domenica 20 ottobre 2013

LA VIA DELLA PENITENZA del vescovo Kallistos Ware



Tratto da Kallistos Ware, Le royaume intérieur,
Éditions Cerf/Sel della Terre, 1993.
Traduzione a cura di © Tradizione Cristiana


Pentitevi perché il regno dei cieli è vicino (Matteo 3, 2; 4, 17). Con queste uguali parole San Giovanni Battista e il nostro Signore Gesù Cristo entrambi cominciano la loro predicazione. Ed è proprio questo il punto di partenza della Buona Notizia: il pentimento. Senza pentimento, non può esserci vita nuova, salvezza, ingresso nel Regno dei cieli.
Passando dalle sacre Scritture ai Padri della Chiesa, troviamo esattamente la stessa verità, ripetuta con insistenza. Interrogato su che cosa faceva nel deserto, Abba Milesio rispose: “Sono un uomo peccatore, e sono venuto a piangere i miei peccati[1]. Il pentimento non è una semplice tappa, un preliminare; prosegue per tutta la vita. Mentre Abba Sisoe giaceva sul suo letto di morte, i discepoli che gli stavano attorno lo videro rivolgersi a qualcuno:«‘Con chi stai parlando, Padre?’, gli chiesero. Rispose: ‘Degli angeli vengono a prendermi, e supplico che mi lascino fare un po’ di penitenza’. Gli anziani gli dissero: ‘Tu non hai bisogno di fare penitenza, Padre’. Ma egli disse loro: ‘Invero, non sono sicuro di avere cominciato a pentirmi’»[2]. Da parte sua, san Marco l’asceta (V-VI sec.) scrive: “Nessuno è migliore né più misericordioso di Dio; ma tuttavia egli non perdonerà chi non farà penitenza. (...) Tutta la diversità dei comandamenti finisce col ridursi ad uno solo, quello del pentimento. (...) Poiché non siamo condannati sul numero dei nostri peccati, ma per non avere voluto pentirci. (...) Sia per i piccoli che per i grandi, il pentimento non finisce fino alla morte[3]. Come dice Abba Isaia di Scete (IV-V sec.): “Invero, nostro Signore Gesù Cristo, sapendo che la malizia del nemico è grande fin dall’origine, ci ha dato il pentimento fino al nostro ultimo respiro. Poiché se non vi fosse il pentimento, nessuno sarebbe salvato[4]. E a sua volta sant’Isacco il Siro (VII sec.) insegna: “Nelle ventiquattro ore del giorno e della notte, ogni instante abbiamo bisogno del pentimento[5].
Il pentimento è essenziale anche per le guide spirituali contemporanee. Così, San Serafim di Sarov (1759-1833) afferma: “Dove non ci sono lacrime, non c’è salvezza”. E padre Serafim Papakostas, capo del movimento greco Zoe dal 1927 al 1954, comincia la sua opera più famosa con queste parole: “In ogni epoca, e soprattutto nella nostra, profondamente ansiosa, stanca ed agitata, nulla è più essenziale del pentimento. Spesso non c’è nulla a cui l’uomo aspira più profondamente; il problema è che non ha un’idea chiara di ciò che veramente vuole[6]. Va notato qui che la preghiera di Gesù, che oggi è molto più praticata che 50 anni fa, è specificamente una preghiera di pentimento: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di mepeccatore”.
Questo ruolo capitale e costante del pentimento nella nostra spiritualità ci interroga, in particolare sul modo in cui presentiamo l’Ortodossia all’Occidente. Perché la nostra tendenza è di sollevare uno solo dei suoi aspetti. Parliamo della gloria della Luce divina in occasione della Trasfigurazione di Cristo, del senso del trionfo della Risurrezione nella notte pasquale, della gioia del Regno, della bellezza spirituale delle icone, della Divina Liturgia simile al paradiso sulla terra. Ed abbiamo ragione di insistere su queste cose. Ma dobbiamo stare attenti a non essere troppo unilaterali. Perché la Trasfigurazione e la Risurrezione sono inscindibili dalla Crocifissione. Come cristiani, siamo effettivamente testimoni della “grandissima gioia” (Matteo 2, 10) dell’Evangelo; ma non dobbiamo dimenticare, come canta la Chiesa nel mattutino della domenica, che è “per mezzo della croce che la gioia è venuta nel mondo intero”. La trasfigurazione cosmica non può essere realizzata se non rinunciando a sé stessi e con il digiuno ascetico.
Ma, in sostanza, cosa si intende per pentimento? Generalmente questa parola evoca il dispiacere di aver peccato, il sentimento di colpevolezza, la sensazione di pena e di orrore di fronte alle ferite che abbiamo inflitto al nostro prossimo e a noi stessi. Tale visione è tuttavia incompleta. Se pena e orrore sono effettivamente elemento essenziale del pentimento, non ne costituiscono però la totalità, e neppure la dimensione più importante. Per avvicinarci al senso profondo del pentimento, occorre una lettura del termine greco: metanoia. Letteralmente “cambiamento dello spirito”: non solamente rammarico per il passato, ma trasformazione fondamentale della nostra prospettiva, un nuovo modo di vedere Dio, gli altri e sé stessi. “Un atto di grande intelligenza[7], come dice il Pastore di Erma (II sec.), e non necessariamente una crisi emozionale. Il pentimento non è un accesso di rimorsi e di compassione di sé, ma conversione, ricentrare la propria vita sulla santa Trinità.
Spirito nuovo”, conversionericentramento, il pentimento è qualcosa di positivo e non di negativo. Come scrive san Giovanni il Climaco (†650 circa): “La penitenza è figlia della speranzae rinuncia alla disperazione[8]. Il pentimento non è scoraggiamento ma attesa ardente; non sentire di essere in un vicolo cieco, ma di avere trovato una via d’uscita; non odio di sé, ma conferma del proprio vero “sé” fatto a immagine di Dio. Pentirsi significa guardare non verso il basso, verso le proprie imperfezioni, ma verso l’alto, verso l’amore di Dio; guardare non in dietro, con i rimproveri che ci si fa, ma in avanti, con fiducia. Significa guardare, non quel che non si è riusciti ad essere ma quel che con la grazia di Cristo si può ancora diventare.
In questo senso, positivo, il pentimento non appare semplicemente come un atto unico, ma come un atteggiamento permanente. Ciascuno, nella sua esperienza personale, può conoscere momenti decisivi di conversione; ma in questa vita, il compito di pentirsi resta sempre incompiuto. Il capovolgimento o ricentramento dell’essere deve essere costantemente rinnovato; secondo l’esempio di Abba Sisoe, il “cambiamento dello spirito” deve, fino al momento della morte, farsi sempre più radicale, “l’atto di grande intelligenza” deve diventare sempre più profondo.
Il carattere positivo del pentimento appare chiaramente nelle parole del profeta Isaia che l’evangelista Matteo cita appena prima dell’invito di Cristo al pentimento: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Isaia 9, 1). Questo è il contesto immediato del richiamo di nostro Signore al pentimento: il suo comandamento è direttamente preceduto da un riferimento alla “grande luce”, che splende su coloro che sono nelle tenebre, e all’imminenza del Regno dei cieli. Il pentimento è, dunque, un’illuminazione, un passaggio dall’oscurità alla luce. Pentirsi è aprire i propri occhi allo splendore divino; non dimorare tristemente nel crepuscolo, ma accogliere l’aurora. Escatologicamente, il pentimento è anche un’apertura alle realtà ultime del tempo che verrà, che non sono semplicemente nel futuro, ma già presenti. Pentirsi significa riconoscere che il Regno dei cieli è in noi, all’opera fra noi; è soltanto nella misura in cui accettiamo l’avvento di questo regno che ogni cosa sarà per noi rinnovata.
Il legame tra pentimento e la venuta della “grande luce” è molto importante. Poiché è impossibile vedere realmente i propri peccati prima di avere la luce di Cristo. Come lo mostra san Teofane il Recluso (1815-1894), fintanto una camera è immersa nell’oscurità, non si osserva la sporcizia; ma se si illumina fortemente, si distingue allora ogni grano di polvere. La stessa cosa vale per la camera della nostra anima. L’ordine delle cose non è di pentirsi all’inizio per prendere in seguito coscienza di Cristo; poiché solo quando la luce di Cristo sarà entrata nella nostra vita noi cominceremo realmente a comprendere il nostro peccato. “Pentimento, dice san Giovanni di Kronstadt (1829-1908), significa sapere che c’è una menzogna nel proprio cuore”; ma non si può individuare la presenza della menzogna senza avere già un certo senso della verità. Per riprendere le parole di E. I. Watkin, “Il peccato (...) è l’ombra gettata dalla luce di Dio quando viene intercettata da ogni attaccamento della volontà che le impedisce di illuminare l’anima. Ma, è la conoscenza di Dio che fa nascere il senso del peccato, e non l’inverso[9]. Come diceva Abba Matoe: “Più l’uomo si avvicina a Dio, più si vede peccatore[10]. Per i Padri del Deserto, nessuno illustra meglio questa legge spirituale del profeta: comincia a vedere il Signore sul suo trono e sente i serafini che gridano Santo, santo, santo!; quindi, dopo questa visione, egli esclama: Ahimè! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure (Isaia 6, 1-5).
Questo è dunque l’inizio del pentimento: una visione di bellezza e non di bruttezza. Una coscienza della gloria di Dio, e non della mia propria miseria. Beati gli afflitti, poiché saranno consolati (Matteo 5, 5): pentimento non significa solo pianti per i nostri peccati ma conforto o “consolazione” che viene dall’assicurazione del perdono divino. La “grande intelligenza” o “il cambiamento dello spirito” che definiscono il pentimento, consistono precisamente in questo: riconoscere che la luce splende nelle tenebre e che le tenebre non possono accogliere (Giovanni 1, 5). Pentirsi, in altre parole, significa riconoscere che c’è il bene ed il male, l’amore l’odio; significa affermare che il bene è più forte del male, credere alla vittoria ultima dell’amore. Penitente è colui che accetta il miracolo che Dio ha realmente il potere di perdonare i peccati. E nella misura in cui accetta questo miracolo, il passato perde per lui il suo carattere irreversibile e non è più un fardello intollerabile. Il perdono divino rompe la catena causa ed effetto, e slega i nodi che l’uomo ha nel cuore e che non è capace di sciogliere da solo.
Molti sono coloro che si sentono tristi a causa delle loro azioni passate, ma che nella disperazione dicono: “Non posso perdonarmi per ciò che ho fatto”. Incapaci di perdonarsi, sono anche incapaci di credere che Dio e altri uomini abbiano perdonato loro. Queste persone, nonostante l’intensità della loro angoscia, non hanno ancora iniziato a pentirsi. Non hanno ancora raggiunto la “grande intelligenza” con la quale un uomo sa che l’amore è vittorioso. Non sono ancora passate attraverso quel “cambiamento dello spirito” che consiste nel dire: Sono accettato da Dio; ciò che mi viene chiesto, è accettare il fatto di essere accettato. Si trova là l’essenza del pentimento.
La vera natura, positiva ed illuminante, del pentimento si manifesta in modo molto evidente nella vita della Chiesa, attraverso in particolare tre espressioni caratteristiche: liturgica per il periodo della Grande Quaresima, sacramentale nella confessione, personale nel dono delle lacrime.
Nulla più del periodo dell’anno in cui si svolge la Grande Quaresima è emblematico del pentimento: non in autunno, nella nebbia e le foglie che cadono; non in inverno, quando la terra è morta e congelata; ma in primavera, quando le brinate finiscono, i giorni si allungano e tutta la natura si sveglia alla vita. Come canta la Chiesa il mercoledì che precede l’inizio della Grande Quaresima, ai vespri: “La primavera della Quaresima si è levata e con essa il fiore del pentimento; fratelli, purifichiamoci da ogni peccato e cantiamo per la nostra Fonte di purezza; diciamogli: Amico degli uomini, gloria a te[11]. Il tempo del pentimento, che caratterizza la Quaresima, è un tempo di gioia, non di abbattimento. Il digiuno è una primavera spirituale, il pentimento un fiore che sboccia e Cristo si presenta a noi nella Quaresima come “donatore di luce”. Per riprendere l’espressione di san Giovanni Climaco, la pena che sentiamo durante la Quaresima è un’“afflizione che produce la gioia[12].
L’esperienza del pentimento è vissuta con una forza tutta particolare nel sacramento della confessione. Il senso di questo “mistero” viene riassunto molto bene nella breve esortazione che nel rito russo il sacerdote indirizza al penitente: “Ecco, figlio mio, Cristo è presente in modo invisibile per ricevere la tua confessioneNon avere vergogna, non temere e non nascondere nulla; ma, senza esitazione, dimmi tutto ciò che hai fatto, per ricevere il perdono di nostro signore Gesù CristoEcco dinanzi a noi la sua icona; io, non sono che un testimoneper rendere testimonianza davanti a lui di tutto ciò che mi avrai detto. Se mi nascondi qualcosa, porterai doppio peccato. Vigila dunque, giacché sei venuto(a) dal medicoa non lasciarlo senza essere guarito(a)”[13].
Parafrasando questa esortazione, san Tikhon di Zadonsk (1724-1783) scrive: “Quando dà indicazioni sul sacramento della penitenza, il sacerdote dovrebbe parlare al penitente così: figlio mio, ti confessi a Dio, che non è contento di qualunque peccato; ed io, suo servo, sono testimone indegno del tuo pentimento. Non nascondere nulla, non avere né vergogna né timore, poiché qui siamo soltanto noi tre, tu, io, e Diodinanzi al quale hai peccato, che conosce tutti i tuoi peccati e sa come li hai commessi. Dio è ovunque e ovunque tu abbia detto, pensato o fatto qualcosa di male, era là e sapeva tutto; ed ora è qui con noi, che aspetta parole di pentimento e di confessione. Anche tu conosci tutti i tuoi peccati: non avere vergogna di parlare di tutto ciò che hai commesso. Ed io che sono qui, sono un peccatore come teperciò, non avere vergogna di confessare i tuoi peccati in mia presenza[14].
Il sacerdote dice: “Giacché sei venuto(a) dal medico”. Nella confessione, dobbiamo vedere il Cristo-giudice, che ci libera dalla sentenza di condanna; ma dobbiamo vedere anche il Cristo-medico, che risana ciò che è stato rotto e rinnova la vita. Il sacramento non deve essere visto soltanto in termini giuridici, ma anche curativi. Sopratutto, la confessione è un sacramento di guarigione. Fatto notevole a questo proposito, in alcuni commenti liturgici bizantini, confessione e unzione degli ammalati, vengono considerati non come due sacramenti distinti ma come aspetti complementari di un solo e stesso “mistero” di guarigione. Ciò che cerchiamo nella confessione, è ben più di un’assoluzione esterna, legalista; soprattutto la guarigione delle nostre profonde ferite spirituali. Noi portiamo davanti a Cristo non soltanto peccati specifici, ma pure la realtà del peccato in noi, cioè una corruzione profonda della nostra natura che non può essere espressa completamente con le parole, che sembra sfuggire alla nostra coscienza ed alla nostra volontà. È di questo soprattutto che chiediamo di essere guariti. Come sacramento di guarigione, la confessione non è assolutamente una necessità penosa, una disciplina che ci impongono le autorità della Chiesa, ma un’azione piena di gioia e di grazia salvatrice. Con la confessione, impariamo che Dio è realmente “la speranza dei disperati”, come dice la Liturgia di san Basilio.
Qui, siamo solo noi tre” – il sacerdote, il penitente e Cristo medico. Cosa fa ciascuna di queste tre persone? L’azione di chi, è la più importante? Molti tendono a mettere l’accento soprattutto su ciò che il sacerdote fa, sui suoi consigli ed i suoi incoraggiamenti; e se il sacerdote non dice nulla di eloquente o di inatteso, pensano che poco, o nulla, sia stato compiuto. Oppure sopravvalutano il secondo aspetto, ciò che essi stessi fanno. Immaginano che debbano essere profondamente sconvolti, sul piano emotivo, anche se, come abbiamo detto, il pentimento non è innanzitutto questione di emozione. E poiché mettono l’accento principale sui loro sforzi, vedono la confessione sotto una luce triste e scoraggiante, un po’ come una doccia fredda, una cosa necessaria ma sgradevole da portare a termine al più presto. Eppure, l’azione più importante in realtà non è quella del penitente o del sacerdote ma quella di Dio. Il penitente, anche se gli si chiede di prepararsi con un meticoloso esame di coscienza, in ultima analisi, arriva alla confessione a mani vuote, impotente, senza pretendere di essere capace di guarirsi, ma chiedendo ad un altro di guarirlo. E quest’altro, di cui invoca l’aiuto, non è il sacerdote ma Dio. Il sacerdote non è che “l’usciere di Dio”, che introduce il penitente alla presenza divina; egli non è, per prolungare la metafora medica, che il receptionist nella sala d’attesa. La confessione è fatta a Cristo, e non al sacerdote: “Cristo è presente in modo invisibile per ricevere la tua confessione”; è da Cristo, e non dal sacerdote che viene il perdono: “per ricevere il perdono del nostro Signore Gesù Cristo”.
A partire dal momento in cui vediamo la confessione, fondamentalmente, come un’azione di Cristo piuttosto che come nostra, il sacramento del pentimento appare sotto una luce molto più positiva. Non è più semplicemente l’esperienza della nostra disintegrazione e debolezza, ma quella dell’amore e del perdono curativi di Dio. Dobbiamo vedere non soltanto il figlio prodigo, che cammina lentamente e pesantemente sulla lunga strada del ritorno a casa, ma anche il padre che lo scorge da lontano e che gli corre incontro (Luca 15, 20). Come scrive Tito Colliander: “Se noi facciamo un passo verso DioEgli ne farà dieci verso noi[15]. È precisamente ciò che viviamo nella confessione. Come tutti i sacramenti, la confessione è un’azione divino-umana, nella quale c’è una convergenza ed una “cooperazione” tra la grazia di Dio e la nostra libera volontà. Entrambe sono necessarie; ma ciò che Dio fa è di gran lunga più importante.
Il pentimento e la confessione non sono dunque semplicemente qualcosa che facciamo da noi stessi o con l’aiuto del sacerdote, ma qualcosa che Dio fa con noi e in noi. Come dice san Giovanni Crisostomo (IV sec.), “Amministriamo il rimedio salvatore del pentimento; accettiamo da Dio il pentimento che ci guarisce. Poiché non siamo noi che gliel’offriamo, ma lui che ce lo da”[16]. Occorre qui ricordare che in greco la parola exomologesis significa allo stesso tempo la confessione dei peccati e l’azione di grazia per i doni ricevuti.
Quale è, più precisamente, la parte del sacerdote in questa sinergia? Da un certo punto di vista, il suo potere è molto ampio. Tutti coloro che hanno avuto la benedizione di avere per confessore una persona dotata del vero carisma della paternità spirituale, testimonieranno l’importanza del ruolo del sacerdote. La sua funzione non è semplicemente di dare consigli. La sua assoluzione non ha nulla di automatico. Può legare come slegare. Può rifiutare l’assoluzione – anche se è molto raro – o imporre una penitenza, proibendo ad esempio al fedele di comunicarsi per un certo tempo o chiedendogli di eseguire un certo compito. Anche se non è molto frequente nella pratica ortodossa contemporanea, non è meno importante ricordarsi che il sacerdote possiede questo diritto.
Nella Chiesa dei primi secoli, le penitenze erano spesso severe. Per la fornicazione, san Basilio il Grande (IV sec.) prescriveva sette anni di esclusione dalla santa comunione e san Gregorio di Nissa (IV sec.) nove anni; nella legislazione canonica successiva, attribuita a san Giovanni il Digiunatore, la pena fu ridotta a due anni con un digiuno rigoroso. Per un omicidio involontario – ad esempio, oggi, uccidere qualcuno in un incidente automobilistico – san Basilio imponeva dieci o undici anni di scomunica e san Gregorio nove anni; ma se il penitente si impone un rigoroso digiuno, san Giovanni il Digiunatore autorizzava la riduzione di questa pena a tre anni. Poi i genitori che lasciano morire il figlio non battezzato, venivano privati della comunione per tre anni.
Detto questo, già allora, il vescovo o il sacerdote-confessore aveva la possibilità di modificare queste penitenze in rapporto alla situazione particolare di ciascuno, secondo i principi dell’“economia” o elasticità pastorale. Oggi sarebbe proprio eccezionale applicare i canoni in tutto il loro rigore; un’ampia parte di “economia” è normale. Ma il principio rimane: il sacerdote è responsabile dinanzi a Dio del suo modo di amministrare il sacramento e conserva il potere d’imporre una penitenza che può implicare, se necessario, un periodo di scomunica. Ad esempio, nella Chiesa greca in Europa occidentale, si usa che una donna che abbia abortito venga esclusa per un anno dalla comunione – i vecchi canoni prevedevano un periodo molto più lungo. In tal caso, il sacerdote può anche proporre una forma più attiva di penitenza: “Poiché hai negato la vita, può dire, ora affermala, ad esempio facendo volontariato in una casa per bambini paralizzati nei prossimi dodici mesi per quattro ore a settimana”.
La penitenza non deve essere considerata una punizione ed ancora meno come un’espiazione. La salvezza è un dono libero della grazia. Non possiamo mai cancellare il nostro peccato con i nostri sforzi: Cristo, unico mediatore, è la nostra sola riparazione; o ci perdona gratuitamente, o non siamo affatto perdonati. Noi non acquisiamo “meriti” compiendo una penitenza, poiché, in rapporto a Dio, l’uomo non può mai rivendicare alcun merito personale. Qui, come sempre, dovremmo pensare dapprima in termini terapeutici piuttosto che giuridici. Una penitenza non è una punizione, né una forma di espiazione, ma un mezzo di guarigione. È una medicina. Se la confessione sincera è paragonabile ad un’operazione, la penitenza è il ricostituente che ridà la salute al paziente durante la convalescenza. La penitenza dunque, come la confessione completa, è essenzialmente positiva nel suo scopo: non innalza una barriera tra il peccatore e Dio ma serve da ponte tra i due. “Considera dunque la bontà e la severità di Dio”, dice san Paolo (Romani 11, 22): la penitenza è un’espressione non soltanto della severità di Dio, ma anche del suo amore.
Investito dell’autorità di legare e slegare, di rifiutare o accordare l’assoluzione, giovandosi di un’ampia gamma riguardo ai consigli e alla penitenza terapeutica che può dare, il sacerdote-confessore si trova addosso una pesante responsabilità. Tuttavia il suo ruolo è anche limitato. La confessione, come abbiamo detto, è fatta a Dio e non al sacerdote; ed è Dio che dà il perdono. “Io non sono che un testimone”, dice il sacerdote; e, più esplicitamente ancora, secondo la parafrasi di san Tikhon di Zadonsk: “Sono un peccatore, come te”. Se, al momento dell’assoluzione, quando pone la sua mano sulla testa del penitente, il sacerdote si trova in certa misura al posto di Dio, non lo è meno, durante la prima parte dell’azione sacramentale, come un compagno di penitenza, “un peccatore” che ha necessità anche lui del perdono divino. C’è, infatti, una relazione reciproca tra il sacerdote e colui che si confessa: il padre spirituale è aiutato dai figli, come essi lo sono da lui. Il sacerdote-confessore deve così, a sua volta, andare a confessarsi; e quando lo fa, si usa che tolga la croce sacerdotale che porta al collo.
Il ruolo del sacerdote come testimone e compagno di penitenza appare chiaramente nelle modalità esterne del sacramento. Normalmente, il sacerdote non dovrebbe stare seduto quando il penitente si inginocchia, perché ciò lascerebbe intendere che più che testimone egli sia giudice. Durante le preghiere iniziali, prima della confessione vera e propria, il penitente sta in piedi di fronte all’icona di Cristo o all’Evangelo, ed il sacerdote gli sta accanto. Poi, per la confessione vera e propria, il sacerdote e il penitente possono entrambi sedersi (pratica greca) o restare in piedi (pratica russa): in ogni caso, i due fanno la stessa cosa e stanno come su un piano di uguaglianza. Succede che il penitente si inginocchi e che il sacerdote resti in piedi; in questo caso, il sacerdote dovrà chinarsi per ascoltare ciò che viene detto, e questo gesto ha anche il suo significato proprio. Nel corso dell’assoluzione finale, il penitente china la testa – non verso il sacerdote, ma verso l’icona o l’Evangelo, che simbolizzano la presenza invisibile di Cristo, il solo che abbia il potere di rimettere i peccati. La preghiera d’assoluzione indica inequivocabilmente che è Cristo, e non il sacerdote, che accorda il perdono. Nella formula più antica, sempre in uso tra i Greci, il sacerdote non dice “io ti perdono”, ma “che Dio ti perdoni”. Nel XVII sec., sotto l’influenza della Chiesa Cattolica Romana, l’espressione è stata cambiata nei libri slavi e messa alla prima persona: “ (...) ed io, suo sacerdote indegno, per il potere che mi è stato dato, ti perdono…”; tuttavia, per nessun altro sacramento della Chiesa ortodossa, il celebrante utilizza la prima persona nella sua somministrazione. Si ritrova l’antica tradizione nell’uso del perdono reciproco, sempre osservato dai Russi e da altri ortodossi prima di ricevere la comunione: un membro dell’assemblea – o del clero – dice “Perdonami” ad un’altra persona, che gli risponde: “Dio perdona”.
La guarigione che viviamo attraverso il sacramento della confessione assume la forma più specifica di una riconciliazione. Questo è quanto rivela la preghiera di assoluzione: “Non separarlo(la) dalla tua Chiesa, santa, cattolica ed apostolica, ma uniscilo(la) al gregge puro delle tue pecore” (uso greco); “voglia tu riconciliarlo(la) e unirlo(la) alla tua santa Chiesa” (uso russo). Il peccato, come ci insegna la parabola del figlio prodigo, è un esilio, un’alienazione, un’esclusione o meglio un’auto-esclusione dalla famiglia. Come dice Alexei Khomiakov (†1860): “Quando uno di noi cade, cade solo”. Pentirsi significa rientrare a casa, dall’isolamento ritornare alla comunità, essere reintegrato nella propria famiglia.
Il dono delle lacrime, molto presente nel movimento carismatico contemporaneo, ha pure un posto importante nella tradizione spirituale dell’Oriente cristiano. La “teologia delle lacrime” svolge in particolare un ruolo molto significativo nell’insegnamento di san Giovanni Climaco, sant’Isacco il Siro e san Simeone il nuovo Teologo (†1022). Per san Giovanni Climaco, le lacrime rappresentano un rinnovo della grazia del battesimo: “È più grande del battesimo stesso, questa fonte di lacrime che scaturisce dopo il battesimo, per quanto audace possa essere questa affermazione. (...) come riceviamo tutti nell’infanzia il battesimo, successivamente lo macchiamo; ma tramite le lacrime, lo rinnoviamo nella sua purezza iniziale[17]. Sant’Isacco il Siro, da parte sua, considera le lacrime come il limite cruciale tra lo stato “corporeo” e lo stato “spirituale”, come il punto di transizione tra il presente ed il tempo che verrà, nel quale possiamo entrare in anticipo già in questa vita. Venendo al mondo il neonato piange; parimenti, il cristiano piange quando rinasce nel tempo che verrà. San Simeone il nuovo Teologo ritiene che non dovremmo mai ricevere la comunione senza versare lacrime. E secondo il suo discepolo, Nicetas Stethatos, le lacrime possono anche restaurare la verginità persa.
Cosa ci dice questo dono delle lacrime sul significato del pentimento? Ci sono molti tipi di lacrime, ed è essenziale distinguerli. La differenza principale si situa tra le lacrime sensuali e le lacrime spirituali, con tuttavia una terza specie, le lacrime demoniache. Le lacrime sensuali sono emozionali, le lacrime spirituali “ascetiche”. Le prime, frutti della rabbia, della frustrazione, del desiderio, della compassione su di sé o semplicemente dell’eccitazione nervosa, sono generalmente legate alle passioni. Le seconde, come indica il loro nome, non sono il risultato dei nostri sforzi, ma un dono della grazia divina del Santo Spirito; sono dunque strettamente legate alla nostra preghiera. Le lacrime sensuali esprimono la nostra tristezza, terrestre, di vivere come facciamo in un mondo decaduto e corrotto, in costante movimento verso la morte. Le lacrime spirituali ci avviano alla nuova vita della risurrezione.
Secondo i Padri, le lacrime spirituali sono di due ordini. Nel grado più basso, sono amare, una forma di purificazione, l’espressione della contrizione, del rammarico di aver peccato, della pena di essere separati da Dio; è Adamo che si lamenta davanti alle porte del Paradiso, il figlio prodigo, sempre in esilio, che piange la patria perduta. Nel grado più elevato, sono dolci, una forma di illuminazione, espressione della gioia nata dall’amore di Dio, della gratitudine per il ripristino immeritato del nostro stato di “figli”; è il figlio prodigo che piange di gioia alla festa organizzata in suo onore nella casa del Padre. Nel grado inferiore, per parafrasare san Gregorio di Nissa, le lacrime sono come il sangue che scorre dalle ferite del nostro cuore; nel grado superiore, indicano la spiritualizzazione dei sensi e costituiscono un aspetto della trasfigurazione totale della persona umana mediante la grazia deificante.
Questi due tipi di lacrime spirituali non devono tuttavia essere contrapposti in modo troppo netto, poiché l’uno conduce all’altro. Ciò che nasce come lacrime di rammarico per il peccato si trasforma gradualmente in lacrime di gratitudine e di gioia. Nuovamente, in questo dono di lacrime, ritroviamo la dimensione positiva, e non negativa del pentimento: non è distruttivo ma vivificante, non scoraggiante ma pieno di speranza.
Questa è la nostra esperienza della “grande intelligenza” o del “cambiamento dello spirito” che la parola “pentimento” designa. Ricolmo di pena, ma allo stesso tempo pieno di gioia, il pentimento esprime la tensione creatrice che ha sempre impregnato la vita cristiana quaggiù sulla terra e che san Paolo ha descritto in modo così vivo: “Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze della morte di Gesù, affinché la vita di Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro corpo (...); come morenti, eppure viventi; (...) come afflitti, eppure sempre allegri” (2 Corinzi 4, 10; 6, 9-10). Vita di pentimento permanente, la nostra qualità di discepoli di Cristo è una condivisione allo stesso tempo del Getsemani e della Trasfigurazione, della Croce e della Risurrezione. Uno stato interno che san Giovanni Climaco riassume con queste parole: “Colui che ha indossato, come abito nuziale, l’afflizione felice e riempita di grazia, conosce il sorriso spirituale dell’anima”[18].

 
[1] Jean-Claude Guy, Paroles des anciens: Apophtegmes des Pères du Désert, Seuil, 1976, p. 110.
[2] Lucien Regnault, Abba, dis-moi une parole, Solesmes, 1984, pp. 164-165.
[3] “De ceux qui pensent être justifiés”, aph. 71 e “De la pénitence”, I (964B), VI (973C), XI (980D), in Marc le Moine, Traités spirituels et théologiques, Abbaye de Bellefontaine, 1985, pp. 48, 72, 78 et 83.
[4] Recueil ascétique, 16, 130, Abbaye de Bellefontaine, 1985, p. 141.
[5] Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, “50e discours”, Desclée de Brouwer, 1981, p. 276 (testo modificato sulla base della traduzione inglese effettuata direttamente a partire dal siriaco del Monastero della Santa Trasfigurazione, Boston, Massachusetts, 1984, p. 340).
[6] I Metanoia, Atene, 1958.
[7] Pasteur d’Hermas, “Préceptes” IV, 2, 2, in Les Pères apostoliques, Cerf, 1990, p. 395.
[8] Jean Climaque, L’Échelle sainte, IV,1, Abbaye de Bellefontaine, 1987, p. 94.
[9] Monument to Saint Augustine, Ed. T.F. Burns, London, 1930, p.108.
[10] Abba, dis-moi une parole, Solesmes, 1984, p. 119.
[11] Triode de Carême, T.1, Collège grec de Rome, 1978, p. 99.
[12] Op.cit. VII,1, p. 113.
[13] “Office de la Confession”, Grand Euchiologe et Arkhiératikon, Diaconie apostolique, Rome, 1992, p. 48.
[14] Nadejda Gorodetsky, Saint Tikhon of Zadonsk, New York, St. Vladimir’s Seminary Press, 1976, pp. 157-58.
[15] Tito Colliander, Le Chemin des ascètes, Abbaye de Bellefontaine, 1973, p. 68.
[16] Jean Chrysostome, “Sur le repentir”, VII, 3 (PG 49: 327).
[17] L’Échelle sainte, VII, 8, p. 114.
[18] Ibid. VII, 44, p. 119.
 Tratto da Kallistos Ware, Le royaume intérieur,
Éditions Cerf/Sel della Terre, 1993.
Traduzione a cura di © Tradizione Cristiana


Pentitevi perché il regno dei cieli è vicino (Matteo 3, 2; 4, 17). Con queste uguali parole San Giovanni Battista e il nostro Signore Gesù Cristo entrambi cominciano la loro predicazione. Ed è proprio questo il punto di partenza della Buona Notizia: il pentimento. Senza pentimento, non può esserci vita nuova, salvezza, ingresso nel Regno dei cieli.
Passando dalle sacre Scritture ai Padri della Chiesa, troviamo esattamente la stessa verità, ripetuta con insistenza. Interrogato su che cosa faceva nel deserto, Abba Milesio rispose: “Sono un uomo peccatore, e sono venuto a piangere i miei peccati[1]. Il pentimento non è una semplice tappa, un preliminare; prosegue per tutta la vita. Mentre Abba Sisoe giaceva sul suo letto di morte, i discepoli che gli stavano attorno lo videro rivolgersi a qualcuno:«‘Con chi stai parlando, Padre?’, gli chiesero. Rispose: ‘Degli angeli vengono a prendermi, e supplico che mi lascino fare un po’ di penitenza’. Gli anziani gli dissero: ‘Tu non hai bisogno di fare penitenza, Padre’. Ma egli disse loro: ‘Invero, non sono sicuro di avere cominciato a pentirmi’»[2]. Da parte sua, san Marco l’asceta (V-VI sec.) scrive: “Nessuno è migliore né più misericordioso di Dio; ma tuttavia egli non perdonerà chi non farà penitenza. (...) Tutta la diversità dei comandamenti finisce col ridursi ad uno solo, quello del pentimento. (...) Poiché non siamo condannati sul numero dei nostri peccati, ma per non avere voluto pentirci. (...) Sia per i piccoli che per i grandi, il pentimento non finisce fino alla morte[3]. Come dice Abba Isaia di Scete (IV-V sec.): “Invero, nostro Signore Gesù Cristo, sapendo che la malizia del nemico è grande fin dall’origine, ci ha dato il pentimento fino al nostro ultimo respiro. Poiché se non vi fosse il pentimento, nessuno sarebbe salvato[4]. E a sua volta sant’Isacco il Siro (VII sec.) insegna: “Nelle ventiquattro ore del giorno e della notte, ogni instante abbiamo bisogno del pentimento[5].
Il pentimento è essenziale anche per le guide spirituali contemporanee. Così, San Serafim di Sarov (1759-1833) afferma: “Dove non ci sono lacrime, non c’è salvezza”. E padre Serafim Papakostas, capo del movimento greco Zoe dal 1927 al 1954, comincia la sua opera più famosa con queste parole: “In ogni epoca, e soprattutto nella nostra, profondamente ansiosa, stanca ed agitata, nulla è più essenziale del pentimento. Spesso non c’è nulla a cui l’uomo aspira più profondamente; il problema è che non ha un’idea chiara di ciò che veramente vuole[6]. Va notato qui che la preghiera di Gesù, che oggi è molto più praticata che 50 anni fa, è specificamente una preghiera di pentimento: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di mepeccatore”.
Questo ruolo capitale e costante del pentimento nella nostra spiritualità ci interroga, in particolare sul modo in cui presentiamo l’Ortodossia all’Occidente. Perché la nostra tendenza è di sollevare uno solo dei suoi aspetti. Parliamo della gloria della Luce divina in occasione della Trasfigurazione di Cristo, del senso del trionfo della Risurrezione nella notte pasquale, della gioia del Regno, della bellezza spirituale delle icone, della Divina Liturgia simile al paradiso sulla terra. Ed abbiamo ragione di insistere su queste cose. Ma dobbiamo stare attenti a non essere troppo unilaterali. Perché la Trasfigurazione e la Risurrezione sono inscindibili dalla Crocifissione. Come cristiani, siamo effettivamente testimoni della “grandissima gioia” (Matteo 2, 10) dell’Evangelo; ma non dobbiamo dimenticare, come canta la Chiesa nel mattutino della domenica, che è “per mezzo della croce che la gioia è venuta nel mondo intero”. La trasfigurazione cosmica non può essere realizzata se non rinunciando a sé stessi e con il digiuno ascetico.
Ma, in sostanza, cosa si intende per pentimento? Generalmente questa parola evoca il dispiacere di aver peccato, il sentimento di colpevolezza, la sensazione di pena e di orrore di fronte alle ferite che abbiamo inflitto al nostro prossimo e a noi stessi. Tale visione è tuttavia incompleta. Se pena e orrore sono effettivamente elemento essenziale del pentimento, non ne costituiscono però la totalità, e neppure la dimensione più importante. Per avvicinarci al senso profondo del pentimento, occorre una lettura del termine greco: metanoia. Letteralmente “cambiamento dello spirito”: non solamente rammarico per il passato, ma trasformazione fondamentale della nostra prospettiva, un nuovo modo di vedere Dio, gli altri e sé stessi. “Un atto di grande intelligenza[7], come dice il Pastore di Erma (II sec.), e non necessariamente una crisi emozionale. Il pentimento non è un accesso di rimorsi e di compassione di sé, ma conversione, ricentrare la propria vita sulla santa Trinità.
Spirito nuovo”, conversionericentramento, il pentimento è qualcosa di positivo e non di negativo. Come scrive san Giovanni il Climaco (†650 circa): “La penitenza è figlia della speranzae rinuncia alla disperazione[8]. Il pentimento non è scoraggiamento ma attesa ardente; non sentire di essere in un vicolo cieco, ma di avere trovato una via d’uscita; non odio di sé, ma conferma del proprio vero “sé” fatto a immagine di Dio. Pentirsi significa guardare non verso il basso, verso le proprie imperfezioni, ma verso l’alto, verso l’amore di Dio; guardare non in dietro, con i rimproveri che ci si fa, ma in avanti, con fiducia. Significa guardare, non quel che non si è riusciti ad essere ma quel che con la grazia di Cristo si può ancora diventare.
In questo senso, positivo, il pentimento non appare semplicemente come un atto unico, ma come un atteggiamento permanente. Ciascuno, nella sua esperienza personale, può conoscere momenti decisivi di conversione; ma in questa vita, il compito di pentirsi resta sempre incompiuto. Il capovolgimento o ricentramento dell’essere deve essere costantemente rinnovato; secondo l’esempio di Abba Sisoe, il “cambiamento dello spirito” deve, fino al momento della morte, farsi sempre più radicale, “l’atto di grande intelligenza” deve diventare sempre più profondo.
Il carattere positivo del pentimento appare chiaramente nelle parole del profeta Isaia che l’evangelista Matteo cita appena prima dell’invito di Cristo al pentimento: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Isaia 9, 1). Questo è il contesto immediato del richiamo di nostro Signore al pentimento: il suo comandamento è direttamente preceduto da un riferimento alla “grande luce”, che splende su coloro che sono nelle tenebre, e all’imminenza del Regno dei cieli. Il pentimento è, dunque, un’illuminazione, un passaggio dall’oscurità alla luce. Pentirsi è aprire i propri occhi allo splendore divino; non dimorare tristemente nel crepuscolo, ma accogliere l’aurora. Escatologicamente, il pentimento è anche un’apertura alle realtà ultime del tempo che verrà, che non sono semplicemente nel futuro, ma già presenti. Pentirsi significa riconoscere che il Regno dei cieli è in noi, all’opera fra noi; è soltanto nella misura in cui accettiamo l’avvento di questo regno che ogni cosa sarà per noi rinnovata.
Il legame tra pentimento e la venuta della “grande luce” è molto importante. Poiché è impossibile vedere realmente i propri peccati prima di avere la luce di Cristo. Come lo mostra san Teofane il Recluso (1815-1894), fintanto una camera è immersa nell’oscurità, non si osserva la sporcizia; ma se si illumina fortemente, si distingue allora ogni grano di polvere. La stessa cosa vale per la camera della nostra anima. L’ordine delle cose non è di pentirsi all’inizio per prendere in seguito coscienza di Cristo; poiché solo quando la luce di Cristo sarà entrata nella nostra vita noi cominceremo realmente a comprendere il nostro peccato. “Pentimento, dice san Giovanni di Kronstadt (1829-1908), significa sapere che c’è una menzogna nel proprio cuore”; ma non si può individuare la presenza della menzogna senza avere già un certo senso della verità. Per riprendere le parole di E. I. Watkin, “Il peccato (...) è l’ombra gettata dalla luce di Dio quando viene intercettata da ogni attaccamento della volontà che le impedisce di illuminare l’anima. Ma, è la conoscenza di Dio che fa nascere il senso del peccato, e non l’inverso[9]. Come diceva Abba Matoe: “Più l’uomo si avvicina a Dio, più si vede peccatore[10]. Per i Padri del Deserto, nessuno illustra meglio questa legge spirituale del profeta: comincia a vedere il Signore sul suo trono e sente i serafini che gridano Santo, santo, santo!; quindi, dopo questa visione, egli esclama: Ahimè! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure (Isaia 6, 1-5).
Questo è dunque l’inizio del pentimento: una visione di bellezza e non di bruttezza. Una coscienza della gloria di Dio, e non della mia propria miseria. Beati gli afflitti, poiché saranno consolati (Matteo 5, 5): pentimento non significa solo pianti per i nostri peccati ma conforto o “consolazione” che viene dall’assicurazione del perdono divino. La “grande intelligenza” o “il cambiamento dello spirito” che definiscono il pentimento, consistono precisamente in questo: riconoscere che la luce splende nelle tenebre e che le tenebre non possono accogliere (Giovanni 1, 5). Pentirsi, in altre parole, significa riconoscere che c’è il bene ed il male, l’amore l’odio; significa affermare che il bene è più forte del male, credere alla vittoria ultima dell’amore. Penitente è colui che accetta il miracolo che Dio ha realmente il potere di perdonare i peccati. E nella misura in cui accetta questo miracolo, il passato perde per lui il suo carattere irreversibile e non è più un fardello intollerabile. Il perdono divino rompe la catena causa ed effetto, e slega i nodi che l’uomo ha nel cuore e che non è capace di sciogliere da solo.
Molti sono coloro che si sentono tristi a causa delle loro azioni passate, ma che nella disperazione dicono: “Non posso perdonarmi per ciò che ho fatto”. Incapaci di perdonarsi, sono anche incapaci di credere che Dio e altri uomini abbiano perdonato loro. Queste persone, nonostante l’intensità della loro angoscia, non hanno ancora iniziato a pentirsi. Non hanno ancora raggiunto la “grande intelligenza” con la quale un uomo sa che l’amore è vittorioso. Non sono ancora passate attraverso quel “cambiamento dello spirito” che consiste nel dire: Sono accettato da Dio; ciò che mi viene chiesto, è accettare il fatto di essere accettato. Si trova là l’essenza del pentimento.
La vera natura, positiva ed illuminante, del pentimento si manifesta in modo molto evidente nella vita della Chiesa, attraverso in particolare tre espressioni caratteristiche: liturgica per il periodo della Grande Quaresima, sacramentale nella confessione, personale nel dono delle lacrime.
Nulla più del periodo dell’anno in cui si svolge la Grande Quaresima è emblematico del pentimento: non in autunno, nella nebbia e le foglie che cadono; non in inverno, quando la terra è morta e congelata; ma in primavera, quando le brinate finiscono, i giorni si allungano e tutta la natura si sveglia alla vita. Come canta la Chiesa il mercoledì che precede l’inizio della Grande Quaresima, ai vespri: “La primavera della Quaresima si è levata e con essa il fiore del pentimento; fratelli, purifichiamoci da ogni peccato e cantiamo per la nostra Fonte di purezza; diciamogli: Amico degli uomini, gloria a te[11]. Il tempo del pentimento, che caratterizza la Quaresima, è un tempo di gioia, non di abbattimento. Il digiuno è una primavera spirituale, il pentimento un fiore che sboccia e Cristo si presenta a noi nella Quaresima come “donatore di luce”. Per riprendere l’espressione di san Giovanni Climaco, la pena che sentiamo durante la Quaresima è un’“afflizione che produce la gioia[12].
L’esperienza del pentimento è vissuta con una forza tutta particolare nel sacramento della confessione. Il senso di questo “mistero” viene riassunto molto bene nella breve esortazione che nel rito russo il sacerdote indirizza al penitente: “Ecco, figlio mio, Cristo è presente in modo invisibile per ricevere la tua confessioneNon avere vergogna, non temere e non nascondere nulla; ma, senza esitazione, dimmi tutto ciò che hai fatto, per ricevere il perdono di nostro signore Gesù CristoEcco dinanzi a noi la sua icona; io, non sono che un testimoneper rendere testimonianza davanti a lui di tutto ciò che mi avrai detto. Se mi nascondi qualcosa, porterai doppio peccato. Vigila dunque, giacché sei venuto(a) dal medicoa non lasciarlo senza essere guarito(a)”[13].
Parafrasando questa esortazione, san Tikhon di Zadonsk (1724-1783) scrive: “Quando dà indicazioni sul sacramento della penitenza, il sacerdote dovrebbe parlare al penitente così: figlio mio, ti confessi a Dio, che non è contento di qualunque peccato; ed io, suo servo, sono testimone indegno del tuo pentimento. Non nascondere nulla, non avere né vergogna né timore, poiché qui siamo soltanto noi tre, tu, io, e Diodinanzi al quale hai peccato, che conosce tutti i tuoi peccati e sa come li hai commessi. Dio è ovunque e ovunque tu abbia detto, pensato o fatto qualcosa di male, era là e sapeva tutto; ed ora è qui con noi, che aspetta parole di pentimento e di confessione. Anche tu conosci tutti i tuoi peccati: non avere vergogna di parlare di tutto ciò che hai commesso. Ed io che sono qui, sono un peccatore come teperciò, non avere vergogna di confessare i tuoi peccati in mia presenza[14].
Il sacerdote dice: “Giacché sei venuto(a) dal medico”. Nella confessione, dobbiamo vedere il Cristo-giudice, che ci libera dalla sentenza di condanna; ma dobbiamo vedere anche il Cristo-medico, che risana ciò che è stato rotto e rinnova la vita. Il sacramento non deve essere visto soltanto in termini giuridici, ma anche curativi. Sopratutto, la confessione è un sacramento di guarigione. Fatto notevole a questo proposito, in alcuni commenti liturgici bizantini, confessione e unzione degli ammalati, vengono considerati non come due sacramenti distinti ma come aspetti complementari di un solo e stesso “mistero” di guarigione. Ciò che cerchiamo nella confessione, è ben più di un’assoluzione esterna, legalista; soprattutto la guarigione delle nostre profonde ferite spirituali. Noi portiamo davanti a Cristo non soltanto peccati specifici, ma pure la realtà del peccato in noi, cioè una corruzione profonda della nostra natura che non può essere espressa completamente con le parole, che sembra sfuggire alla nostra coscienza ed alla nostra volontà. È di questo soprattutto che chiediamo di essere guariti. Come sacramento di guarigione, la confessione non è assolutamente una necessità penosa, una disciplina che ci impongono le autorità della Chiesa, ma un’azione piena di gioia e di grazia salvatrice. Con la confessione, impariamo che Dio è realmente “la speranza dei disperati”, come dice la Liturgia di san Basilio.
Qui, siamo solo noi tre” – il sacerdote, il penitente e Cristo medico. Cosa fa ciascuna di queste tre persone? L’azione di chi, è la più importante? Molti tendono a mettere l’accento soprattutto su ciò che il sacerdote fa, sui suoi consigli ed i suoi incoraggiamenti; e se il sacerdote non dice nulla di eloquente o di inatteso, pensano che poco, o nulla, sia stato compiuto. Oppure sopravvalutano il secondo aspetto, ciò che essi stessi fanno. Immaginano che debbano essere profondamente sconvolti, sul piano emotivo, anche se, come abbiamo detto, il pentimento non è innanzitutto questione di emozione. E poiché mettono l’accento principale sui loro sforzi, vedono la confessione sotto una luce triste e scoraggiante, un po’ come una doccia fredda, una cosa necessaria ma sgradevole da portare a termine al più presto. Eppure, l’azione più importante in realtà non è quella del penitente o del sacerdote ma quella di Dio. Il penitente, anche se gli si chiede di prepararsi con un meticoloso esame di coscienza, in ultima analisi, arriva alla confessione a mani vuote, impotente, senza pretendere di essere capace di guarirsi, ma chiedendo ad un altro di guarirlo. E quest’altro, di cui invoca l’aiuto, non è il sacerdote ma Dio. Il sacerdote non è che “l’usciere di Dio”, che introduce il penitente alla presenza divina; egli non è, per prolungare la metafora medica, che il receptionist nella sala d’attesa. La confessione è fatta a Cristo, e non al sacerdote: “Cristo è presente in modo invisibile per ricevere la tua confessione”; è da Cristo, e non dal sacerdote che viene il perdono: “per ricevere il perdono del nostro Signore Gesù Cristo”.
A partire dal momento in cui vediamo la confessione, fondamentalmente, come un’azione di Cristo piuttosto che come nostra, il sacramento del pentimento appare sotto una luce molto più positiva. Non è più semplicemente l’esperienza della nostra disintegrazione e debolezza, ma quella dell’amore e del perdono curativi di Dio. Dobbiamo vedere non soltanto il figlio prodigo, che cammina lentamente e pesantemente sulla lunga strada del ritorno a casa, ma anche il padre che lo scorge da lontano e che gli corre incontro (Luca 15, 20). Come scrive Tito Colliander: “Se noi facciamo un passo verso DioEgli ne farà dieci verso noi[15]. È precisamente ciò che viviamo nella confessione. Come tutti i sacramenti, la confessione è un’azione divino-umana, nella quale c’è una convergenza ed una “cooperazione” tra la grazia di Dio e la nostra libera volontà. Entrambe sono necessarie; ma ciò che Dio fa è di gran lunga più importante.
Il pentimento e la confessione non sono dunque semplicemente qualcosa che facciamo da noi stessi o con l’aiuto del sacerdote, ma qualcosa che Dio fa con noi e in noi. Come dice san Giovanni Crisostomo (IV sec.), “Amministriamo il rimedio salvatore del pentimento; accettiamo da Dio il pentimento che ci guarisce. Poiché non siamo noi che gliel’offriamo, ma lui che ce lo da”[16]. Occorre qui ricordare che in greco la parola exomologesis significa allo stesso tempo la confessione dei peccati e l’azione di grazia per i doni ricevuti.
Quale è, più precisamente, la parte del sacerdote in questa sinergia? Da un certo punto di vista, il suo potere è molto ampio. Tutti coloro che hanno avuto la benedizione di avere per confessore una persona dotata del vero carisma della paternità spirituale, testimonieranno l’importanza del ruolo del sacerdote. La sua funzione non è semplicemente di dare consigli. La sua assoluzione non ha nulla di automatico. Può legare come slegare. Può rifiutare l’assoluzione – anche se è molto raro – o imporre una penitenza, proibendo ad esempio al fedele di comunicarsi per un certo tempo o chiedendogli di eseguire un certo compito. Anche se non è molto frequente nella pratica ortodossa contemporanea, non è meno importante ricordarsi che il sacerdote possiede questo diritto.
Nella Chiesa dei primi secoli, le penitenze erano spesso severe. Per la fornicazione, san Basilio il Grande (IV sec.) prescriveva sette anni di esclusione dalla santa comunione e san Gregorio di Nissa (IV sec.) nove anni; nella legislazione canonica successiva, attribuita a san Giovanni il Digiunatore, la pena fu ridotta a due anni con un digiuno rigoroso. Per un omicidio involontario – ad esempio, oggi, uccidere qualcuno in un incidente automobilistico – san Basilio imponeva dieci o undici anni di scomunica e san Gregorio nove anni; ma se il penitente si impone un rigoroso digiuno, san Giovanni il Digiunatore autorizzava la riduzione di questa pena a tre anni. Poi i genitori che lasciano morire il figlio non battezzato, venivano privati della comunione per tre anni.
Detto questo, già allora, il vescovo o il sacerdote-confessore aveva la possibilità di modificare queste penitenze in rapporto alla situazione particolare di ciascuno, secondo i principi dell’“economia” o elasticità pastorale. Oggi sarebbe proprio eccezionale applicare i canoni in tutto il loro rigore; un’ampia parte di “economia” è normale. Ma il principio rimane: il sacerdote è responsabile dinanzi a Dio del suo modo di amministrare il sacramento e conserva il potere d’imporre una penitenza che può implicare, se necessario, un periodo di scomunica. Ad esempio, nella Chiesa greca in Europa occidentale, si usa che una donna che abbia abortito venga esclusa per un anno dalla comunione – i vecchi canoni prevedevano un periodo molto più lungo. In tal caso, il sacerdote può anche proporre una forma più attiva di penitenza: “Poiché hai negato la vita, può dire, ora affermala, ad esempio facendo volontariato in una casa per bambini paralizzati nei prossimi dodici mesi per quattro ore a settimana”.
La penitenza non deve essere considerata una punizione ed ancora meno come un’espiazione. La salvezza è un dono libero della grazia. Non possiamo mai cancellare il nostro peccato con i nostri sforzi: Cristo, unico mediatore, è la nostra sola riparazione; o ci perdona gratuitamente, o non siamo affatto perdonati. Noi non acquisiamo “meriti” compiendo una penitenza, poiché, in rapporto a Dio, l’uomo non può mai rivendicare alcun merito personale. Qui, come sempre, dovremmo pensare dapprima in termini terapeutici piuttosto che giuridici. Una penitenza non è una punizione, né una forma di espiazione, ma un mezzo di guarigione. È una medicina. Se la confessione sincera è paragonabile ad un’operazione, la penitenza è il ricostituente che ridà la salute al paziente durante la convalescenza. La penitenza dunque, come la confessione completa, è essenzialmente positiva nel suo scopo: non innalza una barriera tra il peccatore e Dio ma serve da ponte tra i due. “Considera dunque la bontà e la severità di Dio”, dice san Paolo (Romani 11, 22): la penitenza è un’espressione non soltanto della severità di Dio, ma anche del suo amore.
Investito dell’autorità di legare e slegare, di rifiutare o accordare l’assoluzione, giovandosi di un’ampia gamma riguardo ai consigli e alla penitenza terapeutica che può dare, il sacerdote-confessore si trova addosso una pesante responsabilità. Tuttavia il suo ruolo è anche limitato. La confessione, come abbiamo detto, è fatta a Dio e non al sacerdote; ed è Dio che dà il perdono. “Io non sono che un testimone”, dice il sacerdote; e, più esplicitamente ancora, secondo la parafrasi di san Tikhon di Zadonsk: “Sono un peccatore, come te”. Se, al momento dell’assoluzione, quando pone la sua mano sulla testa del penitente, il sacerdote si trova in certa misura al posto di Dio, non lo è meno, durante la prima parte dell’azione sacramentale, come un compagno di penitenza, “un peccatore” che ha necessità anche lui del perdono divino. C’è, infatti, una relazione reciproca tra il sacerdote e colui che si confessa: il padre spirituale è aiutato dai figli, come essi lo sono da lui. Il sacerdote-confessore deve così, a sua volta, andare a confessarsi; e quando lo fa, si usa che tolga la croce sacerdotale che porta al collo.
Il ruolo del sacerdote come testimone e compagno di penitenza appare chiaramente nelle modalità esterne del sacramento. Normalmente, il sacerdote non dovrebbe stare seduto quando il penitente si inginocchia, perché ciò lascerebbe intendere che più che testimone egli sia giudice. Durante le preghiere iniziali, prima della confessione vera e propria, il penitente sta in piedi di fronte all’icona di Cristo o all’Evangelo, ed il sacerdote gli sta accanto. Poi, per la confessione vera e propria, il sacerdote e il penitente possono entrambi sedersi (pratica greca) o restare in piedi (pratica russa): in ogni caso, i due fanno la stessa cosa e stanno come su un piano di uguaglianza. Succede che il penitente si inginocchi e che il sacerdote resti in piedi; in questo caso, il sacerdote dovrà chinarsi per ascoltare ciò che viene detto, e questo gesto ha anche il suo significato proprio. Nel corso dell’assoluzione finale, il penitente china la testa – non verso il sacerdote, ma verso l’icona o l’Evangelo, che simbolizzano la presenza invisibile di Cristo, il solo che abbia il potere di rimettere i peccati. La preghiera d’assoluzione indica inequivocabilmente che è Cristo, e non il sacerdote, che accorda il perdono. Nella formula più antica, sempre in uso tra i Greci, il sacerdote non dice “io ti perdono”, ma “che Dio ti perdoni”. Nel XVII sec., sotto l’influenza della Chiesa Cattolica Romana, l’espressione è stata cambiata nei libri slavi e messa alla prima persona: “ (...) ed io, suo sacerdote indegno, per il potere che mi è stato dato, ti perdono…”; tuttavia, per nessun altro sacramento della Chiesa ortodossa, il celebrante utilizza la prima persona nella sua somministrazione. Si ritrova l’antica tradizione nell’uso del perdono reciproco, sempre osservato dai Russi e da altri ortodossi prima di ricevere la comunione: un membro dell’assemblea – o del clero – dice “Perdonami” ad un’altra persona, che gli risponde: “Dio perdona”.
La guarigione che viviamo attraverso il sacramento della confessione assume la forma più specifica di una riconciliazione. Questo è quanto rivela la preghiera di assoluzione: “Non separarlo(la) dalla tua Chiesa, santa, cattolica ed apostolica, ma uniscilo(la) al gregge puro delle tue pecore” (uso greco); “voglia tu riconciliarlo(la) e unirlo(la) alla tua santa Chiesa” (uso russo). Il peccato, come ci insegna la parabola del figlio prodigo, è un esilio, un’alienazione, un’esclusione o meglio un’auto-esclusione dalla famiglia. Come dice Alexei Khomiakov (†1860): “Quando uno di noi cade, cade solo”. Pentirsi significa rientrare a casa, dall’isolamento ritornare alla comunità, essere reintegrato nella propria famiglia.
Il dono delle lacrime, molto presente nel movimento carismatico contemporaneo, ha pure un posto importante nella tradizione spirituale dell’Oriente cristiano. La “teologia delle lacrime” svolge in particolare un ruolo molto significativo nell’insegnamento di san Giovanni Climaco, sant’Isacco il Siro e san Simeone il nuovo Teologo (†1022). Per san Giovanni Climaco, le lacrime rappresentano un rinnovo della grazia del battesimo: “È più grande del battesimo stesso, questa fonte di lacrime che scaturisce dopo il battesimo, per quanto audace possa essere questa affermazione. (...) come riceviamo tutti nell’infanzia il battesimo, successivamente lo macchiamo; ma tramite le lacrime, lo rinnoviamo nella sua purezza iniziale[17]. Sant’Isacco il Siro, da parte sua, considera le lacrime come il limite cruciale tra lo stato “corporeo” e lo stato “spirituale”, come il punto di transizione tra il presente ed il tempo che verrà, nel quale possiamo entrare in anticipo già in questa vita. Venendo al mondo il neonato piange; parimenti, il cristiano piange quando rinasce nel tempo che verrà. San Simeone il nuovo Teologo ritiene che non dovremmo mai ricevere la comunione senza versare lacrime. E secondo il suo discepolo, Nicetas Stethatos, le lacrime possono anche restaurare la verginità persa.
Cosa ci dice questo dono delle lacrime sul significato del pentimento? Ci sono molti tipi di lacrime, ed è essenziale distinguerli. La differenza principale si situa tra le lacrime sensuali e le lacrime spirituali, con tuttavia una terza specie, le lacrime demoniache. Le lacrime sensuali sono emozionali, le lacrime spirituali “ascetiche”. Le prime, frutti della rabbia, della frustrazione, del desiderio, della compassione su di sé o semplicemente dell’eccitazione nervosa, sono generalmente legate alle passioni. Le seconde, come indica il loro nome, non sono il risultato dei nostri sforzi, ma un dono della grazia divina del Santo Spirito; sono dunque strettamente legate alla nostra preghiera. Le lacrime sensuali esprimono la nostra tristezza, terrestre, di vivere come facciamo in un mondo decaduto e corrotto, in costante movimento verso la morte. Le lacrime spirituali ci avviano alla nuova vita della risurrezione.
Secondo i Padri, le lacrime spirituali sono di due ordini. Nel grado più basso, sono amare, una forma di purificazione, l’espressione della contrizione, del rammarico di aver peccato, della pena di essere separati da Dio; è Adamo che si lamenta davanti alle porte del Paradiso, il figlio prodigo, sempre in esilio, che piange la patria perduta. Nel grado più elevato, sono dolci, una forma di illuminazione, espressione della gioia nata dall’amore di Dio, della gratitudine per il ripristino immeritato del nostro stato di “figli”; è il figlio prodigo che piange di gioia alla festa organizzata in suo onore nella casa del Padre. Nel grado inferiore, per parafrasare san Gregorio di Nissa, le lacrime sono come il sangue che scorre dalle ferite del nostro cuore; nel grado superiore, indicano la spiritualizzazione dei sensi e costituiscono un aspetto della trasfigurazione totale della persona umana mediante la grazia deificante.
Questi due tipi di lacrime spirituali non devono tuttavia essere contrapposti in modo troppo netto, poiché l’uno conduce all’altro. Ciò che nasce come lacrime di rammarico per il peccato si trasforma gradualmente in lacrime di gratitudine e di gioia. Nuovamente, in questo dono di lacrime, ritroviamo la dimensione positiva, e non negativa del pentimento: non è distruttivo ma vivificante, non scoraggiante ma pieno di speranza.
Questa è la nostra esperienza della “grande intelligenza” o del “cambiamento dello spirito” che la parola “pentimento” designa. Ricolmo di pena, ma allo stesso tempo pieno di gioia, il pentimento esprime la tensione creatrice che ha sempre impregnato la vita cristiana quaggiù sulla terra e che san Paolo ha descritto in modo così vivo: “Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze della morte di Gesù, affinché la vita di Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro corpo (...); come morenti, eppure viventi; (...) come afflitti, eppure sempre allegri” (2 Corinzi 4, 10; 6, 9-10). Vita di pentimento permanente, la nostra qualità di discepoli di Cristo è una condivisione allo stesso tempo del Getsemani e della Trasfigurazione, della Croce e della Risurrezione. Uno stato interno che san Giovanni Climaco riassume con queste parole: “Colui che ha indossato, come abito nuziale, l’afflizione felice e riempita di grazia, conosce il sorriso spirituale dell’anima”[18].

 
[1] Jean-Claude Guy, Paroles des anciens: Apophtegmes des Pères du Désert, Seuil, 1976, p. 110.
[2] Lucien Regnault, Abba, dis-moi une parole, Solesmes, 1984, pp. 164-165.
[3] “De ceux qui pensent être justifiés”, aph. 71 e “De la pénitence”, I (964B), VI (973C), XI (980D), in Marc le Moine, Traités spirituels et théologiques, Abbaye de Bellefontaine, 1985, pp. 48, 72, 78 et 83.
[4] Recueil ascétique, 16, 130, Abbaye de Bellefontaine, 1985, p. 141.
[5] Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, “50e discours”, Desclée de Brouwer, 1981, p. 276 (testo modificato sulla base della traduzione inglese effettuata direttamente a partire dal siriaco del Monastero della Santa Trasfigurazione, Boston, Massachusetts, 1984, p. 340).
[6] I Metanoia, Atene, 1958.
[7] Pasteur d’Hermas, “Préceptes” IV, 2, 2, in Les Pères apostoliques, Cerf, 1990, p. 395.
[8] Jean Climaque, L’Échelle sainte, IV,1, Abbaye de Bellefontaine, 1987, p. 94.
[9] Monument to Saint Augustine, Ed. T.F. Burns, London, 1930, p.108.
[10] Abba, dis-moi une parole, Solesmes, 1984, p. 119.
[11] Triode de Carême, T.1, Collège grec de Rome, 1978, p. 99.
[12] Op.cit. VII,1, p. 113.
[13] “Office de la Confession”, Grand Euchiologe et Arkhiératikon, Diaconie apostolique, Rome, 1992, p. 48.
[14] Nadejda Gorodetsky, Saint Tikhon of Zadonsk, New York, St. Vladimir’s Seminary Press, 1976, pp. 157-58.
[15] Tito Colliander, Le Chemin des ascètes, Abbaye de Bellefontaine, 1973, p. 68.
[16] Jean Chrysostome, “Sur le repentir”, VII, 3 (PG 49: 327).
[17] L’Échelle sainte, VII, 8, p. 114.
[18] Ibid. VII, 44, p. 119.
 Tratto da Kallistos Ware, Le royaume intérieur,
Éditions Cerf/Sel della Terre, 1993.
Traduzione a cura di © Tradizione Cristiana


Pentitevi perché il regno dei cieli è vicino (Matteo 3, 2; 4, 17). Con queste uguali parole San Giovanni Battista e il nostro Signore Gesù Cristo entrambi cominciano la loro predicazione. Ed è proprio questo il punto di partenza della Buona Notizia: il pentimento. Senza pentimento, non può esserci vita nuova, salvezza, ingresso nel Regno dei cieli.
Passando dalle sacre Scritture ai Padri della Chiesa, troviamo esattamente la stessa verità, ripetuta con insistenza. Interrogato su che cosa faceva nel deserto, Abba Milesio rispose: “Sono un uomo peccatore, e sono venuto a piangere i miei peccati[1]. Il pentimento non è una semplice tappa, un preliminare; prosegue per tutta la vita. Mentre Abba Sisoe giaceva sul suo letto di morte, i discepoli che gli stavano attorno lo videro rivolgersi a qualcuno:«‘Con chi stai parlando, Padre?’, gli chiesero. Rispose: ‘Degli angeli vengono a prendermi, e supplico che mi lascino fare un po’ di penitenza’. Gli anziani gli dissero: ‘Tu non hai bisogno di fare penitenza, Padre’. Ma egli disse loro: ‘Invero, non sono sicuro di avere cominciato a pentirmi’»[2]. Da parte sua, san Marco l’asceta (V-VI sec.) scrive: “Nessuno è migliore né più misericordioso di Dio; ma tuttavia egli non perdonerà chi non farà penitenza. (...) Tutta la diversità dei comandamenti finisce col ridursi ad uno solo, quello del pentimento. (...) Poiché non siamo condannati sul numero dei nostri peccati, ma per non avere voluto pentirci. (...) Sia per i piccoli che per i grandi, il pentimento non finisce fino alla morte[3]. Come dice Abba Isaia di Scete (IV-V sec.): “Invero, nostro Signore Gesù Cristo, sapendo che la malizia del nemico è grande fin dall’origine, ci ha dato il pentimento fino al nostro ultimo respiro. Poiché se non vi fosse il pentimento, nessuno sarebbe salvato[4]. E a sua volta sant’Isacco il Siro (VII sec.) insegna: “Nelle ventiquattro ore del giorno e della notte, ogni instante abbiamo bisogno del pentimento[5].
Il pentimento è essenziale anche per le guide spirituali contemporanee. Così, San Serafim di Sarov (1759-1833) afferma: “Dove non ci sono lacrime, non c’è salvezza”. E padre Serafim Papakostas, capo del movimento greco Zoe dal 1927 al 1954, comincia la sua opera più famosa con queste parole: “In ogni epoca, e soprattutto nella nostra, profondamente ansiosa, stanca ed agitata, nulla è più essenziale del pentimento. Spesso non c’è nulla a cui l’uomo aspira più profondamente; il problema è che non ha un’idea chiara di ciò che veramente vuole[6]. Va notato qui che la preghiera di Gesù, che oggi è molto più praticata che 50 anni fa, è specificamente una preghiera di pentimento: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di mepeccatore”.
Questo ruolo capitale e costante del pentimento nella nostra spiritualità ci interroga, in particolare sul modo in cui presentiamo l’Ortodossia all’Occidente. Perché la nostra tendenza è di sollevare uno solo dei suoi aspetti. Parliamo della gloria della Luce divina in occasione della Trasfigurazione di Cristo, del senso del trionfo della Risurrezione nella notte pasquale, della gioia del Regno, della bellezza spirituale delle icone, della Divina Liturgia simile al paradiso sulla terra. Ed abbiamo ragione di insistere su queste cose. Ma dobbiamo stare attenti a non essere troppo unilaterali. Perché la Trasfigurazione e la Risurrezione sono inscindibili dalla Crocifissione. Come cristiani, siamo effettivamente testimoni della “grandissima gioia” (Matteo 2, 10) dell’Evangelo; ma non dobbiamo dimenticare, come canta la Chiesa nel mattutino della domenica, che è “per mezzo della croce che la gioia è venuta nel mondo intero”. La trasfigurazione cosmica non può essere realizzata se non rinunciando a sé stessi e con il digiuno ascetico.
Ma, in sostanza, cosa si intende per pentimento? Generalmente questa parola evoca il dispiacere di aver peccato, il sentimento di colpevolezza, la sensazione di pena e di orrore di fronte alle ferite che abbiamo inflitto al nostro prossimo e a noi stessi. Tale visione è tuttavia incompleta. Se pena e orrore sono effettivamente elemento essenziale del pentimento, non ne costituiscono però la totalità, e neppure la dimensione più importante. Per avvicinarci al senso profondo del pentimento, occorre una lettura del termine greco: metanoia. Letteralmente “cambiamento dello spirito”: non solamente rammarico per il passato, ma trasformazione fondamentale della nostra prospettiva, un nuovo modo di vedere Dio, gli altri e sé stessi. “Un atto di grande intelligenza[7], come dice il Pastore di Erma (II sec.), e non necessariamente una crisi emozionale. Il pentimento non è un accesso di rimorsi e di compassione di sé, ma conversione, ricentrare la propria vita sulla santa Trinità.
Spirito nuovo”, conversionericentramento, il pentimento è qualcosa di positivo e non di negativo. Come scrive san Giovanni il Climaco (†650 circa): “La penitenza è figlia della speranzae rinuncia alla disperazione[8]. Il pentimento non è scoraggiamento ma attesa ardente; non sentire di essere in un vicolo cieco, ma di avere trovato una via d’uscita; non odio di sé, ma conferma del proprio vero “sé” fatto a immagine di Dio. Pentirsi significa guardare non verso il basso, verso le proprie imperfezioni, ma verso l’alto, verso l’amore di Dio; guardare non in dietro, con i rimproveri che ci si fa, ma in avanti, con fiducia. Significa guardare, non quel che non si è riusciti ad essere ma quel che con la grazia di Cristo si può ancora diventare.
In questo senso, positivo, il pentimento non appare semplicemente come un atto unico, ma come un atteggiamento permanente. Ciascuno, nella sua esperienza personale, può conoscere momenti decisivi di conversione; ma in questa vita, il compito di pentirsi resta sempre incompiuto. Il capovolgimento o ricentramento dell’essere deve essere costantemente rinnovato; secondo l’esempio di Abba Sisoe, il “cambiamento dello spirito” deve, fino al momento della morte, farsi sempre più radicale, “l’atto di grande intelligenza” deve diventare sempre più profondo.
Il carattere positivo del pentimento appare chiaramente nelle parole del profeta Isaia che l’evangelista Matteo cita appena prima dell’invito di Cristo al pentimento: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Isaia 9, 1). Questo è il contesto immediato del richiamo di nostro Signore al pentimento: il suo comandamento è direttamente preceduto da un riferimento alla “grande luce”, che splende su coloro che sono nelle tenebre, e all’imminenza del Regno dei cieli. Il pentimento è, dunque, un’illuminazione, un passaggio dall’oscurità alla luce. Pentirsi è aprire i propri occhi allo splendore divino; non dimorare tristemente nel crepuscolo, ma accogliere l’aurora. Escatologicamente, il pentimento è anche un’apertura alle realtà ultime del tempo che verrà, che non sono semplicemente nel futuro, ma già presenti. Pentirsi significa riconoscere che il Regno dei cieli è in noi, all’opera fra noi; è soltanto nella misura in cui accettiamo l’avvento di questo regno che ogni cosa sarà per noi rinnovata.
Il legame tra pentimento e la venuta della “grande luce” è molto importante. Poiché è impossibile vedere realmente i propri peccati prima di avere la luce di Cristo. Come lo mostra san Teofane il Recluso (1815-1894), fintanto una camera è immersa nell’oscurità, non si osserva la sporcizia; ma se si illumina fortemente, si distingue allora ogni grano di polvere. La stessa cosa vale per la camera della nostra anima. L’ordine delle cose non è di pentirsi all’inizio per prendere in seguito coscienza di Cristo; poiché solo quando la luce di Cristo sarà entrata nella nostra vita noi cominceremo realmente a comprendere il nostro peccato. “Pentimento, dice san Giovanni di Kronstadt (1829-1908), significa sapere che c’è una menzogna nel proprio cuore”; ma non si può individuare la presenza della menzogna senza avere già un certo senso della verità. Per riprendere le parole di E. I. Watkin, “Il peccato (...) è l’ombra gettata dalla luce di Dio quando viene intercettata da ogni attaccamento della volontà che le impedisce di illuminare l’anima. Ma, è la conoscenza di Dio che fa nascere il senso del peccato, e non l’inverso[9]. Come diceva Abba Matoe: “Più l’uomo si avvicina a Dio, più si vede peccatore[10]. Per i Padri del Deserto, nessuno illustra meglio questa legge spirituale del profeta: comincia a vedere il Signore sul suo trono e sente i serafini che gridano Santo, santo, santo!; quindi, dopo questa visione, egli esclama: Ahimè! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure (Isaia 6, 1-5).
Questo è dunque l’inizio del pentimento: una visione di bellezza e non di bruttezza. Una coscienza della gloria di Dio, e non della mia propria miseria. Beati gli afflitti, poiché saranno consolati (Matteo 5, 5): pentimento non significa solo pianti per i nostri peccati ma conforto o “consolazione” che viene dall’assicurazione del perdono divino. La “grande intelligenza” o “il cambiamento dello spirito” che definiscono il pentimento, consistono precisamente in questo: riconoscere che la luce splende nelle tenebre e che le tenebre non possono accogliere (Giovanni 1, 5). Pentirsi, in altre parole, significa riconoscere che c’è il bene ed il male, l’amore l’odio; significa affermare che il bene è più forte del male, credere alla vittoria ultima dell’amore. Penitente è colui che accetta il miracolo che Dio ha realmente il potere di perdonare i peccati. E nella misura in cui accetta questo miracolo, il passato perde per lui il suo carattere irreversibile e non è più un fardello intollerabile. Il perdono divino rompe la catena causa ed effetto, e slega i nodi che l’uomo ha nel cuore e che non è capace di sciogliere da solo.
Molti sono coloro che si sentono tristi a causa delle loro azioni passate, ma che nella disperazione dicono: “Non posso perdonarmi per ciò che ho fatto”. Incapaci di perdonarsi, sono anche incapaci di credere che Dio e altri uomini abbiano perdonato loro. Queste persone, nonostante l’intensità della loro angoscia, non hanno ancora iniziato a pentirsi. Non hanno ancora raggiunto la “grande intelligenza” con la quale un uomo sa che l’amore è vittorioso. Non sono ancora passate attraverso quel “cambiamento dello spirito” che consiste nel dire: Sono accettato da Dio; ciò che mi viene chiesto, è accettare il fatto di essere accettato. Si trova là l’essenza del pentimento.
La vera natura, positiva ed illuminante, del pentimento si manifesta in modo molto evidente nella vita della Chiesa, attraverso in particolare tre espressioni caratteristiche: liturgica per il periodo della Grande Quaresima, sacramentale nella confessione, personale nel dono delle lacrime.
Nulla più del periodo dell’anno in cui si svolge la Grande Quaresima è emblematico del pentimento: non in autunno, nella nebbia e le foglie che cadono; non in inverno, quando la terra è morta e congelata; ma in primavera, quando le brinate finiscono, i giorni si allungano e tutta la natura si sveglia alla vita. Come canta la Chiesa il mercoledì che precede l’inizio della Grande Quaresima, ai vespri: “La primavera della Quaresima si è levata e con essa il fiore del pentimento; fratelli, purifichiamoci da ogni peccato e cantiamo per la nostra Fonte di purezza; diciamogli: Amico degli uomini, gloria a te[11]. Il tempo del pentimento, che caratterizza la Quaresima, è un tempo di gioia, non di abbattimento. Il digiuno è una primavera spirituale, il pentimento un fiore che sboccia e Cristo si presenta a noi nella Quaresima come “donatore di luce”. Per riprendere l’espressione di san Giovanni Climaco, la pena che sentiamo durante la Quaresima è un’“afflizione che produce la gioia[12].
L’esperienza del pentimento è vissuta con una forza tutta particolare nel sacramento della confessione. Il senso di questo “mistero” viene riassunto molto bene nella breve esortazione che nel rito russo il sacerdote indirizza al penitente: “Ecco, figlio mio, Cristo è presente in modo invisibile per ricevere la tua confessioneNon avere vergogna, non temere e non nascondere nulla; ma, senza esitazione, dimmi tutto ciò che hai fatto, per ricevere il perdono di nostro signore Gesù CristoEcco dinanzi a noi la sua icona; io, non sono che un testimoneper rendere testimonianza davanti a lui di tutto ciò che mi avrai detto. Se mi nascondi qualcosa, porterai doppio peccato. Vigila dunque, giacché sei venuto(a) dal medicoa non lasciarlo senza essere guarito(a)”[13].
Parafrasando questa esortazione, san Tikhon di Zadonsk (1724-1783) scrive: “Quando dà indicazioni sul sacramento della penitenza, il sacerdote dovrebbe parlare al penitente così: figlio mio, ti confessi a Dio, che non è contento di qualunque peccato; ed io, suo servo, sono testimone indegno del tuo pentimento. Non nascondere nulla, non avere né vergogna né timore, poiché qui siamo soltanto noi tre, tu, io, e Diodinanzi al quale hai peccato, che conosce tutti i tuoi peccati e sa come li hai commessi. Dio è ovunque e ovunque tu abbia detto, pensato o fatto qualcosa di male, era là e sapeva tutto; ed ora è qui con noi, che aspetta parole di pentimento e di confessione. Anche tu conosci tutti i tuoi peccati: non avere vergogna di parlare di tutto ciò che hai commesso. Ed io che sono qui, sono un peccatore come teperciò, non avere vergogna di confessare i tuoi peccati in mia presenza[14].
Il sacerdote dice: “Giacché sei venuto(a) dal medico”. Nella confessione, dobbiamo vedere il Cristo-giudice, che ci libera dalla sentenza di condanna; ma dobbiamo vedere anche il Cristo-medico, che risana ciò che è stato rotto e rinnova la vita. Il sacramento non deve essere visto soltanto in termini giuridici, ma anche curativi. Sopratutto, la confessione è un sacramento di guarigione. Fatto notevole a questo proposito, in alcuni commenti liturgici bizantini, confessione e unzione degli ammalati, vengono considerati non come due sacramenti distinti ma come aspetti complementari di un solo e stesso “mistero” di guarigione. Ciò che cerchiamo nella confessione, è ben più di un’assoluzione esterna, legalista; soprattutto la guarigione delle nostre profonde ferite spirituali. Noi portiamo davanti a Cristo non soltanto peccati specifici, ma pure la realtà del peccato in noi, cioè una corruzione profonda della nostra natura che non può essere espressa completamente con le parole, che sembra sfuggire alla nostra coscienza ed alla nostra volontà. È di questo soprattutto che chiediamo di essere guariti. Come sacramento di guarigione, la confessione non è assolutamente una necessità penosa, una disciplina che ci impongono le autorità della Chiesa, ma un’azione piena di gioia e di grazia salvatrice. Con la confessione, impariamo che Dio è realmente “la speranza dei disperati”, come dice la Liturgia di san Basilio.
Qui, siamo solo noi tre” – il sacerdote, il penitente e Cristo medico. Cosa fa ciascuna di queste tre persone? L’azione di chi, è la più importante? Molti tendono a mettere l’accento soprattutto su ciò che il sacerdote fa, sui suoi consigli ed i suoi incoraggiamenti; e se il sacerdote non dice nulla di eloquente o di inatteso, pensano che poco, o nulla, sia stato compiuto. Oppure sopravvalutano il secondo aspetto, ciò che essi stessi fanno. Immaginano che debbano essere profondamente sconvolti, sul piano emotivo, anche se, come abbiamo detto, il pentimento non è innanzitutto questione di emozione. E poiché mettono l’accento principale sui loro sforzi, vedono la confessione sotto una luce triste e scoraggiante, un po’ come una doccia fredda, una cosa necessaria ma sgradevole da portare a termine al più presto. Eppure, l’azione più importante in realtà non è quella del penitente o del sacerdote ma quella di Dio. Il penitente, anche se gli si chiede di prepararsi con un meticoloso esame di coscienza, in ultima analisi, arriva alla confessione a mani vuote, impotente, senza pretendere di essere capace di guarirsi, ma chiedendo ad un altro di guarirlo. E quest’altro, di cui invoca l’aiuto, non è il sacerdote ma Dio. Il sacerdote non è che “l’usciere di Dio”, che introduce il penitente alla presenza divina; egli non è, per prolungare la metafora medica, che il receptionist nella sala d’attesa. La confessione è fatta a Cristo, e non al sacerdote: “Cristo è presente in modo invisibile per ricevere la tua confessione”; è da Cristo, e non dal sacerdote che viene il perdono: “per ricevere il perdono del nostro Signore Gesù Cristo”.
A partire dal momento in cui vediamo la confessione, fondamentalmente, come un’azione di Cristo piuttosto che come nostra, il sacramento del pentimento appare sotto una luce molto più positiva. Non è più semplicemente l’esperienza della nostra disintegrazione e debolezza, ma quella dell’amore e del perdono curativi di Dio. Dobbiamo vedere non soltanto il figlio prodigo, che cammina lentamente e pesantemente sulla lunga strada del ritorno a casa, ma anche il padre che lo scorge da lontano e che gli corre incontro (Luca 15, 20). Come scrive Tito Colliander: “Se noi facciamo un passo verso DioEgli ne farà dieci verso noi[15]. È precisamente ciò che viviamo nella confessione. Come tutti i sacramenti, la confessione è un’azione divino-umana, nella quale c’è una convergenza ed una “cooperazione” tra la grazia di Dio e la nostra libera volontà. Entrambe sono necessarie; ma ciò che Dio fa è di gran lunga più importante.
Il pentimento e la confessione non sono dunque semplicemente qualcosa che facciamo da noi stessi o con l’aiuto del sacerdote, ma qualcosa che Dio fa con noi e in noi. Come dice san Giovanni Crisostomo (IV sec.), “Amministriamo il rimedio salvatore del pentimento; accettiamo da Dio il pentimento che ci guarisce. Poiché non siamo noi che gliel’offriamo, ma lui che ce lo da”[16]. Occorre qui ricordare che in greco la parola exomologesis significa allo stesso tempo la confessione dei peccati e l’azione di grazia per i doni ricevuti.
Quale è, più precisamente, la parte del sacerdote in questa sinergia? Da un certo punto di vista, il suo potere è molto ampio. Tutti coloro che hanno avuto la benedizione di avere per confessore una persona dotata del vero carisma della paternità spirituale, testimonieranno l’importanza del ruolo del sacerdote. La sua funzione non è semplicemente di dare consigli. La sua assoluzione non ha nulla di automatico. Può legare come slegare. Può rifiutare l’assoluzione – anche se è molto raro – o imporre una penitenza, proibendo ad esempio al fedele di comunicarsi per un certo tempo o chiedendogli di eseguire un certo compito. Anche se non è molto frequente nella pratica ortodossa contemporanea, non è meno importante ricordarsi che il sacerdote possiede questo diritto.
Nella Chiesa dei primi secoli, le penitenze erano spesso severe. Per la fornicazione, san Basilio il Grande (IV sec.) prescriveva sette anni di esclusione dalla santa comunione e san Gregorio di Nissa (IV sec.) nove anni; nella legislazione canonica successiva, attribuita a san Giovanni il Digiunatore, la pena fu ridotta a due anni con un digiuno rigoroso. Per un omicidio involontario – ad esempio, oggi, uccidere qualcuno in un incidente automobilistico – san Basilio imponeva dieci o undici anni di scomunica e san Gregorio nove anni; ma se il penitente si impone un rigoroso digiuno, san Giovanni il Digiunatore autorizzava la riduzione di questa pena a tre anni. Poi i genitori che lasciano morire il figlio non battezzato, venivano privati della comunione per tre anni.
Detto questo, già allora, il vescovo o il sacerdote-confessore aveva la possibilità di modificare queste penitenze in rapporto alla situazione particolare di ciascuno, secondo i principi dell’“economia” o elasticità pastorale. Oggi sarebbe proprio eccezionale applicare i canoni in tutto il loro rigore; un’ampia parte di “economia” è normale. Ma il principio rimane: il sacerdote è responsabile dinanzi a Dio del suo modo di amministrare il sacramento e conserva il potere d’imporre una penitenza che può implicare, se necessario, un periodo di scomunica. Ad esempio, nella Chiesa greca in Europa occidentale, si usa che una donna che abbia abortito venga esclusa per un anno dalla comunione – i vecchi canoni prevedevano un periodo molto più lungo. In tal caso, il sacerdote può anche proporre una forma più attiva di penitenza: “Poiché hai negato la vita, può dire, ora affermala, ad esempio facendo volontariato in una casa per bambini paralizzati nei prossimi dodici mesi per quattro ore a settimana”.
La penitenza non deve essere considerata una punizione ed ancora meno come un’espiazione. La salvezza è un dono libero della grazia. Non possiamo mai cancellare il nostro peccato con i nostri sforzi: Cristo, unico mediatore, è la nostra sola riparazione; o ci perdona gratuitamente, o non siamo affatto perdonati. Noi non acquisiamo “meriti” compiendo una penitenza, poiché, in rapporto a Dio, l’uomo non può mai rivendicare alcun merito personale. Qui, come sempre, dovremmo pensare dapprima in termini terapeutici piuttosto che giuridici. Una penitenza non è una punizione, né una forma di espiazione, ma un mezzo di guarigione. È una medicina. Se la confessione sincera è paragonabile ad un’operazione, la penitenza è il ricostituente che ridà la salute al paziente durante la convalescenza. La penitenza dunque, come la confessione completa, è essenzialmente positiva nel suo scopo: non innalza una barriera tra il peccatore e Dio ma serve da ponte tra i due. “Considera dunque la bontà e la severità di Dio”, dice san Paolo (Romani 11, 22): la penitenza è un’espressione non soltanto della severità di Dio, ma anche del suo amore.
Investito dell’autorità di legare e slegare, di rifiutare o accordare l’assoluzione, giovandosi di un’ampia gamma riguardo ai consigli e alla penitenza terapeutica che può dare, il sacerdote-confessore si trova addosso una pesante responsabilità. Tuttavia il suo ruolo è anche limitato. La confessione, come abbiamo detto, è fatta a Dio e non al sacerdote; ed è Dio che dà il perdono. “Io non sono che un testimone”, dice il sacerdote; e, più esplicitamente ancora, secondo la parafrasi di san Tikhon di Zadonsk: “Sono un peccatore, come te”. Se, al momento dell’assoluzione, quando pone la sua mano sulla testa del penitente, il sacerdote si trova in certa misura al posto di Dio, non lo è meno, durante la prima parte dell’azione sacramentale, come un compagno di penitenza, “un peccatore” che ha necessità anche lui del perdono divino. C’è, infatti, una relazione reciproca tra il sacerdote e colui che si confessa: il padre spirituale è aiutato dai figli, come essi lo sono da lui. Il sacerdote-confessore deve così, a sua volta, andare a confessarsi; e quando lo fa, si usa che tolga la croce sacerdotale che porta al collo.
Il ruolo del sacerdote come testimone e compagno di penitenza appare chiaramente nelle modalità esterne del sacramento. Normalmente, il sacerdote non dovrebbe stare seduto quando il penitente si inginocchia, perché ciò lascerebbe intendere che più che testimone egli sia giudice. Durante le preghiere iniziali, prima della confessione vera e propria, il penitente sta in piedi di fronte all’icona di Cristo o all’Evangelo, ed il sacerdote gli sta accanto. Poi, per la confessione vera e propria, il sacerdote e il penitente possono entrambi sedersi (pratica greca) o restare in piedi (pratica russa): in ogni caso, i due fanno la stessa cosa e stanno come su un piano di uguaglianza. Succede che il penitente si inginocchi e che il sacerdote resti in piedi; in questo caso, il sacerdote dovrà chinarsi per ascoltare ciò che viene detto, e questo gesto ha anche il suo significato proprio. Nel corso dell’assoluzione finale, il penitente china la testa – non verso il sacerdote, ma verso l’icona o l’Evangelo, che simbolizzano la presenza invisibile di Cristo, il solo che abbia il potere di rimettere i peccati. La preghiera d’assoluzione indica inequivocabilmente che è Cristo, e non il sacerdote, che accorda il perdono. Nella formula più antica, sempre in uso tra i Greci, il sacerdote non dice “io ti perdono”, ma “che Dio ti perdoni”. Nel XVII sec., sotto l’influenza della Chiesa Cattolica Romana, l’espressione è stata cambiata nei libri slavi e messa alla prima persona: “ (...) ed io, suo sacerdote indegno, per il potere che mi è stato dato, ti perdono…”; tuttavia, per nessun altro sacramento della Chiesa ortodossa, il celebrante utilizza la prima persona nella sua somministrazione. Si ritrova l’antica tradizione nell’uso del perdono reciproco, sempre osservato dai Russi e da altri ortodossi prima di ricevere la comunione: un membro dell’assemblea – o del clero – dice “Perdonami” ad un’altra persona, che gli risponde: “Dio perdona”.
La guarigione che viviamo attraverso il sacramento della confessione assume la forma più specifica di una riconciliazione. Questo è quanto rivela la preghiera di assoluzione: “Non separarlo(la) dalla tua Chiesa, santa, cattolica ed apostolica, ma uniscilo(la) al gregge puro delle tue pecore” (uso greco); “voglia tu riconciliarlo(la) e unirlo(la) alla tua santa Chiesa” (uso russo). Il peccato, come ci insegna la parabola del figlio prodigo, è un esilio, un’alienazione, un’esclusione o meglio un’auto-esclusione dalla famiglia. Come dice Alexei Khomiakov (†1860): “Quando uno di noi cade, cade solo”. Pentirsi significa rientrare a casa, dall’isolamento ritornare alla comunità, essere reintegrato nella propria famiglia.
Il dono delle lacrime, molto presente nel movimento carismatico contemporaneo, ha pure un posto importante nella tradizione spirituale dell’Oriente cristiano. La “teologia delle lacrime” svolge in particolare un ruolo molto significativo nell’insegnamento di san Giovanni Climaco, sant’Isacco il Siro e san Simeone il nuovo Teologo (†1022). Per san Giovanni Climaco, le lacrime rappresentano un rinnovo della grazia del battesimo: “È più grande del battesimo stesso, questa fonte di lacrime che scaturisce dopo il battesimo, per quanto audace possa essere questa affermazione. (...) come riceviamo tutti nell’infanzia il battesimo, successivamente lo macchiamo; ma tramite le lacrime, lo rinnoviamo nella sua purezza iniziale[17]. Sant’Isacco il Siro, da parte sua, considera le lacrime come il limite cruciale tra lo stato “corporeo” e lo stato “spirituale”, come il punto di transizione tra il presente ed il tempo che verrà, nel quale possiamo entrare in anticipo già in questa vita. Venendo al mondo il neonato piange; parimenti, il cristiano piange quando rinasce nel tempo che verrà. San Simeone il nuovo Teologo ritiene che non dovremmo mai ricevere la comunione senza versare lacrime. E secondo il suo discepolo, Nicetas Stethatos, le lacrime possono anche restaurare la verginità persa.
Cosa ci dice questo dono delle lacrime sul significato del pentimento? Ci sono molti tipi di lacrime, ed è essenziale distinguerli. La differenza principale si situa tra le lacrime sensuali e le lacrime spirituali, con tuttavia una terza specie, le lacrime demoniache. Le lacrime sensuali sono emozionali, le lacrime spirituali “ascetiche”. Le prime, frutti della rabbia, della frustrazione, del desiderio, della compassione su di sé o semplicemente dell’eccitazione nervosa, sono generalmente legate alle passioni. Le seconde, come indica il loro nome, non sono il risultato dei nostri sforzi, ma un dono della grazia divina del Santo Spirito; sono dunque strettamente legate alla nostra preghiera. Le lacrime sensuali esprimono la nostra tristezza, terrestre, di vivere come facciamo in un mondo decaduto e corrotto, in costante movimento verso la morte. Le lacrime spirituali ci avviano alla nuova vita della risurrezione.
Secondo i Padri, le lacrime spirituali sono di due ordini. Nel grado più basso, sono amare, una forma di purificazione, l’espressione della contrizione, del rammarico di aver peccato, della pena di essere separati da Dio; è Adamo che si lamenta davanti alle porte del Paradiso, il figlio prodigo, sempre in esilio, che piange la patria perduta. Nel grado più elevato, sono dolci, una forma di illuminazione, espressione della gioia nata dall’amore di Dio, della gratitudine per il ripristino immeritato del nostro stato di “figli”; è il figlio prodigo che piange di gioia alla festa organizzata in suo onore nella casa del Padre. Nel grado inferiore, per parafrasare san Gregorio di Nissa, le lacrime sono come il sangue che scorre dalle ferite del nostro cuore; nel grado superiore, indicano la spiritualizzazione dei sensi e costituiscono un aspetto della trasfigurazione totale della persona umana mediante la grazia deificante.
Questi due tipi di lacrime spirituali non devono tuttavia essere contrapposti in modo troppo netto, poiché l’uno conduce all’altro. Ciò che nasce come lacrime di rammarico per il peccato si trasforma gradualmente in lacrime di gratitudine e di gioia. Nuovamente, in questo dono di lacrime, ritroviamo la dimensione positiva, e non negativa del pentimento: non è distruttivo ma vivificante, non scoraggiante ma pieno di speranza.
Questa è la nostra esperienza della “grande intelligenza” o del “cambiamento dello spirito” che la parola “pentimento” designa. Ricolmo di pena, ma allo stesso tempo pieno di gioia, il pentimento esprime la tensione creatrice che ha sempre impregnato la vita cristiana quaggiù sulla terra e che san Paolo ha descritto in modo così vivo: “Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze della morte di Gesù, affinché la vita di Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro corpo (...); come morenti, eppure viventi; (...) come afflitti, eppure sempre allegri” (2 Corinzi 4, 10; 6, 9-10). Vita di pentimento permanente, la nostra qualità di discepoli di Cristo è una condivisione allo stesso tempo del Getsemani e della Trasfigurazione, della Croce e della Risurrezione. Uno stato interno che san Giovanni Climaco riassume con queste parole: “Colui che ha indossato, come abito nuziale, l’afflizione felice e riempita di grazia, conosce il sorriso spirituale dell’anima”[18].

 
[1] Jean-Claude Guy, Paroles des anciens: Apophtegmes des Pères du Désert, Seuil, 1976, p. 110.
[2] Lucien Regnault, Abba, dis-moi une parole, Solesmes, 1984, pp. 164-165.
[3] “De ceux qui pensent être justifiés”, aph. 71 e “De la pénitence”, I (964B), VI (973C), XI (980D), in Marc le Moine, Traités spirituels et théologiques, Abbaye de Bellefontaine, 1985, pp. 48, 72, 78 et 83.
[4] Recueil ascétique, 16, 130, Abbaye de Bellefontaine, 1985, p. 141.
[5] Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, “50e discours”, Desclée de Brouwer, 1981, p. 276 (testo modificato sulla base della traduzione inglese effettuata direttamente a partire dal siriaco del Monastero della Santa Trasfigurazione, Boston, Massachusetts, 1984, p. 340).
[6] I Metanoia, Atene, 1958.
[7] Pasteur d’Hermas, “Préceptes” IV, 2, 2, in Les Pères apostoliques, Cerf, 1990, p. 395.
[8] Jean Climaque, L’Échelle sainte, IV,1, Abbaye de Bellefontaine, 1987, p. 94.
[9] Monument to Saint Augustine, Ed. T.F. Burns, London, 1930, p.108.
[10] Abba, dis-moi une parole, Solesmes, 1984, p. 119.
[11] Triode de Carême, T.1, Collège grec de Rome, 1978, p. 99.
[12] Op.cit. VII,1, p. 113.
[13] “Office de la Confession”, Grand Euchiologe et Arkhiératikon, Diaconie apostolique, Rome, 1992, p. 48.
[14] Nadejda Gorodetsky, Saint Tikhon of Zadonsk, New York, St. Vladimir’s Seminary Press, 1976, pp. 157-58.
[15] Tito Colliander, Le Chemin des ascètes, Abbaye de Bellefontaine, 1973, p. 68.
[16] Jean Chrysostome, “Sur le repentir”, VII, 3 (PG 49: 327).
[17] L’Échelle sainte, VII, 8, p. 114.
[18] Ibid. VII, 44, p. 119.

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