’istante nessuno si è curato di identificare e di guardare alla persona del sacerdote: non è stato il sacerdote, in tutto simile ‘a noi, e nelle sembianze e nella specie, ma il supremo ed eterno Pontefice che ha compiuto questa immolazione, ed è questi a perpetuarla nei secoli nella persona dei suoi sacerdoti. Sull’Altare non vi è il simbolo o l’immagine del corpo, ma vi si trova quello stesso corpo del Signore, che soffrì sulla terra, che ricevette schiaffi e sputi, che venne crocifisso, che fu seppellito, che risuscitò, che salì in cielo sedendosi alla destra di Dio Padre. Non si vede più se non l’apparenza del pane, che serve di nutrimento agli uomini, secondo quanto detto dallo stesso Signore: «Io sono il pane»[124].
Nel mentre le campane annunziano a tutti il momento solenne: chi si trova in cammino come colui che è intento al lavoro dei campi, colui che riposa a casa o è assorto in qualche occupazione, chi è rinchiuso tra le mura di una prigione come colui che giace nel letto per infermità, dovunque egli si trovi, chi ha ascoltato il suono delle campane, si ferma a pregare il Signore perché ottenga salute, perché questo terrificante sacramento non sia a giudizio o a condanna di alcuno dei suoi fratelli.
Nel tempio, tutti i fedeli si inchinano al cospetto del Signore, mentre i ministri sacri, toccando con la fronte il pavimento, indirizzano a Dio una preghiera intima che sgorga dai loro cuori santificati. Il diacono, inchinando il capo, dice:
«Ricordati di me, o Signore».
E il sacerdote gli risponde:
«Che il Signore Iddio si ricordi di te nel suo regno ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Il diacono, avendo detto Amìn, si mette a destra dell’Altare e agita il ripìdion, quasi ala di serafini al di sopra dei sacri doni.
Il sacerdote, avendo chiesto nel suo intimo che il corpo e il sangue di Cristo concedano a tutti i presenti il dono della semplicità dello spirito e la remissione dei peccati, prega perché si realizzi il compimento del regno dei cieli, perché tutti i fedeli perseverino ad aver fiducia nel Signore, e continua ad intercedere perché si allontani ogni minaccia di giudizio o di condanna, ricordando tutti in presenza del corpo e del sangue del Signore. Raduna alla presenza di Cristo tutta la sua Chiesa; quella che lotta ancora sulla terra, «la militante», e quella che è nei cieli, «la trionfante», ricordandone ciascun membro, dai Patriarchi e dai Profeti dell’Antico Testamento ai cristiani attualmente in vita:
[«Ancora ti offriamo questo culto razionale per quelli che riposano nella fede, Avi, Padri, Patriarchi, Profeti, Apostoli, Predicatori, Evangelisti, Martiri, Confessori, Asceti, e per ogni spirito giusto reso perfetto nella fede»].
Inno alla Vergine
E in primo luogo egli intercede per loro presso la Madre di Dio:
[«In specie per la tuttasanta, intemerata, più che benedetta, gloriosa Sovrana nostra, Deipara e semprevergine Maria»].
In risposta il coro intona un inno di lode alla Vergine, che viene ripetuto segretamente dai fedeli:
«È veramente giusto proclamare te, Deipara, beatissima e tutta pura, Madre del nostro Dio. Te, più onorabile dei Cherubini ed incomparabilmente più gloriosa dei Serafini, che senza ombra di corruzione partoristi Dio Verbo, noi magnifichiamo quale vera Madre di Dio»[125].
Subito dopo il celebrante ricorda S. Giovanni il Precursore, gli Apostoli, il santo che viene commemorato in quel giorno e tutti i Santi. Prega per coloro che si sono addormentati nel Signore nella speranza della resurrezione alla vita eterna.
Dittici
Commemora quindi tutti i vivi[126], cominciando da coloro che occupano gradi gerarchici più elevati e posti di alta responsabilità. Alla presenza del corpo e del sangue di Cristo, prega per i Governanti, affinché il Signore li fortifichi con la sua potenza divina e li aiuti a conseguire il bene comune. Egli ricorda ancora tutti i cristiani e, nella sua preghiera segreta, supplica il Signore di spandere su tutti le sue misericordie. Il Sacerdote prega perché, in un unanime afflato verso il bene, la navicella dello Stato segua la rotta voluta e ogni suddito armonizzi il proprio lavoro in vista di un governo pacifico,
«… affinché pure noi, nella pace loro, possiamo vivere una vita quieta e tranquilla con tutta pietà ed onestà»[127].
Durante questa preghiera silenziosa, compiuta nel santuario, ogni fedele si è associato con slancio e con compunzione come avrebbe fatto per un affare personale, per la propria anima, che per ciascuno è tesoro inestimabile, la cosa più cara al mondo.
Ancora il sacerdote prega ugualmente per coloro che sono rivestiti delle più alte cariche ecclesiastiche, consacrati per il governo della Chiesa e per amministrare con la parola la stessa verità divina. Considerando quanto santo è il loro dovere e tremenda la loro responsabilità, il sacerdote, con cuore contrito e ad alta voce, non può che indirizzarsi a Dio con queste parole:
«Anzitutto ricordati, Signore, del nostro Arcivescovo… e donali qual grazia alle tue sante Chiese in pace, salvi, onorati, sani, longevi e dediti a esporre rettamente il verbo della tua verità».
Tutti i presenti si uniscono al sacerdote nell’augurio che possano dispensare rettamente la tanto agognata parola di verità, che possano annunziare, nell’adempimento del loro ministero, Dio solo. Allora i cantori aggiungono solennemente di ricordarsi di tutti quelli che ciascuno ha in mente:
«E di tutti e di tutte».
Continua il sacerdote a pregare perché il Signore si ricordi della città in cui dimora, di ogni città e paese e dei fedeli che vi abitano. Implora dal Signore la grazia di ricordarsi dei viandanti, degli ammalati, dei sofferenti e dei prigionieri; egli prega per la loro salvezza e prega ancora per coloro che si adoperano per il bene delle sante Chiese e che si ricordano dei poveri. [Specialmente nella liturgia di San Basilio prega per tutti gli uomini in generale, chiunque essi siano e dovunque essi si trovano, chiedendo dal Signore, tra l’altro, anche questo:
«Mantieni i buoni nella tua bontà; fa che i malvagi diventino onesti nella tua onestà».
Ancora prega nome per nome per tutti quelli, i cui nomi sono stati dati per fare memoria, come anche per quelli che ha dimenticato nella sua preghiera.]
Unendosi nella preghiera silenziosa al sacerdote, ogni fedele aggiunge in questo momento una prece per coloro che egli conosce, amici e nemici; e questa preghiera è per tutti, senza distinzione. Quindi il celebrante termina cantando:
«E accordaci di lodare e di glorificare con una sola voce e con un sol cuore l’onorabilissimo e magnifico nome tuo, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Mettendo in risalto con quanta ansia aspira a questa unità, la Chiesa risponde con un Amìn di assenso; e, in questo momento, essa è di una verità irrefutabile. Amìn, ripete ciascuno nel proprio cuore, sapendo che vi è una sola Chiesa in cielo e sulla terra, una sola fede e un solo battesimo. In questo tempio, stretti da un legame di carità, anche noi dobbiamo unirci come fratelli, formando un sol corpo e una sola anima, dato che siamo stati battezzati e quindi siamo membri della stessa Chiesa. Il sacerdote dal santuario indirizza a tutti l’augurio di benedizione:
Gli viene risposto: «E col tuo Spirito». Hanno termine così le preghiere fatte in presenza del Corpo e del Sangue di Cristo per coloro che formano la Chiesa.
Invocazioni impetratene
Il diacono ritorna a salire sull’ambone per intonare le preghiere sui doni già offerti a Dio e trasmutati, affinché non ritornino a nostro giudizio e a nostra condanna. Alzando l’oràrion con le tre dita egli invita tutti i presenti alla preghiera:
«Avendo fatto memoria di tutti i Santi, ancora e poi ancora preghiamo in pace il Signore».
Il coro ad ogni invocazione risponde: «Signore, abbi pietà».
«Per i preziosi doni offerti e santificati, preghiamo il Signore».
«Affinché il misericordioso Dio nostro, accettandoli in odore di soavità spirituale nel suo santo, sovraceleste e immateriale Altare, ci mandi in contraccambio la grazia divina e il dono del Santo Spirito, preghiamo il Signore».
«Affinché siamo liberati da ogni afflizione, ira, pericolo, necessità, preghiamo il Signore»: «Soccorrici, salvaci, abbi pietà di noi e custodiscici, o Dio, con la tua grazia».
Nel mentre il sacerdote recita segretamente la seguente preghiera:
«A te affidiamo, o Signore amico degli uomini, tutta la nostra vita e la nostra speranza; e t’invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo: rendici degni di partecipare con pura coscienza dei celesti e tremendi misteri di questa sacra e spirituale Mensa, per la remissione dei peccati, per il perdono delle colpe, per l’unione nello Spirito Santo, per l’eredità del regno dei cieli, per una maggiore fiducia in te, e non a nostro giudizio o condanna».
Il diacono continua con una seconda serie di invocazioni; ad ognuna l’assemblea dei fedeli risponde: «Concedi, o Signore».
«Domandiamo al Signore che l’intero giorno sia perfetto, santo, tranquillo e senza peccato».
«Domandiamo al Signore un angelo di pace, guida fedele, custode delle anime nostre e dei nostri corpi».
«Domandiamo al Signore la remissione dei nostri peccati e delle nostre colpe».
«Domandiamo al Signore ogni bene, utile alle anime nostre e la pace per il mondo».
«Domandiamo al Signore la grazia di trascorrere in pace e in penitenza quanto ci resta della nostra vita».
«Domandiamo al Signore una morte cristiana, senza dolore, senza rimorso e placida, e una valida difesa dinanzi al tremendo tribunale di Cristo».
Il diacono continua, non invocando ormai più l’aiuto dei Santi, ma indirizzando i presenti direttamente al Signore:
«Avendo chiesto l’unità della fede e la comunione dello Spirito Santo, raccomandiamo noi stessi, e gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio».
Allora tutti cantano con completa fiducia: «A te, o Signore». Il sacerdote, invece di concludere con la solita invocazione alla Trinità, esclama:
«E rendici degni, o Signore, che con piena fiducia e senza condanna, possiamo invocare Padre te, Dio celeste, e dire:…».
Padre nostro
Tutti i fedeli, in questo momento, non come schiavi pieni di paura ma simili a bambini puri ed innocenti, devono lasciarsi guidare dalle stesse preghiere, dall’Ufficiatura divina e dalla graduale ascesa di questi sacri riti fino il raggiungere lo stato di anime angeliche, quel grado di compunzione celeste che permette agli uomini di parlare direttamente con Dio, come col più tenero dei Padri e di rivolgergli la preghiera domenicale:
«Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il nome tuo, venga il regno tuo, sia fatta la volontà tua come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal maligno»[129].
Questa preghiera racchiude ed abbraccia ogni nostro bisogno, compendia tutto quanto possiamo domandare al Signore.
Con le parole: sia santificato il nome tuo, viene domandata la grazia che prima di ogni altra ci è necessaria: dove, infatti, è santificato il nome di Dio, là tutti sono felici, cioè vivono nell’amore, poiché il nome di Dio è santificato solo dall’amore.
Con la domanda: venga il regno tuo, viene implorato il regno della giustizia sulla terra: poiché senza l’avvento di Dio non vi può essere giustizia: Dio infatti è giustizia.
La fede e l’intelligenza invitano l’uomo a dire: sia fatta la volontà tua. Quale volontà può essere più buona e più santa della volontà divina? Chi meglio del Creatore conosce quello di cui abbisogna la sua creatura? A chi meglio possiamo rivolgerci con fiducia se non a Colui che è la bontà personificata, la perfezione per eccellenza?
Con le parole: dacci oggi il nostro pane quotidiano, domandiamo tutto quello che ci è necessario per il nostro quotidiano sostentamento del corpo e dell’anima. Il nostro pane spirituale è la Sapienza divina, lo stesso Cristo. Egli stesso ha detto: «Io sono il pane disceso dal cielo. Colui che mangia di questo pane vivrà in eterno»[130].
Con le parole: rimetti a noi i nostri debiti, domandiamo il perdono delle nostre colpe e dei nostri peccati, di cui siamo carichi; domandiamo il condono dei debiti contratti verso il Creatore nella persona dei nostri fratelli, i quali, giornalmente ed in ogni momento, ci tendono la mano chiedendoci pietà e misericordia.
Con le parole: non ci indurre in tentazione, domandiamo di essere liberati da tutto ciò che turba il nostro spirito e ci impedisce di far regnare nella nostra anima la tranquillità.
Con le parole: ma liberaci dal maligno, domandiamo la gioia celeste: non appena il Maligno ci lascia, immantinente entra la gioia nella nostra anima, ed ecco che dalla terra siamo trasportati nei cieli.
Contiene ed abbraccia proprio tutto, questa preghiera dettataci dalla divina Sapienza. Ma chi dobbiamo pregare, a chi possiamo rivolgerci se non al Padre della Sapienza, a Colui che ha generato la sua stessa Sapienza prima dei secoli? Pertanto questa preghiera la devono ripetere tutti i presenti, non solo con le labbra; essa deve essere il sospiro della innocenza più pura, la calda espressione di cuori di pargoletti in preghiera, il cantico melodioso della purezza infantile, l’effluvio dell’anima, il poema della dolcezza. Essa deve portare il soffio primaverile del cielo. Si, noi dobbiamo sentire in questa preghiera il bacio degli Angeli; non chiamiamo infatti il Creatore col nome di Dio, ma gli diciamo: Padre nostro.
Il sacerdote, alla fine di questa preghiera, indirizza alla assemblea dei fedeli questo augurio:
«Pace a tutti».
Gli si risponde:
«E allo Spirito tuo».
Il diacono, con le parole «Inchinate il vostro capo al Signore», ricorda la confessione che ciascuno nel proprio intimo deve fare al cospetto del Signore.
Durante questo tempo, il sacerdote prega per tutti i fedeli:
«Ti rendiamo grazie, o Re invisibile, che con la tua infinita potenza hai creato l’universo, e nell’abbondanza della tua misericordia dal nulla hai tratto tutte le cose all’esistenza. Tu, o Signore, riguarda dal cielo coloro che umilmente hanno chinato la fronte dinanzi a te, poiché non l’hanno inchinata alla carne e al sangue, ma a te, Dio tremendo. Tu, dunque, o Signore, distribuisci a noi tutti, per il nostro bene e secondo il bisogno di ciascuno, i doni qui presenti: naviga con i naviganti, viaggia coi viandanti, sana i malati, tu, medico delle nostre anime e dei nostri corpi».
Subito dopo innalza una magnifica lode alla tuttasanta Trinità, facendo appello alla misericordia celeste di Dio:
«Per la grazia, per le misericordie e per la benignità dell’unigenito tuo Figlio, col quale sei benedetto insieme col tutto santo, buono e vivificante Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Il coro risponde: Amìn. Preparandosi a ricevere il corpo e il sangue di Cristo, il sacerdote e i fedeli pregano segretamente così:
«Signore Gesù Cristo, nostro Dio, riguarda dalla tua santa dimora e dal trono di gloria del tuo regno e vieni a santificarci, tu che in alto siedi col Padre e sei qui con noi invisibilmente presente. Degnati con la potente tua mano di renderci partecipi e, per mezzo nostro, tutto il popolo, dell’immacolato tuo Corpo e del prezioso tuo Sangue».
In questo momento il diacono (che già all’inizio del Padre nostro, in piedi sull’ambone e rivolto verso le Porte Regie, aveva incrociato sulle spalle l’oràrion, come gli angeli che raccolgono le ali in forma di croce su loro stessi e nascondono il loro volto alla luce inaccessibile della Divinità) fa un triplice inchino, ripetendo insieme al sacerdote:
«O Dio, sii propizio a me peccatore ed abbi pietà di me».
In seguito invita, tutti i presenti al raccoglimento, gridando:
«Stiamo attenti!».
Elevazione
Ora l’Altare rimane nascosto agli occhi del popolo, le tende restano chiuse fino a che non ha termine la comunione dei con celebranti. Dal fondo del santuario si eleva solenne la voce del celebrante che alza il santo Pane:
A queste parole, che proclamano con quanta pietà bisogna ricevere Colui che è santo, l’assemblea dei fedeli fremente risponde:
Il diacono rientra nel santuario per la comunione. Durante questo tempo, viene cantato dal coro il Koinonikòn[133]: un versetto tratto dai salmi e applicato alla festa del giorno.
Frazione
Il sacerdote divide adesso in quattro parti l’Agnello santo, seguendo gli intagli a forma di croce fatti durante la Proskomidia, mentre raccolto ripete: «L’Agnello di Dio viene spezzato e diviso, Egli che spezzato non si divide, che mangiato non si consuma, ma che santifica coloro che ne partecipano»[134].
Immistione
La prima di queste parti la lascia cadere nel Calice[135], la seconda la dispone, a parte, nella patena per la comunione di sé stesso e del diacono, senza intingerla nel sangue; le altre le spezzetta ancora in particelle, a secondo del numero dei concelebranti[136]. Così facendo, egli non ha diviso il corpo di Cristo: come in ciascun membro del nostro corpo è presente l’anima, non spezzettata ma intera; come l’immagine di un medesimo oggetto, frantumato in cento pezzi, se proiettata in uno specchio, ci appare nella sua unità; come il suono da noi percepito è conservato anch’esso nella sua unità e resta lo stesso, unico, sebbene lo ascoltino migliaia di orecchi; così nella più piccola particela è conservato il Corpo di Cristo, non spezzettato, ma indiviso ed intero. Tutte le particele che, durante la Proskomidìa, sono state tagliate in onore dei Santi, in memoria dei defunti ed in ricordo dei vivi, non vengono ora messe nel Calice, ma rimangono ancora disposte nel discàrion o patena: la comunione dei fedeli avviene solo con le particelle che sono il corpo e il sangue del Signore. [Tutte le altre particelle verranno messe nel Santo Calice dopo la comunione, con la preghiera:
«Lava, Signore, col tuo santo Sangue i peccati di quanti hanno qui trovato memoria: per le intercessioni della tuttasanta Deipara e di tutti i tuoi Santi»]
Nei primi tempi della Chiesa, i fedeli si comunicavano sotto le due specie del corpo e del sangue, come fanno ancora i ministri sacri: ciascuno, dopo aver preso nelle proprie mani il corpo purissimo del Signore, beveva nel Calice il suo preziosissimo sangue. A causa però di alcuni cristiani ignoranti o di nuovi convertiti, che di cristiano avevano solamente il nome, i quali portavano perfino nelle loro case i sacri doni per utilizzarli a scopo di superstizione o di magia, o li trattavano irreverentemente ed indegnamente anche nel sacro tempio, provocando tumulti e gravi abusi, S. Giovanni Crisostomo decise di distribuire ai fedeli la comunione sotto altra forma: il corpo di Cristo non venne dato più nelle mani dei fedeli, ma, con un cucchiaino sacro, venne distribuito insieme al sangue del Signore. E questo cucchiaino, con cui viene portato nei nostri cuori il corpo e il sangue di Cristo, ci richiama la brace, ghermita dagli arti misteriosi del Serafino, che lambì le labbra del profeta Isaia, rimettendogli tutti i peccati[137].
Significato dello zèon
Fu lo stesso Crisostomo ad introdurre in questo momento della Liturgia l’uso dello zèon[138], per togliere ogni dubbio a coloro che fossero stati tentati di pensare che la distribuzione della comunione sotto questa forma fosse una disposizione arbitraria del sacerdote celebrante. Esso simboleggia il calore della grazia dello Spirito Santo, la cui effusione permette una tale riunione delle due specie. Pertanto il diacono, versando l’acqua calda nel Calice, dice: «Fervore di fede, pieno di Spirito Santo»[139]. E nel momento in cui viene versato lo zèon, viene invocata la benedizione dello Spirito Santo: durante la sacra Liturgia, infatti, nessuna azione si effettua senza la benedizione del Signore. Lo zèon, poi, come si è detto, serve a simboleggiare il calore del sangue, in modo che ciascuno, ricevendolo nella propria bocca, possa sentire che esso proviene veramente non da un corpo morto, nelle cui vene rattrappite non potrebbe scorrere o zampillare un sangue vivo, ma dal corpo immortale e vivificante del Signore, il cui sangue, per virtù dello Spirito divino, è canale di grazie feconde e fonte di ogni bene.
Comunione dei celebranti
Dopo essersi comunicato e dopo aver dato la comunione al diacono, il ministro di Cristo si presenta come novello uomo, purificato dai suoi peccati per la santità della comunione e, quindi, in questo momento, come santo e degno di distribuire agli altri la comunione.
Le Porte Regie si aprono per annunziare il libero accesso al regno dei cieli, promesso da Cristo Redentore a tutti coloro che si nutrono del suo corpo. Il diacono alza la voce e con tono solenne invita l’assemblea dei fedeli:
«Con timore di Dio, con fede ed amore, avvicinatevi».
L’apparizione del santo Calice, portato dal diacono nello stesso tempo che egli rivolge l’invito ai fedeli, ci raffigura l’apparizione di Cristo resuscitato e la sua venuta fra i credenti per condurli seco nella dimora del Padre. Agli occhi dei fedeli appare un Serafino trasfigurato: è il sacerdote, davanti alle Porte sante. Nel mentre, un canto solenne, che sgorga dall’intimo di tutti i cuori, fa eco all’invito del diacono:
«Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Il Signore è Dio ed è apparso a noi».
Preghiere per la comunione
Desiderando ardentemente Dio, bruciando col fuoco del suo santo amore e incrociando le braccia sul petto, uno dopo l’altro, i comunicandi, a testa bassa si dirigono verso il sacerdote e ripetono sommessamente questa confessione di fede al Crocifisso:
«Credo, o Signore, e confesso che tu sei veramente il Cristo, Figlio del Dio vivente, che sei venuto al mondo per salvare i peccatori, di cui io sono il primo. Credo ancora che ciò che sto per ricevere è l’immacolato tuo corpo ed il prezioso tuo sangue. Ti prego, dunque: abbi pietà di me, e perdonami tutti i miei peccati, volontari ed involontari, commessi con coscienza o per ignoranza, con pensieri, con parole e con opere. E fa che io partecipi degnamente dei tuoi ineffabili e santi misteri, per la remissione dei miei peccati e la vita eterna»[140].
Dopo essersi fermato un istante, per afferrare col pensiero il profondo significato di ciò che sta per accadere, ognuno prende a recitare con maggiore compunzione la seguente preghiera:
«Del tuo mistico convito, o Figlio di Dio, rendimi oggi partecipe, poiché non svelerò il mistero ai tuoi nemici, né ti darò un bacio come Giuda, ma come il buon ladrone ti prego: ricordati di me, o Signore, nel tuo regno».
Dopo aver osservato ancora un istante di silenzioso raccoglimento, ognuno prosegue:
[«Ecco io mi accosto alla Divina Comunione; o mio Creatore, non consumarmi per questa partecipazione; perché Tu sei un fuoco che brucia gli indegni, ma purificami da tanta sozzura»]
«Che la partecipazione ai tuoi santi misteri non mi torni a giudizio o a condanna, o Signore, ma serva a salvezza dell’anima e del corpo»[141].
Comunione dei fedeli
Recitata questa confessione, ognuno si avvicina al sacerdote, come ad un Serafino, per ricevere il santissimo Corpo ed il Sangue del Signore; ed il sacerdote, per mezzo di un cucchiaino depone nella bocca di ciascuno quel carbone ardente che dovrà consumare, quasi pungenti spine, tutti i peccati. E nel momento in cui il sacerdote, alzando il cucchiaino lo ha appressato alla bocca del comunicando e ha chiamato questi per nome dicendo:
«Il servo di Dio N.N. riceve il prezioso e santo Corpo ed il Sangue del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, per la remissione dei suoi peccati e la vita eterna»[142],
ha distribuito ai fedeli il corpo e il sangue del Signore. Un sacro lino[143] viene passato sulle labbra di colui che si comunica e vengono ripetute le parole dei Serafini che si leggono in Isaia: «Ecco, io toccherò le tue labbra per togliere le tue iniquità e purificarli dai peccati»[144]. Santo anch’egli, ogni fedele, prima di ritornare indietro, s’inchina davanti ai Santi, ai quali è ora unito da legami di una parentela celeste; va quindi a riprendere il suo posto, felice di aver ricevuto Cristo, godendo che Cristo è in lui, che lo stesso Cristo è disceso nelle sue viscere, come nella tomba, per penetrare i segreti del suo cuore e per resuscitare il suo spirito, realizzando così anche nel suo essere la sepoltura e la gloriosa resurrezione.
La Chiesa tutta risplende di questa resurrezione spirituale; i cori intonano inni di giubilo:
«Avendo contemplato la resurrezione di Cristo, adoriamo il Santo, nostro Signore Gesù Cristo, che solo è senza peccato. Adoriamo la tua Croce, o Cristo, e inneggiamo e glorifichiamo la tua santa resurrezione. Tu sei il nostro Dio, e noi non conosciamo altri ad eccezione di te, ed invochiamo il tuo nome. Venite, fedeli, adoriamo tutti la santa resurrezione di Cristo; poiché per mezzo della Croce è sorta la gioia per tutto il mondo. Benediciamo sempre il Signore e inneggiamo alla sua resurrezione: avendo per noi sopportato la Croce, Egli con la sua morte ha sconfitto la morte».
«Ammantati di luce, o novella Gerusalemme, ammantati di luce: la gloria del Signore rifulge in te. Rallegrati ora e gioisci, o Sion. E tu, o Vergine, Madre di Dio, esulta per la resurrezione del tuo Figlio».
«O Pasqua, grande e sacratissima, o Cristo, Sapienza, Verbo e Virtù di Dio, concedi di goderti in modo più manifesto nel giorno senza tramonto del tuo Regno»[145].
Ringraziamento
Il sacerdote, deposti sull’Altare il Calice e il discàrion, li ricopre con i sacri veli, quindi recita la seguente preghiera di ringraziamento:
«Ti rendiamo grazie, o Signore amico degli uomini, benefattore delle anime nostre, perché anche in questo giorno ci hai resi degni dei tuoi sovracelesti ed immortali misteri. Rendi dritta la nostra via, confermaci tutti nel tuo timore, custodisci la nostra vita, rendi sicuri i nostri passi, per le suppliche della gloriosa Madre di Dio e sempre Vergine Maria e di tutti i tuoi Santi».
Benedizione dei fedeli
Voltandosi quindi verso l’assemblea dei fedeli, la benedice con queste parole:
perché considera che, in questo momento, essendo tutti purificati hanno ereditato il regno di Dio. In seguito, il sacerdote si porta col pensiero all’Ascensione di Cristo, termine del suo soggiorno terreno. Assieme al diacono, che gli sta accanto, s’inchina per l’ultima volta davanti al corpo e al sangue del Signore e, incensandoli, dice:
Un inno di gioia, denso di significato, si leva allora dalle anime illuminate dei fedeli, dai cuori purificati di coloro che sono divenuti eredità del Signore:
«Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito sovraceleste, abbiamo trovata la vera fede: adorando la Trinità indivisibile, poiché essa ci ha salvati».
Il diacono si porta ora davanti alle Porte sante mostrando il sacro discàrion sopra il suo capo, quindi, senza dir parola, va a deporlo sull’altarino della Pròtesis. Anche il sacerdote, avendo conclusa ad alta voce la preghiera prima iniziata, dice a bassa voce:
«Benedetto sia il nostro Dio…»,
e poi ad alta voce:
«…in ogni tempo, e ora e sempre e nei secoli dei secoli»,
annunziando la permanenza, del Signore asceso, vicino a noi fino alla fine del mondo.
Al seguito del diacono, porta il Calice all’altarino della Pròtesis. Qui non è più raffigurata la grotta dove è nato Cristo, ma il luogo elevato della gloria dove è stato trasportato il Figlio di Dio che ha compiuto la salvezza del genere umano.
A questo punto v’è usanza di aggiungere la seguente preghiera:
«Sia ripiena la nostra bocca della tua lode, o Signore, poiché ci hai resi degni di partecipare dei tuoi santi, immortali ed immacolati misteri. Custodiscici nella santità affinché possiamo cantare la tua gloria, meditando tutto il giorno la tua giustizia. Alliluia, alliluia, alliluia»[148].
Questi tre Alliluia ci parlano della presenza di Dio in ogni luogo ed ogni tempo.
Dialogo conclusivo
Il diacono ritorna sull’ambone per esortare ancora una volta i fedeli a rendere grazie al Signore:
«In piedi! Ora che abbiamo partecipato dei divini, santi, immacolati, immortali, celesti, vivificanti e tremendi misteri di Cristo, rendiamo degne grazie al Signore».
E ringraziando, commossi, tutti cantano: «Signore, abbi pietà».
Il diacono continua:
«Aiutaci, salvaci, abbi pietà di noi e custodiscici, o Dio, con la tua grazia».
«Avendo domandato che tutto questo giorno sia perfetto, santo, pacifico e senza peccato, raccomandiamo noi stessi, gli uni e gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio».
Con l’abbandono di un figliolo che confida nella paterna benevolenza del Padre, i fedeli rispondono: «A te, o Signore».
Il sacerdote, dopo aver ripiegato l’antiminsion, fa su di esso un segno di croce con l’Evangelo: è quasi un canto di lode alla Trinità che, qual faro che con la sua luce rischiara tutto intorno, ha illuminato fin qui le singole fasi della divina Liturgia e ora getta un fascio di luci ancora più abbaglianti sulle anime illuminate. Ed ecco come, per questa volta, egli si rivolge alla Trinità:
«Poiché tu sei la nostra santificazione e a te rendiamo gloria: al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
[Dopo l’Amìn del coro, il sacerdote dice:
«In pace usciamo».
Il coro confessa:
«Nel nome del Signore»,
e il diacono:
«Preghiamo il Signore».
Il sacerdote esce dal Vìma e si ferma, con lo sguardo rivolto all’icona di Cristo, leggendo la preghiera Dietro l’Ambone:
«Tu benedici quanti ti benedicono, Signore, e santifichi quanti confidano in te, salva il tuo popolo e benedici la tua eredità; custodisci la plenitudine della tua Chiesa; santifica quanti amano la maestà della tua Casa; a tua volta glorificali Tu con la tua divina potenza e non abbandonare noi che speriamo in te. Dona pace al mondo tuo, alle tue Chiese, ai Sacerdoti, ai Re, All’Esercito e a tutto il tuo popolo; poiché ogni dote buona e ogni dono perfetto provengono dall’alto scendendo da te, Padre delle Luci, ed è a te che gloria, grazia e adorazione noi innalziamo, nel Padre e nel Figlio e nel Santo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Il coro, dopo l’Amìn, ripete per tre volte:
«Sia il Nome del Signore benedetto da ora e fino all’eterno».]
Il sacerdote si reca nel frattempo nel Vìma, assieme al diacono, all’altarino della Pròtesis [e legge a bassa voce la Preghiera:
«Tu sei la plenitudine della Legge e dei Profeti, Cristo Dio nostro, e hai adempiuto tutta l’Economia del Padre; riempi di gaudio e letizia i nostri cuori, in ogni tempo, ora e sempre e nei secoli dei secoli».
Poi, benedice il popolo dalle Porte Regie dicendo:
«La benedizione del Signore venga su di voi mediante la sua grazia e filantropia, in ogni tempo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli».
Il coro replica:
«Amìn».
Il sacerdote:
«Gloria a te, o Dio, speranza nostra, gloria a te».
Il coro:
«Gloria al Padre e al Figlio e al Santo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amìn. Signore abbi pietà, Signore abbi pietà, Signore abbi pietà.. Padre santo, benedici»].
Apòlisis
Il celebrante da quindi la benedizione finale ai fedeli e recita l’Apòlisis[149] della Liturgia:
«Cristo, nostro vero Dio,»
[(se invece è Domenica, dice:
«Il Risorto dai morti,»
mentre nelle feste del Signore si usa il proprio)]
«per l’intercessione della tutta pura ed immacolata sua Madre, del nostro Santo Padre, Giovanni Crisostomo (se si celebra in quel giorno la Liturgia di S. Giovanni Crisostomo; mentre se si celebra quella di S. Basilio, viene commemorato S. Basilio) del Santo (viene qui nominato il Santo del giorno; [vengono commemorati ancora i nomi di altri santi, secondo il luogo dove la Liturgia è stata celebrata, come anche il nome del santo a cui è dedicato il tempio]) di cui celebriamo oggi la memoria, dei Santi Progenitori Gioacchino ed Anna, e di tutti i Santi, abbia pietà di noi e ci salvi, poiché è buono e amico degli uomini».
La Chiesa prescrive di offrire per tutti una preghiera universale. L’alto valore di questa preghiera e la sua imperiosa necessità non sono stati riconosciuti dai sapienti di questo mondo né dagli «spiriti sottili del secolo»[150], ma dagli uomini santi, i quali, grazie ad una elevata perfezione spirituale raggiunta mediante un tenore di vita veramente angelica, pervennero ad una cognizione dei più profondi misteri soprannaturali. Essi videro e si convinsero che tra tutti quelli che vivono in Dio non esiste separazione, che la corruttibilità effimera del nostro corpo non impedisce le loro relazioni, che l’amore già coltivato sulla terra darà più abbondanti frutti nella patria celeste, che il fratello che lascia la dimora terrena rimane sempre più vicino a noi attraverso i legami dell’amore. Tutto ciò che proviene da Cristo è eterno, come eterna è la sua provenienza. Essi hanno ancora conosciuto per mezzo delle più alte facoltà del loro spirito che la Chiesa celeste deve pregare e prega, in effetti, per i fratelli «pellegrini di questa terra»[151]. Hanno compreso che Dio ha loro concesso la più alta felicità, la felicità della preghiera, poiché Egli non compie nulla e non fa bene alcuno senza rendere partecipe la sua creatura, perché questa possa godere della più alta felicità di operare il bene: l’angelo esegue i suoi ordini ed è felice già di un tale mandato, il serafino canta la sua felicità infinita ed è anch’egli felice di questo, il santo in cielo prega per i fratelli di quaggiù ed è felice di questa preghiera. Anche l’universo partecipa di questa beatitudine suprema di Dio. Milioni di esseri, assai perfetti, plasmati dalle mani di Dio, vengono resi partecipi delle più sublimi felicità, di quelle felicità divine che non conoscono tramonto.
Distribuzione dell’Antìdoron
Il sacerdote distribuisce adesso dei pezzetti di pane ricavati dai pròsfora[152] da cui aveva prelevato le varie particole che sono state poi consacrate: ciò a perpetuare il ricordo del sublime banchetto di amore che aveva luogo tra i cristiani nei primi secoli. Ciascuno ricevendo questo pezzetto di pane, l’accetta considerandosi commensale di quel banchetto nel corso del quale il Creatore del mondo ha conversato con i suoi, quindi lo mangia devotamente vedendo in coloro che gli sono vicini i fratelli che hanno partecipato alla medesima agape. Seguendo un antico uso che si fa risalire ai primi secoli dei cristiani, questo pane viene mangiato prima di qualsiasi altro cibo e viene portato anche nelle case per i malati, per i poveri e per coloro che per una ragione qualunque non hanno potuto assistere alla Liturgia celebrata in chiesa.
Rinvio dei fedeli
L’assemblea viene sciolta. Ognuno fa il segno della croce accompagnandolo con un inchino, mentre il coro intona il canto del Polichrònion[153] augurando lunghi anni alla famiglia imperiale dello zar, al S. Sinodo e a tutti i cristiani ortodossi.
Il sacerdote va a deporre i paramenti, recitando: «Adesso, o Signore, rimanda il tuo servo in pace...»[154], dicendo in seguito i tropàri di lode in onore del Padre e Gerarca della Chiesa a cui è attribuita la Liturgia che è stata celebrata, e terminando con preghiere alla Madre di Dio [: «Te, più onorabile dei Cherubini...»].
Mentre egli purifica le dita che hanno toccato il Corpo di Cristo, il diacono raccoglie le particelle rimaste nel discàrion, facendole cadere nel calice. Simboleggia con quest’atto come il corpo e il sangue di Cristo vengono dati in comunione a tutta la sua Chiesa: a quella dei pellegrini in terra, a quella dei cieli, ai vivi e a coloro riposano nella pace del Signore. E il sacerdote, che in questo momento li rappresenta tutti, beve nel calice la partecipazione degli uni e degli altri, prega per la purificazione di tutti i loro peccati, poiché Cristo si è immolato per la redenzione di tutti: si è immolato per coloro che vissero prima della sua venuta come per la salvezza di coloro che vissero dopo. E questa preghiera viene rivolta al Signore anche per i più santi, poiché – secondo l’espressione del Crisostomo – la purificazione della terra sarà universale.
Il sacerdote e il diacono escono infine dal tempio recando una freschezza splendente nei loro volti, una gioia indicibile nei loro cuori e sulle loro labbra l’azione di grazie al Signore.
[1] La Porta Regia (η Βασιλική Πύλη), di cui parla l’Autore, è propriamente la grande porta d’ingresso della chiesa, dove il clero riceveva l’Imperatore (ο Βασιλεύς). All’Imperatore, infatti, era riservato un cerimoniale speciale, in quanto protettore della Chiesa e della vera Fede. Leone Isaurico addirittura asseriva di sé: «Io sono imperatore e sacerdote» (D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, t. XII, pag. 975. Paris-Leipzig 1901). «Egli – scrive l’insigne storico Ostrogorsky – è l’eletto di Dio, e in quanto tale non solo il signore e il capo, ma anche l’immagine vivente dell’impero cristiano affidatogli da Dio. Egli è in diretto rapporto con Dio, viene considerato come fuori della sfera del terreno e dell’umano, ed è oggetto di uno speciale culto politico religioso» (G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi 1968, pag. 19). L’appellativo di regia venne in seguito anche attribuito alla Porta speciosa (η Ωραία Πύλη), in genere riccamente decorata, che dal Nartece (ο Νάρθηξ) introduce nel Tempio. La denominazione più appropriata della porta che dal tempio, attraverso l’iconostasi, immette nel Santuario, è Porta santa (η αγία Πύλη). A motivo, però, del privilegio degli imperatori di accedere nel santuario attraverso questa porta, diritto riservato solo al vescovo e al clero durante le sacre cerimonie, si trova spesso chiamata anche «Porta regia» e «Porta speciosa». Essa è chiusa da una grande tenda o Velario (το καταπέτασμα) e, in basso, da una mezza porta a due battenti, sui quali è dipinta l’Annunziazione.
[2] L’Iconòstasi o Iconostàsion (το Εικονοστάσιον), parete rivestita di iconi, ebbe origine in seguito alla restituzione del culto delle sacre immagini, sancito nel Sinodo di Costantinopoli dell’842. Come elemento architettonico si ricollega alla Pergula delle antiche basiliche cristiane. Tra le iconi, in primo piano, non mancano mai quelle del Signore, della Madre di Dio, del Battista e del Santo cui è dedicata la chiesa. L’iconostasi divide il Santuario (το Ιερατείον, cioè dimora sacerdotale), detto anche Vìma (το Βήμα) elevato con più gradini rispetto al resto della chiesa, a somiglianza dei palazzi di giustizia precristiani, dal resto del Tempio (ο Ναός).
[3] Salmo V, 8.
[4] Nel santuario si trova l’Altare o sacra Mensa (η αγία Τράπεζα), che il Cabasilas chiama φρικτή Τράπεζα, cioè tremenda Mensa, per la venerazione e il timore riverenziale che essa incute (Cfr. N. Cabasilas, Migne PG. 150, 369 A), è una lastra di marmo quadrata, sulla quale viene offerto il sacrificio, per cui viene chiamata το Θυσιαστήριον. Essa è sorretta da quattro colonne (οι Κίονες) e, talvolta, anche da una quinta, detta Canna (ο Κάλαμος), posta al centro. L’Altare a sua volta è sormontato da un baldacchino a cupola (το Κιβώριον, poggiato su quattro colonne, ed è rivestito interamente da una stoffa bianca, che simboleggia il sudario con cui fu ravvolto il corpo di Cristo (το Κατασάρκιον), e da una seconda stoffa a colore (το Τραπεζοφόρον o η Ενδυτή) sovrapposta, che simboleggia la tunica di nostro Signore (Cfr. Simeone di Tessalonica, Migne PG. 105, 703). Sull’Altare è piegato l’Antimìnsion (το Αντιμήνσιον): stoffa delle dimensioni di un corporale latino su cui è raffigurata la deposizione e gli strumenti della passione e che racchiude delle reliquie (per una più ampia descrizione, cfr. «Oriente Cristiano», II, n. 1, pag. 4). Sopra l’Antimìnsion è poggiato l’Evangeliàrion (το Ευαγγέλιον), libro contenente le pericope evangeliche della Liturgia quotidiana e dell’ufficiatura. L’Evangeliàrion contiene anche l’Ευαγγελιστάριον, cioè le tavole e le rubriche indicanti l’ordine delle letture nell’ufficiatura. L’Evangeliàrion è riccamente rilegato ed è posto sempre sull’Altare per rispetto alla parola di Dio. Oltre a questi oggetti si trova sull’Altare ilTabernacolo (το Αρτοφόριον). Questo, però, spesso è posto dietro l’Altare o pende, a forma di colomba, dalla cupola del baldacchino che sovrasta l’Altare (in esso si conserva l’Amnòs consacrato il santo e grande giovedì, usato solo per i malati e come viatico per i morenti, nella Chiesa Ortodossa infatti, non c’è nessun culto eucaristico al di fuori della divina Liturgia).
[5] Luca 18,13. Queste parole accompagnano sempre l’inchino, chiamato «metània», dal greco μετανοέω, che significa: muto parere, mi ricredo, mi converto, ad indicare che quest’atto viene fatto soprattutto dalla mente.
[6] Lo Stichàrion (το Στιχάριον) è una lunga tunica, piuttosto aderente al corpo e con maniche lunghe e strette per il sacerdote, ampia e con maniche larghe per il diacono. Corrisponde al camice latino. Ornato di galloni attorno al collo, alle maniche e nella parte inferiore perché non si ammettono merletti, può essere oltre che bianco anche di vari colori.
[7] L’Oràrion (το Ωράριον), stola diaconale, è una lunga fascia di stoffa in genere ornata di croci, su cui spesso spicca la scritta ΑΓΙΟΣ (Santo), ripetuta tre volte, che dalla spalla sinistra si fa girare sotto l’ascella destra. Durante la comunione, l’oràrion viene cinto in modo da incrociarsi sulle spalle e sul petto.
[8] Podriznik è il termine russo che indica lo stichàrion del sacerdote.
[9] Isaia, LXI, 10. Queste parole esaltano la forza di Dio creatore.
[10] Sovrammaniche che servono a tenere aderenti ai polsi le maniche dello stichàrion.
[11] Esodo, XV, 6-7.
[12] Salmo CXVIII, 73.
[13] Stola sacerdotale, chiamata Epitrachìlion (το Επιτραχήλιον), appunto perché gira attorno al collo del sacerdote. Essa «significa la grazia del sacerdozio sparsa sul sacerdote, la quale poggia sul collo che ha ricevuto il giogo di Cristo. Discende sul petto fino ai piedi, addolcisce il cuore e santifica tutto il corpo» (N. Cabasilas, l.c. Appendice).
[14] Salmo CXXXII, 2.
[15] La Cintura (η Ζώνη) è una stretta fascia di stoffa che serve per fermare l’epitrachilion e lo sticharion.
[16] Salmo XVII, 33.
[17] L’Epigonàtion (το Επιγονάτιον) cartone ricoperto di stoffa a forma romboidale, su cui viene ricamata una spada o una croce, è un’insegna onorifica anticamente riservata ai vescovi e oggi concessa ai dignitari ecclesiastici e ai sacerdoti, dove vi si conservava il testo dell’omilia. Indossandolo il dignitario usa pronunziare il versetto 4 del Salmo XLV (Cfr. Simeone di Tessalanica, Migne P.G. 155, 260 A). Esso simboleggia il potere spirituale di chi l’indossa, dato che – come spiega il Cabasilas: «il Vescovo non è solo padre e pedagogo, ma anche giudice... » (Cfr. N. Cabasilas, l. c.).
[18] Salmo XLIV, 4-5.
[19] Il Felònion (το Φελόνιον) è un’ampia veste senza maniche, con apertura in alto per passarvi la testa. Ha la stessa origine della paenula o casula latina. In genere è di stoffa assai ricca, ornata sul dorso con una vistosa croce, talvolta ricoperta interamente di croci ornamentali (Πολυσταύριον). Il Cabasilas gli attribuisce questo simbolismo: «il disimpegno del sacerdote da ogni attività umana, sia nella vita, dato che egli è come uscito dalla carne e dal mondo, sia nella stessa liturgia, dato che questa dipende interamente e solo dalla mano divina e il sacerdote non vi concorre con nessuna attività umana» (Cfr. N. Cabasilas, l. c.).
[20] Salmo CXXXI, 9.
[21] Salmo XXVI, 6-8.
[22] Luca XVIII, 13.
[23] A sinistra di chi guarda l’Altare, in corrispondenza della Porta del Nord (η Βόρειος Πύλη) dell’iconòstasi, si trova, nell’absidiola del santuario un altarino, dove avviene la preparazione della materia del sacrifìcio, chiamato altarino della Pròtesis (Πρόθεσις). Esso viene anche detto altarino della Προσκομιδή. Nella absidiola, a destra dell’Altare, corrispondente alla Porta Meridionale (η Νότιος Πύλη) dell’iconòstasi, si trova, invece, il Diaconicòn (Διακονικόν), dove i ministri sacri indossano i paramenti liturgici e dove vengono conservati libri, vasi ed altri oggetti di culto.
[24] Il rito di preparazione della materia del sacrificio viene chiamato Προσκομιδή. Con lo stesso nome o con quello di Πρόθεσις si designa anche l’altarino laterale sul quale avviene tale preparazione.
[25] Nei primi tempi del cristianesimo ed anche oggi, in alcune chiese, specialmente nei giorni di festa, vengono offerti dai fedeli dei pani, destinati al sacrificio eucaristico. Da qui il loro nome di Oblate(το Πρόσφορον). Il sacerdote, dopo averli benedetti, ne prende una parte che verrà poi consacrata e distribuita ai fedeli che si comunicano, disponendola nel Discàrion.
[26] Si tratta del Sigillo (Σφραγίς) impresso nel pane: un quadrato tagliato da una croce sui cui bracci superiori spiccano le lettere IC XC (Gesù Cristo) e su quelli inferiori NI KA (vince).
[27] Coltello liturgico a forma di piccola lancia: η Λόγχη.
[28] Isaia, LIII, 32. Tagliando in questa maniera il pane, il celebrante isola il pezzo quadrato, che porta impresso il monogramma di Cristo: esso è chiamato Agnello (Αμνός) ed è la parte di pane che servirà ai concelebranti e ai diaconi per comunicarsi.
[29] Isaia, LIII, 8; Atti, VIII, 32.
[30] Idem.
[35] Salmo XLIV, 10. A sinistra dell’Agnello colloca un pezzettino di pane a forma di triangolo in ricordo della Tuttasanta (η Παναγία) Vergine Maria Madre di Dio.
[36] Il Discàrion (Δισκάριον o Δίσκος) corrisponde alla patena latina. È munito di bordi, talvolta anche da un piede che fa da base.
[37] Questi pezzettini di pane (Μερίδες) vengono disposti nel seguente ordine: 9, in onore dei vari Santi, a destra dell’Agnello, gli altri, secondo le intenzioni varie, per i vivi e per commemorare i defunti, vengono sistemati sotto l’Agnello. In questo modo il celebrante, avendo onorato i Santi, domanda anche la loro intercessione sui vivi e sui defunti, dei quali intende ricordarsi nella celebrazione della Liturgia, e sottolinea in forma concreta la relazione della comunione dei Santi con il sacrificio eucaristico.
[38] Piccola spugna (ο Σπόγγος) pressata di varia forma. Viene comunemente chiamata Mùsa (η Μύσα), Purificatorium, in quanto adoperata per raccogliere i pezzettini di pane dal discarion e versarli nel calice.
[39] L’insieme dei riti della Liturgia simboleggiano tutta l’economia dell’opera salvifica di Cristo: i primi riti rappresentano, infatti, l’inizio di quest’opera, i secondi il seguito, gli ultimi la conclusione che ne è derivata.
Nel rito della Proskomidìa, il Cabasilas vede la materia eucaristica come «primizia della vita umana», cioè come doni che l’uomo scambia con Dio, il quale già durante la sua vita terrena aveva fatto di coloro che erano pescatori di pesci pescatori di uomini, e al ricco che l’interrogava sul Regno aveva promesso in cambio della ricchezza terrestre quella celeste. Così l’uomo offre a Dio una materia e Dio in cambio gli dà la grazia, la vita divina. In questa prima parte della divina Liturgia viene simboleggiata altresì la venuta al mondo e la vita nascosta del Figlio di Dio, già destinato fin dalla nascita ad essere immolato. Ciò che nella Pròtesis è offerto a Dio diviene oblata, così come Cristo, nel primo periodo della sua vita terrena diviene oblazione pronta a sacrificarsi e ad immolarsi per la salvezza degli uomini (Cfr. N. Cabasilas, Migne, PG. 377 D, 380 A).
[40] L’Asterisco o Stella (Αστερίσκος o Αστήρ) è formata da due semicerchi di metallo prezioso, incrociatisi uno sull’altro, alla cui sommità è posta una croce e, nella parte inferiore, una stelletta. L’asterisco evita che le particele poste sul Discàrion vengano a contatto dei veli che le coprono.
[41] Matteo, II, 9.
[42] I Veli (τα Καλύμματα) in genere della stessa stoffa del paramento del sacerdote, sono tre e servono a coprire il discàrion e il calice. Il primo, το πρώτον Κάλυμμα o Δισκοκάλυμμα, serve per coprire la patena o discàrion ; il secondo το δεύτερον Κάλυμμα serve a coprire il calice; il terzo, il più grande, chiamato Aere o Nuvola (ο Αήρ) velo propriamente detto, copre discàrion e caliceinsieme, quasi atmosfera o nuvola che ricopre la terra.
[45] Matteo II, 11. Con l’incensamento di questi doni, si vuole indicare il rispetto e la venerazione che fin da ora vengono loro attribuiti.
[46] Atti III, 26; 1 Giov. IV, 14.
[47] Con l’Apòlisis breve, che segue immediatamente questa preghiera, ha termine il rito della Proskomidia. Nei primi tempi esso non comportava che la sola offerta dei pani e del vino. I diaconi che li ricevevano, dopo averne prelevato quanto necessario per il sacrificio, pensavano a distribuire il resto al clero, alle vedove, e a quanti ne avevano bisogno. Nel corso dei secoli, le varie cerimonie hanno subito variazioni che hanno abbreviato o allungato il testo della Proskomidia, finché una costituzione del Patriarca Filoteo di Costantinopoli (seconda metà del secolo XI) lo ha riportato a quelle linee che ci è pervenuto press’a poco fino ai nostri giorni.
[48] L’Apòlisis (Απόλυσις) o la preghiera finale di ogni ufficiatura, con la quale vengono rinviati i fedeli. Vi è la Grande Apòlisis e la Piccola, η Μεγάλη e η Μικρά Απόλυσις, a secondo la lunghezza della formula con cui viene congedata l’assemblea dei fedeli.
[49] L’inno è preso dall’Ufficiatura pasquale, precisamente dall’Ufficiatura della Settimana della Rinnovazione, Εβδομάς της Διακαινησίμου, che va da Pasqua al sabato successivo.
[50] Durante l’incensamento il diacono recita il Salmo 50.
[51] Ai Rom. VIII, 26.
[52] Luca II, 14.
[53] Salmo L, 17.
[54] Salmi CXVIIII, 3; XXXVI, 23.
[55] Luca XXIII, 42.
[56] Salmo L, 17. L’Ambone o Pulpito o Άμβων si trova a sinistra della navata centrale della chiesa, a limite del coro, rivolto verso il tempio. Qualche chiesa ne ha due.
[57] L’Autore divide la Liturgia in tre parti: 1. Proskomidìa, 2. Liturgia dei catecumeni, 3. Liturgia dei fedeli. La seconda parte della sinassi eucaristica comprende: il canto dei salmi, intercalato da preghiere litaniche; il piccolo Introito (Ìsodos); le Letture e la predicazione; le preghiere per i catecumeni e il loro rinvio.
[58] Dopo aver invocato la tuttasanta Trinità, il sacerdote celebrante fa tre metànie (cfr. nota n. 5), accompagnandole con il versetto della S. Scrittura: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace sulla terra, e tra gli uomini divina compiacenza» (Lc. II, 14), che ripete due volte, e, facendo la terza metània, conclude con le parole del Salmista: «Signore, aprirai le mie labbra, e la mia bocca annunzierà la tua lode» (Salmo 50, 17). Quindi bacia l’Evangelo e la santa Mensa (Cfr. nota n. 4). La Chiesa primitiva, infatti celebrava la Liturgia sulle tombe dei Martiri, associando così il proprio sacrificio a quello del Salvatore. Da quindi inizio alla S. Liturgia, alzando l’Evangeliàrion e tracciando con esso un segno di croce e nel contempo cantando l’invocazione: «Benedetto il Regno del Padre...».
[59] Ha inizio una lunga serie di invocazioni, recitate ad alta voce dal diacono. Essa prende nome di «Grande Sinaptì», Μεγάλη Συναπτή, per distinguerla dalle altre, contenenti un numero minore di invocazioni, chiamate «Piccole Sinaptì», che ricorrono dopo la prima e la seconda Antifona. Ciascuna Ectènia diaconale è seguita da una preghiera, recitata dal sacerdote, che termina con una dossologia. La «Grande Sinaptì», a motivo delle invocazioni iniziali per la pace, è chiamata anche Ειρηνικά, cioè serie di preghiere Ireniche, con cui – come scrive N. Cabasilas – «viene invocata la pace dagli uni verso gli altri ma anche la pace interiore per ciascun fedele… Grande è la utilità della pace ed essa è di assoluta necessità per tutti. Uno spirito agitato, infatti, non saprà in alcun modo comunicare con Dio... D’altra parte, nessuno può pregare bene e ricavare qualcosa dalla preghiera se non è in stato di pace, se prega senza avere la pace… (N. Cabasilas, o.c. XII, 8).
[60] Sebbene la «Ectènia» (Εκτενής) così come la «Ètisis» (Αίτησις) somiglino molto alla Sinaptì (cfr. nota precedente), qui propriamente trattasi della Sinaptì, corrispondente alla «Collecta» dei latini. Con il termine di «Ectènia» viene comunemente indicata la serie di invocazioni che ha inizio, dopo la lettura dell’Evangelo, con le parole: Είπωμεν πάντες... È questa la piccola Ectènia, che si distingue dalla grande Ectènia, che inizia, invece, con le parole: «Σώσον ο Θεός τον λαόν σου». Con il termine di «Ètisis» si designa, in genere, la serie di invocazioni, cui i fedeli rispondono «Concedi, o Signore», che ricorre prima del Credo e del Padre nostro.
[61] Kyrie elèison. Questo grido, breve ma anche così profondo e toccante, che i fedeli elevano in risposta a ciascuna delle numerose e varie invocazioni della Ectènia diaconale, è una pressante istanza alla misericordia divina, nello stesso tempo azione di grazie e confessione, per implorare – come dice il Cabasilas – l’avvento del Regno di Dio, quel Regno che Cristo ha promesso di dare a coloro che lo cercano (N. Cabasilas, o.c., XIII, 2). Colui, infatti, che implora la sua misericordia cerca di ottenere il suo Regno (N. Cabasilas, o.c. XIII, 9).
[62] Matteo XVIII, 20.
[63] Matteo V, 312. In genere le Beatitudini (al posto della terza Antifona), intercalate verso la fine con i Tropàri della 3a e 6a Ode del Canone del Mattutino, vengono recitate assieme ai Salmi 102 (per la prima Antifona) e 145 (per la seconda Antifona) in determinate domeniche e festività dell’anno liturgico. Nella liturgia quotidiana le Antifone sono versetti di Salmi, intercalati da una breve invocazione, che fa da ritornello, propria per ciascuna Antifona. È proprio questo il modo di antifonare (= rispondere). Nella liturgia ci restano oggi solo tre o quattro versetti per ciascuna Antifona che, con il relativo ritornello del Salmo antifonato, prendono il nome di 1ª, 2ª e 3ª Antifona.
[64] È la porta a destra di chi guarda l’Iconostasi; settentrionale, rispetto all’Altare, sin dall’antichità rivolto ad Oriente (Cfr. nota n. 23).
[65] Quest’azione liturgica è chiamata Ìsodos, Είσοδος,. Fino all’VIII secolo, in questo momento, cioè con l’ingresso del vescovo e dei concelebranti nel Santuario, aveva inizio la Liturgia. Anche oggi nelle Liturgie pontificali, il Vescovo, rimasto fuori dal Santuario (Cfr. nota n. 2), nel coro, come per le altre ufficiature, durante le litanie e i salmi antifonali, fa all’Ìsodos il suo ingresso solenne nel santuario. Nel commentario dell’VIII secolo, attribuito al patriarca S. Germano, l’Ìsodos è chiamato «Ingresso con l’Evangelo» (Cfr. Le typicon de la Grande Église, éd. J. Mateos, Rome 1963 (Orientalia Christiana Analecta 166), Index liturgique, s.v. Ìsodos). Più tardi, al X secolo, il Typicon della Grande Chiesa gli conserva la semplice denominazione di «Ingresso» o di «Ingresso del Patriarca» (Cfr. N. Bargia, Il commentario liturgico di S. Germano Patriarca costantinopolitano e la versione latina di Anastasio Bibliotecario, Grottaferrata 1912, n. 24, pag. 21). Di data piuttosto recente è l’appellativo di «Piccolo Ingresso», per distinguerlo dal «Grande Ingresso», quando processionalmente viene portata, dalla Pròtesis (cfr. nota n. 24) sull’Altare, la materia del sacrificio, le sante oblate, e si da inizio alla liturgia eucaristica. La cerimonia dell’Ìsodos oggi si svolge con una breve processione dei concelebranti, preceduti dal diacono, il quale porta solennemente l’Evangelo, mentre viene cantato dai concelebranti e dal coro l’inno dell’Ingresso.
Fino a questo momento sono stati eseguiti canti tratti dall’Antico Testamento, nei quali Cristo è stato solamente annunziato. Adesso Cristo si manifesta agli uomini e fa il suo ingresso nel mondo come Messia promesso: ciò è simboleggiato dalla processione con il libro dell’Evangelo (si entra quindi nel Nuovo Testamento), contenente il testo dei quattro Evangeli suddiviso in perìcope per l’intero anno liturgico, e comincia dal Prologo di Giovanni che è il testo per la Liturgia di Pasqua.
[66] Questo versetto è chiamato Isodikòn (Εισοδικόν), appunto perché viene cantato all’Ìsodos. Esso varia a secondo delle festività.
[67] Brevi composizioni innografiche in lode ed intercessione dei Santi che vengono celebrati.
[68] ] Il Trisàgion, inno alla tuttasanta Trinità, si riscontra in tutte le ufficiature orientali, dal Mattutino alla Compieta. Nella Liturgia bizantina è apparso in epoca piuttosto antica, probabilmente verso la metà del V secolo. La prima testimonianza storica del canto del Trisàgion si ha al Concilio di Calcedonia del 451, quando i vescovi delle diocesi d’Oriente lo cantarono tra le altre acclamazioni (Cfr. Mansi 6, 936 C). È chiaro quindi che colà non venne improvvisato. Quell’inno è quindi da collocare in epoca anteriore, sebbene non si possa determinare il luogo della sua composizione, forse Costantinopoli o la Siria di lingua greca (Cfr. J. Mateos, La célébration de la parole dans la Liturgie byzantine (Orientalia Christiana Analecta 191), Rome 1971, pag. 99-100). Una lettera apocrifa, attribuita ad Acacio, patriarca di Costantinopoli (472-488), ci tramanda una pia leggenda sull’origine del Trisàgion. Mentre il popolo di Costantinopoli era in preda allo spavento per un terremoto che aveva distrutta la città, un bambino venne rapito in aria e portato al terzo cielo. Colà rimase estasiato nell’ascoltare il canto del Trisagion eseguito dagli angeli. Ritornato in terra, raccontò ciò che gli era accaduto al patriarca Proclo (434-446). Il flagello cessò solo quando il patriarca ordinò ai fedeli di cantare l’inno Trisagion, riferito dal bambino (Cfr. S. Giov. Damasceno, De fide orth. I. III. c. X. PG. 94, 1021 A). Il Cabasilas fa allusione a questo fatto miracoloso, quando dice: «quest’inno ci è stato trasmesso dagli angeli; esso è stato tratto dal libro dei sacri Salmi del Profeta. È stato quindi recepito dalla Chiesa di Cristo, la quale l’ha dedicato alla Trinità (Cfr. N. Cabasilas, o.c. XX, 3). Quindi, accettando la spiegazione sull’origine del Trisagion, data da un certo monaco del VI secolo di nome Giobbe, autore di un trattato sul Verbo Incarnato, così ne spiega il significato: «"Santo", ripetuto tre volte, è l’acclamazione degli angeli; le parole "Dio forte ed immortale" sono prese dal beato David, quando dice: "la mia anima ha avuto sete di Dio forte e vivente" (Salmo 41, 3). Raccogliere e riunire queste due acclamazioni e aggiungervi la supplica "abbi pietà di noi" è stato compito della Chiesa, assemblea di coloro che conoscono e proclamano il mistero della Trinità in un solo Dio: bisognava mostrare, da una parte, la concordanza dell’Antico Testamento con il Nuovo; d’altra parte, che gli angeli e gli uomini sono divenuti una sola Chiesa, un unico coro, per la manifestazione del Cristo, che è a sua volta del cielo e della terra. Ecco perché noi cantiamo quest’inno dopo l’ostensione e l’ingresso con l’Evangelo, quasi a proclamare che Cristo, venendo tra noi, ci ha posti tra gli angeli e ci ha schierati tra i cori angelici» (Cfr. N. Cabasilas, o.c. XX, 3).
[69] Salmo XXXII, 6.
[70] In fondo all’abside si trova un Trono sovraelevato (Άνω Καθέδρα), cattedra riservata al vescovo, quando celebra. Ai lati di esso, in semicerchio, sono disposti dei seggi per i concelebranti (Σύνθρονοι).
[71] Matteo XXI, 9.
[72] Per comprendere queste parole e quelle che seguono, bisogna riportarsi al simbolismo della cerimonia nel suo insieme: è la continuazione dell’Ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, avvenuta per mezzo del celebrante, il quale poi va a sedersi sul trono, che simboleggia quello del Salvatore nella sua gloria.
[73] Daniele III, 54-55.
[74] L’Epistolàrion, detto anche Apostolos, contiene solo le Lettere e gli Atti degli Apostoli. Anche nel rito bizantino fino al VII secolo nella Liturgia, l’Epistola e l’Evangelo venivano preceduti dalla lettura di un brano del Vecchio Testamento. Ancora nella Mystagogia di S. Massimo viene citata la lettura di un brano del V. T., chiamato «Legge e Profeti», o quella di una profezia, seguita dall’Epistola, detta «Letture ispirate» (Cfr. Mystagogia 23, PG. 91, 700 A). Presto, però, quest’usanza disparve, e nel Commentario di S. Germano (VIII sec.) essa non viene più menzionata.
[75] Infatti, «in animo malevolo non entrerà la sapienza, né farà dimora in un corpo schiavo del peccato» (Sapienza I, 4).
[76] Restare in piedi durante la lettura dell’Evangelo è un’usanza antica, menzionata già nelle Costituzioni Apostoliche (II, 57) che, oltre a costituire un segno di rispetto, simboleggia la gioia, la libertà e la resurrezione spirituale che sono state date all’umanità per mezzo dell’Evangelo.
[77] Giovanni, X, 9.
[78] L’omilia, dopo la lettura dell’Evangelo, ha luogo ogni volta che il popolo cristiano prende parte alla Liturgia. Infatti la Liturgia è un’adunanza (sinassi) dei cristiani per ascoltare la parola ed offrire il sacrificio.
[79] È un’altra forma di preghiera litanica con cui si intercede per tutte le classi della società e della gerarchia religiosa e civile, per i morti e per i vivi, per i bisogni dei fedeli appartenenti alla chiesa dove si celebra il sacrificio eucaristico. Per il numero e la varietà di coloro che vengono commemorati come per il continuo ripetersi del Kyrie eleison probabilmente gli è valso l’appellativo di preghiera continuata Εκτενής ικεσία (Cfr. nota n. 60).
[80] Giovanni XI, 25.
[81] Siamo alla fine della Liturgia, detta dei catecumeni. Il celebrante, oltre che per essi, pregava a questo punto per tutti quei fedeli che venivano esclusi dall’assistere alla celebrazione eucaristica (penitenti, energumeni, fotizòmeni, cioè illuminandi). Essi non potevano più oltre rimanere nel tempio, cioè in un luogo divino: in virtù dell’Incarnazione, infatti, Dio fattosi veramente uomo è veramente sulla terra, avendo trasportalo tutto con sé, anche il Paradiso. Quindi solo i battezzati degni di poter partecipare ai divini misteri potevano restare nel tempio. Ai catecumeni, invece, era riservato il nartece della chiesa, il luogo cioè dove la grazia annuncia la sua opera all’uomo non ancora santificato. Oggi, nella preghiera per i catecumeni, solo la prima esortazione e l’ultima (l’invito finale ad inchinare il loro capo) sono indirizzate ai catecumeni. Questi vengono invitati a pregare in silenzio mentre l’assemblea dei fedeli, esercitando così il ruolo sacerdotale, intercede per essi presso Dio. E il Crisostomo così spiega il motivo di questo loro silenzio e del loro rinvio prima della preghiera dei fedeli: la loro preghiera non è ancora sanzionata né presentata dal Cristo; essi non posseggono ancora la libertà filiale ma bisogna che altri, in loro vece, siano i loro iniziatori. Essi rimangono fuori dalle sale regali, lontani dai cancelli sacri (Cfr. S. Giov. Crisostomo in 2 ad Corinthios 2, 5. PG. 61, 399).
(L’Ectènia per i catecumeni non è mai stata soppressa, nemmeno l’assenza fisica di catecumeni ad una singola Liturgia lo autorizza, poiché avendo la celebrazione della Liturgia una dimensione universale (cattolica), i fedeli pregano non solo per i catecumeni della propria realtà locale ma per tutti i catecumeni sparsi nel mondo, come già nelle altre Ectènie si prega universalmente per “tutti” i fedeli e per l’intera ecumene).
[82] S. Massimo Confessore (VII secolo) ci fa conoscere che già al suo tempo le parole del diacono con cui venivano congedati i catecumeni avevano un significato simbolico (anche secondo altri Padri, il congedo dei catecumeni ha in sé una forte valenza spirituale, vengono infatti “congedati” dalla Chiesa i demoni, le passioni che ancora albergano nei fedeli che si apprestano a celebrare i divini e tremendi Misteri di Cristo).
[83] I Lettera di S. Pietro, II, 9.
[84] L’Antimìnsion (invece della Mensa) consiste in un pezzo di stoffa di 50-60 centimetri quadrati, ed è destinato a fare le veci di un Altare consacrato. In esso sono racchiuse delle reliquie e vi è raffigurata quasi sempre la deposizione di nostro Signore e gli strumenti della passione. Il Vescovo lo consacra solennemente con un cerimoniale simile a quello della consacrazione di un Altare (Cfr. nota n. 4) (l’antimìnsion è inoltre segno della comunione canonica del presbitero col suo vescovo, e dei vescovi col patriarca o col primate della propria Chiesa. Dal vescovo viene infatti oltre che consacrato col mìron anche firmato. Presso le Chiese di Tradizione Greca l’antimìnsion non contiene generalemente reliquie (poiché queste vengono poste nell’Altare all’atto della sua consacrazione), e viene sostituito ogni qualvolta si succede un nuovo vescovo, mentre nelle Chiese di Tradizione Slava non lo si sostituisce ma il nuovo vescovo solo appone la sua firma sotto quelle dei suoi predecessori. Senza antimìnsion non è consentito ad alcuno celebrare la Liturgia, salvo in casi di eccezionale gravità, come ad es. capitava nei paesi dell’Est Europeo durante la persecuzione dei regimi Sovietici. Non consentito ai laici di maneggiarlo).
[85] Origene di Alessandria (185-253) fu il primo a distinguere, pur in un armonioso susseguirsi di cerimonie, la Liturgia dei catecumeni da quella dei fedeli. La sinassi eucaristica inizia con due preghiere che il sacerdote recita per la preparazione propria e dei fedeli, mettendo in risalto il ruolo del celebrante tra Dio e i fedeli: «...rendici degni di offrirti preci, suppliche e sacrifici incruenti per tutto il tuo popolo...». Ciascuna di queste preghiere è preceduta da una «piccola sinaptì» (Cfr. nota 59), che termina con il richiamo del diacono «Sapienza!» e che introduce la preghiera segreta del sacerdote.
[86] «Il motivo di questa preghiera – dice il Cabasilas – è ancora la gloria di Dio, secondo quanto scrive S. Paolo «fate tutto per la gloria di Dio» (I Cor. 10,31)... Gli agricoltori si propongono come scopo del loro lavoro l’abbondanza del raccolto, e in questa speranza essi accettano di sacrificarsi; i negozianti cercano il guadagno; gli altri lavoratori qualche fine analogo. Ma voi, in tutto ciò che fate, abbiate di mira e cercate la gloria di Dio. Noi, in effetti, siamo degli schiavi e dobbiamo al Signore questo servizio, in quanto siamo stati da Lui creati e poi riscattati. Ecco perché voi costaterete che la Chiesa ha sempre cura della gloria di Dio, che proclama questa parola... e canta questa gloria in tutti i toni: preghiere, suppliche, esortazioni...» (Cfr. N. Cabasilas, o.c. XXIII, 4).
[87] Questa preghiera – scrive il Goar – non è né del Crisostomo né di Basilio, sebbene si trovi e nella Liturgia dell’uno e in quella dell’altro. Nell’antichissimo codice Barberino essa non figura tra le preghiere del Crisostomo, per cui deve attribuirsi a coloro che introdussero l’inno cherubico (Cfr. nota n. 89) (Cfr. ]ac. Goar, Euchologium sive Rituale graecorum, Parigi, 1647, pag. 131, nota 129).
[88] Salmo CXL, 2.
[89] L’inno cherubico, cantato durante il trasporto delle oblate, è apparso nella Liturgia nella seconda metà del secolo VI. Eutichio, patriarca di Costantinopoli (552-565), tentò invano di reagire contro questa innovazione. L’inno venne formalmente prescritto da Giustiniano II nel 574 (Cfr. Gatti-Korolevskij, «I riti e le Chiese orientali», Genova, Sampierdarena, Libreria Salesiana Editrice, 1942, pag. 63). È detto inno cherubico perché ai Cherubini si attribuisce il compito di inneggiare a Dio, di manifestare la sua gloria. Cantandolo, anche noi ci uniamo a loro nell’inneggiare alla gloria di Dio.
[90] Salmo CXLVIII, 1 e sq.
[91] Allusione all’imperatore Giustiniano II (565-578) (Cfr. nota n. 89).
[92] Salmo CXXXIII, 2.
[93] Cucchiaino liturgico. Serve per prendere le Specie eucaristiche dal calice e distribuirle ai fedeli.
[94] Nella liturgia pontificale vengono portati in processione, oltre alla patena e al calice, anche i ripìdia, gli exaptèriga (flabelli), la Corona o mitra pastorale, il Bastone pastorale, l’Omofòrion (lunga e larga striscia di stoffa, riccamente decorata, corrispondente al Pallium dei vescovi latini), ecc. Simboleggiando questa processione la vittoria e il trionfo del Redentore e dell’uomo con Lui, nessun concelebrante può esimersi dal parteciparvi a mani vuote, ma ognuno di essi reca qualcosa, volendo significare la propria partecipazione nel dar gloria a Dio. Il primo oggetto che apre la processione è l’omofòrion. Esso vuol simboleggiare l’umanità: anticamente, infatti, era confezionato con lana di pecora e assumeva il significato della pecorella smarrita, che il buon Pastore pone sulle sue spalle, dopo che l’ha ritrovata, tralasciando le altre novantanove, che – dicono i Padri – simboleggiano gli angeli e tutto il creato.
È questa una meravigliosa azione drammatica che rappresenta il trionfo dell’umanità. L’umanità avanza con il Cristo dell’ascensione, innestata nel Cristo, per salire con Lui in cielo e presentarsi con Lui a Dio Padre, onde sedere alla Sua destra. Il Vescovo, che in quel momento rappresenta Dio, facendosi innanzi nel solèa, riceve l’omofòrion e l’indossa: quasi come assumesse la pecorella sulle spalle per portarla in cielo. Quindi prende i doni del sacrificio e li trasporta nell’Altare, che si identifica con l’Altare celeste, perché lo Spirito Santo, invisibile ma realmente presente, abolisce ogni distanza, unendo la terra al cielo e facendo della Liturgia celeste una sola Liturgia. L’umanità quindi sale in cielo per essere immolata insieme al Cristo Dio uomo. E gli uomini, creati da Dio per la diffusione della sua δόξα, della sua gloria, «dopo aver deposto ogni mondana sollecitudine» – come dice l’inno cherubico – nel silenzio di ogni carne mortale e nell’assenza di ogni pensiero terreno, si apprestano «ad accogliere il Re dell’universo, scortato invisibilmente dalle angeliche Schiere» onde concelebrare, fin dal presente secolo, unitamente alle Schiere angeliche con il Cristo-Capo, per dar gloria, onore ed adorazione al Santo che riposa nei santi. Pertanto «essi essenzialmente partecipano a quella medesima Liturgia che già viene celebrata nel secolo futuro, cioè nel cielo e che, essendo compiuta nella gloria divina, è sovratemporale e sovraspaziale e sovrannumerica, cioè sempre in atto e universale» (Cfr. Papas Vincenzo N. Matrangolo, La Divina Liturgia di S. Giovanni Crisostomo. Note di introduzione teologica, Arlesheim BL (Svizzera), 1963).
[95] Il rito del Grande Ingresso in origine consisteva nel trasporto della materia del Sacrificio dal luogo di preparazione, dove i fedeli avevano consegnato i doni ai diaconi e ai presbiteri, all’Altare del sacrificio. Con l’andare del tempo, il rito di questo trasporto assunse sempre più un significato mistico, come trionfo e come ritorno, per mezzo del Cristo, dell’uomo che si era allontanato da Dio: Si spiega così perché i mistici bizantini parlano di trionfo delle Palme, di trionfo dell’Ascensione. L’uomo torna con il Cristo perché nell’Ascensione tutta l’umanità (la natura umana) torna con il Cristo in cielo. Lo Spirito Santo opererà in ciascuna persona umana ciò che Cristo ha operato nella natura umana, con i Sacramenti, cosicché ogni persona, corrispondendo alla grazia dello Spirito, con il Cristo raggiunge il cielo.
[96] Luca XXIII, 42.
[97] Il sacerdote, avvicinandosi con i sacri doni ai fedeli, vuole esprimere la loro unione intima al sacrificio che sta per essere offerto.
[98] 1 Lett. a Tim VI, 15.
[99] Salmo L, 20-21.
[100] Con le preghiere che seguono viene intensificata la preparazione ad assistere al sacrificio. Il sacerdote dispone sé stesso e i fedeli alla grazia per mezzo della preghiera, della vicendevole carità, della professione di fede.
[101] Salmo XXVII, 7.
[102] Questa cerimonia prima della recita del simbolo di fede, vuole indicare che l’unione dei fedeli è basata sulla professione di un’unica e medesima fede.
[103] Ad evitare abusi, le Costituzioni Apostoliche prescrivevano, già alla fine del IV secolo, che il bacio di pace si dovesse scambiare in questa maniera. Questa cerimonia fu in uso già dai tempi apostolici e si trova segnalata da S. Giustino, a metà del II secolo. Tuttavia S. Germano di Costantinopoli, agli inizi dell’VIII secolo, non ne fa allusione nel suo commentario sulla divina Liturgia, segno che essa era scomparsa o veniva usata raramente, forse solo nelle liturgie pontificali.
[104] Matteo, V, 24.
[105] I Giov. IV, 20.
[106] Secondo Teodosio il Lettore (secolo IV), Pietro Follone, patriarca di Antiochia, fu il primo ad introdurre nella sua Chiesa la recita del simbolo della fede. Timoteo, patriarca di Costantinopoli (512-518), introdusse il simbolo anche dell’ufficiatura quotidiana. Nella Liturgia il simbolo, che compendia l’insegnamento della Chiesa, è posto al termine della sinassi catechetica, prima della sinassi eucaristica. Proprio a questo momento ce lo segnala S. Giustino, nella metà del II secolo.
[107] A simboleggiare la discesa dello Spirito Santo o il terremoto che accompagnò la morte di Cristo.
[108] L’Anafora (offerta) designa la parte centrale della Liturgia. Essa, nel corso dei secoli, ha avuto vari sviluppi. Già al IV secolo compaiono testi di anafora che si differiscono dalla primitiva. Tutti questi testi, però, come anche quelli successivi, rispecchiano, nonostante le differenti espressioni e contenuto, lo schema primitivo.
[109] Specie di piccolo flabello o ventaglio liturgico, sul quale è dipinta una testa di serafino con sei ali. Viene agitato sopra i sacri Doni durante l’anafora per allontanare da essi eventuali moscerini. Simboleggia la presenza dei serafini che aleggiano sopra i s. Doni.
[110] II Cor. XIII, 13. «Questa preghiera – scrive il Cabasilas – è presa dalle Epistole del beato Paolo. Essa ci distribuisce i beni della Santa Trinità, cioè ogni dono perfetto» (Giac. I, 17), e li designa con un termine proprio a ciascuna Persona divina: dal Figlio ci augura la grazia, dal Padre l’amore, dallo Spirito Santo la comunione. Il Figlio ha fatto dono di sé per noi, quale Salvatore, mentre noi non solo non gli contraccambiamo nulla ma abbiamo nei suoi riguardi debiti di giustizia: «Egli, infatti, è morto per noi che eravamo ancora empi» (Rom. 6, 7); la sua sollecitudine per noi è dunque grazia. Il Padre, per le sofferenze del suo Figlio, si è riconciliato con il genere umano e ha colmato d’amore coloro che erano suoi nemici: ecco perché i beni per noi sono detti amore. Infine, Colui che «è ricco in misericordia» (Ef. 2,4) bisognava che comunicasse i propri beni a coloro che da nemici erano diventati amici: è quello che fa lo Spirito Santo, disceso sugli Apostoli; si spiega così il motivo per cui la sua bontà è chiamata comunione» (Cfr. N. Cabasilas, o.c. XXVI, 4).
[111] «Dopo averci resi degni di una tale preghiera e aver così staccato dalla terra le nostre anime, il sacerdote eleva i nostri sentimenti e dice: «In alto i cuori!», cioè «pensate le cose di lassù, non quelle della terra» (Col. 3,2). I fedeli danno la loro adesione e dichiarano di avere i loro cuori «là dove è il nostro tesoro» (Mat. 6, 21), là dove è il Cristo, che è assiso alla destra del Padre: «sono rivolti al Signore» (Cfr. N. Cabasilas, o.c. XXVI, 6).
[112] Il sacerdote riprende la risposta dei fedeli «È degno e giusto» e la sviluppa, rendendo abbondantemente grazie al Signore per tutti i suoi beni a nostro favore.
[113] Isaia, VI, 3.
[114] Giovanni, XII, 13.
[115] Homil. I. In illud vidi Dominum. PG. LVI, pag. 99-100.
[116] Luca XXII, 19. «Secondo la concezione orientale – scrive P. Evdokimov – il sacerdote non pronunzia le parole di Cristo “questo è il mio corpo” in persona Christi ma in nomine Christi. Affinché la parola del Cristo pronunziata dal sacerdote possa compire ed acquistare l’efficacia divina, il sacerdote invoca lo Spirito Santo nell’epiclesi» (Cfr. Paul Evdokimov, La prière de l’Église d’Orient, Ed. Salvator-Mulhouse, Paris, 1966, pag. 81).
[117] Matteo, XXVI, 27-28.
[118] Il sacerdote ricorda con queste parole (anamnesi) i grandi misteri della nostra Fede, compiuti da Cristo per la nostra salvezza; dopo conclude recitando ad alta voce le parole con cui viene compiuta l’offerta. «Per le parole dell’anamnesi pronunziate dal sacerdote... lo Spirito Santo fa l’anamnesi epifanica, manifesta l’intervento del Cristo identificando le parole pronunziate con le proprie parole, ed è qui il miracolo della metabolé (Cfr. P. Evdokimov, o.c. pag. 81).
[119] Questa invocazione è un’aggiunta di epoca piuttosto tardiva, diffusasi specialmente dopo la caduta di Costantinopoli (1453). Essa oggi non compare più nei testi liturgici critici pubblicati a Costantinopoli e in Grecia (ma permane nella sola Tradizione Slava).
[120] Salmo L, 12.
[121] Salmo L, 13.
[122] I fedeli a questo punto s’inginocchiano. Anche il celebrante durante la supplica s’inginocchia, restando in piedi solo per l’azione liturgica. Se vi è concelebrazione, si alza solo il primo celebrante per benedire i doni, mentre tutti gli altri con i diaconi rimangono in ginocchio.
[123] Supplica a Dio Padre perché invii lo Spirito Santo: ogni atto di santificazione, infatti, è opera dello Spirito Santo. Questa supplica, nelle forme più varie, si trova in tutte le anafore antiche. Per il Cabasilas, come per gli altri teologi bizantini, anche la liturgia romana contiene la supplica a Dio Padre, anche se in forma diversa. La tradizione antica la considera necessaria perché si compia il Mistero. S. Basilio (†379) addirittura parla dell’origine apostolica dell’epiclesi (De Sp. S., PC. 29,188). «L’unanime tradizione patristica dell’Oriente attribuisce la potenza operativa, in tutti i “riti sacri”, all’intervento ipostatico della terza Persona della Trinità: allo Spirito Santo che procede dal Padre (nel mistero della Divinità) ed è inviato dal Figlio per il compimento universale dell’economia della salvezza. Creatore della vita, lo Spirito è l’organo diretto della vita spirituale, l’agente supremo di tutte le incarnazioni del celeste, fonte della grazia e delle energie divine in seno alla Chiesa. È Egli in quanto Paraclito (Consolatore) e fuoco celeste che discende su ogni carne, la santifica e la rende sacra... In questo modo l’epiclesi è una confessione liturgica del dogma, l’applicazione orante della Teologia dello Spirito Santo... Il posto dello Spirito Santo e dell’epiclesi è condizionato dal dogma trinitario, dall’equilibrio trinitario così caro ai Padri orientali e che si manifesta nella liturgia... La creazione del mondo si trova al termine del movimento discendente degli atti di Dio: del Padre per il Figlio nello Spirito Santo; al contrario, l’ascensione dell’uomo, l’economia della salvezza, segue l’ordine inverso: dallo Spirito Santo... per il Figlio verso il Padre... S. Basilio definisce chiaramente il ruolo ministeriale dello Spirito: «la creatura non possiede alcun dono che non venga dallo Spirito; Egli è il santificatore che ci riunisce a Dio» (De Sp. S., PG. 32,133C)... L’anafora orientale colpisce per questa sua struttura trinitaria, essa s’indirizza al Padre affinché lo Spirito Santo manifesti il Cristo, ed è appunto questa teologia trinitaria che esige e pone l’epiclesi» (Cfr. P. Evdokimov, o.c., pagg. 77-79).
[124] Giovanni VI, 35.
[125] Quest’inno alla Vergine è chiamato Megalinàrion. Propriamente il megalinàrionn è il tropario cantato alla IX Ode del Mattutino, cioè il Magnificat (Luca I, 46 e seg.). Nelle grandi feste si canta un megalinàrion speciale. Abbiamo visto sopra come lo Spirito Santo estende alla Chiesa-corpo e le fa rivivere il mistero delle discese-ascese della Chiesa-capo, Cristo, cioè l’insieme dell’economia storico-salvifica divina. Per cui la liturgia celebra tutti i misteri fondamentali, cantando con accenti di gioia anche quello mariale, della Madre di Dio, «esemplare compiuto della Chiesa quale primizia della finale palingenesi della umanità che sarà a sua volta, restituita alla primitiva incorruttibilità e immortalità, a causa della unione del divino e dell’umano, avvenuta nella Vergine e per mezzo della Vergine Madre. “Questo mistero nascosto ai secoli” (Col. I, 26) e sconosciuto agli angeli si è, infatti, manifestato (rivelato e attuato), per mezzo della Madre di Dio» (Theotokìon Tono IV). L’accentuato timbro mariano della liturgia bizantina non è dovuto solo alla pietà degli orientali, ma è giustificato dal ruolo ontologico di mediatrice che le è riservalo nella economia divina e che non è circoscritto solo al valore della sua preghiera e dei suoi meriti e della sua santità personale, ma soprattutto al mistero che in lei si attua, l’umanità restituita allo stato paradisiaco» (Cfr. Papàs Vincenzo N. Malrangolo, o.c.).
[126] I nomi di coloro che il celebrante ricorda in questo momento del santo Sacrificio erano scritti anticamente in alcune tavolette (Dittici). L’inserzione ai Dittici nella Chiesa primitiva era di importanza capitale: in essi non vi erano riportati i nomi degli eretici e degli scismatici, in quanto non erano più in comunione con la Chiesa.
[127] 1 Lett. a Timoteo, II, 2.
[128] Dopo questa benedizione ha inizio la parte della liturgia in preparazione alla comunione. Una volta offerte le oblate in sacrificio e consacrate, il sacerdote per esse rende grazie a Dio e nello stesso tempo lo supplica, per cui la liturgia assume qui un aspetto eucaristico-impetratorio: il sacerdote, infatti, espone anche i motivi del ringraziamento e formula l’oggetto della supplica. «Motivi del ringraziamento sono i Santi: in essi la Chiesa ha trovato ciò che ha chiesto ed ha ottenuto l’effetto della sua preghiera, il regno dei cieli; oggetto, invece, della supplica sono gli uomini che non hanno ancora raggiunto la perfezione e che pertanto hanno bisogno della preghiera» (Cfr. N. Cabasilas, o.c., pag. 209).
[129] Matteo, VI, 9 e seg. Il posto liturgico della preghiera domenicale, prima della Cena, pone in risalto come il pane quotidiano, supersostanziale, è il pane eucaristico, il pane del Regno, che viene dato oggi.
[130] Giovanni, VI, 51-52.
[131] «Le Cose sante ai Santi»: i fedeli vengono posti su un piano di intercomunione diretta e totale dei beni celesti. Il Cabasilas spiega: «Ecco sotto i nostri occhi il Pane della vita»... «Son qui chiamati Santi tutti coloro che tendono verso la perfezione», cioè unendosi e partecipando alle Cose sante (Cfr. N. Cabasilas, o.c., pag. 223).
[132] È un solenne riconoscimento dell’unica e sola fonte di ogni santità. «Nessuno, infatti, possiede da per sé stesso la santità... ma tutti la ricevono da Lui e per Lui. È come se molti specchi vengono posti rivolti al sole: brillando ognuno di essi ed emettendo dei raggi si ha l’impressione di vedere più soli, mentre in realtà non vi è che un sol sole, che brilla in ciascuno specchio. Similmente il sole Santo (Gesù Cristo) brilla e santifica i fedeli; Egli è pertanto il solo ed unico Santo, innanzitutto “per la gloria di Dio”» (Cfr. N. Cabasilas, o.c., pag. 225).
[133] Come è spiegato nel testo dal Gogol, il koinonikòn viene cantato durante la comunione (koinonìa) dei concelebranti. Varia secondo i giorni e le festività.
[134] È una confessione di fede eucaristica. L’Agnello non è limitato né dallo spazio né dal tempo: ogni giorno sugli altari esso viene spezzato e diviso, ma ogni particella contiene il Cristo totale. I primi cristiani attribuivano grande importanza alla «frazione del pane», richiamandosi a quanto è stato scritto dall’Apostolo in Atti, II, 42.
[135] Con quest’atto il sacerdote compie l’immistione. Essa simboleggia l’unità del sacrificio sotto le due specie.
[136] Con i frammenti dell’Amnòs (Agnello) si comunicano i concelebranti e i diaconi. Ai fedeli vengono distribuite le particelle che, nel linguaggio liturgico vengono chiamate «Perle preziose» (Margarite).
[137] Isaia, VI, 6-7.
[138] Il termine «zèon» designa sia l’acqua bollente che il vasetto che la contiene. Il simbolismo è spiegato nel testo.
[139] Viene accentuato con questo rito il carattere pentecostale della liturgia: lo Spirito Santo, vivo e vivificante, è anche presente nelle Specie eucaristiche e chi si comunica riceve pertanto il Verbo e lo Spirito in una rinnovata Pentecoste.
[140] Preghiera attribuita a S. Giovanni Crisostomo.
[141] Versi di Simeone Metafraste.
[142] Formula impersonale che si riscontra nel rito bizantino anche nell’amministrazione degli altri sacramenti, e sottolinea come il ruolo del ministro sia quello di mero strumento che agisce in nome di Cristo.
[143] Oltre al velo che copre il calice, il celebrante si serve anche di un secondo di seta, di colore rosso: è il purificatoio che si usa nel rito romano.
[144] Isaia, VI, 7.
[145] Preghiere tolte dall’Ufficiatura del tempo pasquale.
[146] Salmo XXVII, 9.
[147] Salmo LVI, 12.
[148] L’uso di cantare quest’inno nelle grandi feste dell’anno rimonta al tempo del Patriarca Sergio (624).
[149] È la preghiera finale con cui viene sciolta l’assemblea dei fedeli.
[150] 1 Cor. I, 20.
[151] Ebr. XI, 13.
[152] Questi pezzetti di pane (i resti del Pròsforon o Oblata) sono quelli rimasti nella preparazione della materia eucaristica e benedetti durante la liturgia, quando viene intonato l’inno alla Madre di Dio. Essi vengono chiamati antìdoron, al posto del dono (δώρον), cioè l’eucaristia; infatti, anticamente prendevano l’antìdoron solo coloro che non si erano comunicati ai Misteri durante la Liturgia, tale uso risale a san Basilio, che inventò questo espediente per far partecipare almeno simbolicamente all’agape sacramentale anche coloro che non si comunicavano a causa di lunghi canoni penitenziali o perché si ritenevano indegni del sacramento; non si tratta quindi di un semplice pane benedetto, per questo motivo in alcune Chiese Ortodosse (soprattutto nei monasteri), ancora oggi non lo si da se non ai fedeli. Il fedele riceve l’antidoron nella palma della mano destra, incrociata sulla sinistra; ricevutolo, bacia la mano del sacerdote. L’antidoron viene mangiato o portato a casa dal fedele.
[153] È un inno augurale che viene cantato anche fuori delle cerimonie liturgiche.
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