UNA PRIMA BIOGRAFIA
La vicenda dei Quaranta martiri di Sebaste in Armenia, è giunta fino a noi attraverso delle fonti letterarie, che per il fatto che non siano contemporanee e soprattutto perché riferiscono sermoni e tradizioni orali, non sono prive di incertezza e oscurità, nonostante siano antiche ed abbondanti.
Si citano qui solo i nomi degli autori dei discorsi inerenti i 40 martiri, pronunciati quasi tutti in occasione della loro festa, che tutti Martirologi storici, latini e greci, pongono al 9 marzo: s. Basilio Magno, s. Gregorio di Nissa, s. Gaudenzio di Brescia, s. Efrem, s. Gregorio di Tours, Sozomeno.
L’unico documento contemporaneo pervenutaci, è il “Testamento” scritto dagli stessi martiri in carcere e prima del supplizio; sebbene genuino, però non dà molto contributo alla ricostruzione storica della vicenda.
Ad ogni modo raccogliendo dalle varie fonti le notizie verosimili, si può ricostruire il glorioso avvenimento; nel 320 durante la persecuzione scatenata da Licinio Valerio (250 ca.- 325) imperatore romano, Augusto dal 303 e associato nel 313 da Costantino per l’impero d’Oriente; quaranta soldati provenienti da diversi luoghi della Cappadocia, ma tutti appartenenti alla XII Legione “fulminata” (veloce) di stanza a Melitene, furono arrestati perché cristiani.
Fu posta loro l’alternativa di apostatare o subire la morte, secondo i decreti imperiali, ma tutti concordemente rimasero fermi nella fede cristiana; pertanto furono condannati ad essere esposti nudi al freddo invernale e morire così per assideramento.
Durante l’attesa in carcere dell’esecuzione, scrissero per mezzo di uno di loro il “Testamento”, dove chiedevano di essere sepolti tutti insieme a Sareim, un villaggio identificato con l’odierna Kyrklar in Asia Minore, il cui nome significa appunto ‘Quaranta’, pregando i cristiani di non disperdere i loro resti; inoltre stabilirono che il giovane servo Eunoico, se fosse stato risparmiato dalla morte, potesse ritornare libero e fosse adibito alla custodia del loro sepolcro; infine dopo parole di esortazione ai fratelli cristiani, salutavano parenti ed amici, ed elencando alla fine i loro nomi.
La particolare minuzia nello stabilire il luogo di sepoltura, la raccomandazione di conservare il sepolcro e le reliquie, s’inquadra nel sentimento profondo dei primi cristiani, che davano un culto più o meno nascosto, alle reliquie dei martiri, fonte di coraggio, forza ed esempio per affrontare la morte, così vicina a chi professava la nuova religione cristiana.
Il martirio ebbe luogo il 9 marzo, nel cortile del ginnasio annesso alla Terme della città di Sebastia in Armenia (odierna Siwas in Turchia), sopra uno stagno gelato; sul luogo era stato preparato anche un bagno caldo per coloro che avessero voluto tornare sulla loro decisione.
Durante la lunga esecuzione, uno dei condannati Melezio, quello che aveva scritto personalmente il ‘Testamento’, non resse al supplizio e chiese di passare nel bagno caldo, ma lo sbalzo di temperatura troppo forte gli causò una morte istantanea.
Il suo posto però fu preso subito dal custode del ginnasio, colpito dalla loro fede e da una visione; si spogliò e gridando che era un cristiano, si unì agli altri riportando il numero dei martiri a 40, il suo nome è Eutico oppure Aglaio secondo le varie fonti.
Quando tutti morirono, i loro corpi furono portati fuori città e bruciati e le ceneri disperse nel vicino fiume. Nonostante questo gesto di disprezzo verso i martiri, parti di reliquie evidentemente poterono essere recuperate e venerate poi in diverse chiese, esse giunsero nei secoli successivi anche a Brescia, in Palestina, Costantinopoli, Cappadocia.
I loro nomi sono: Aezio, Eutichio, Cirione, Teofilo, Sisinnio, Smaragdo, Candido, Aggia, Gaio, Cudione, Eraclio, Giovanni, Filottemone, Gorgonio, Cirillo, Severiano, Teodulo, Nicallo, Flavio, Xantio, Valerio, Esichio, Eunoico, Domiziano, Domno, Eliano, Leonzio detto Teoctisto, Valente, Acacio, Alessandro, Vicrazio detto Vibiano, Prisco, Sacerdote, Ecdicio, Atanasio, Lisimaco, Claudio, Ile, Melitone e il già citato Eutico o Aglaio. Il giovane servo cristiano il cui nome Eunoico è presente nell’elenco, evidentemente non fu risparmiato.
L'ICONA, LA SUA STORIA E LA NARRAZIONE DEL MARTIRIO
Sebaste – o, più esattamente, Sebastia – era una città nell’antica Armenia Minore, che oggi si chiama Sivas ed è capoluogo della provincia omonima della Cappadocia (Turchia). Per i cristiani è famosa per essere stato il luogo del martirio dei cinque martiri Aussenzio, Oreste, Eustrazio, Eugenio e Mardario giustiziati intorno all’anno 300 e dei cosiddetti “Quaranta martiri di Sebaste”, il cui culto è tutt’oggi molto sentito sia in Oriente che in Occidente.
La storia dei santi quaranta martiri di Sebaste (morti tra il 320 e il 323) è considerata autentica, perché è conosciuto un loro “testamento spirituale”, redatto poco prima di morire, e perché san Basilio Magno (nativo di Cesarea di Cappadocia e ivi vescovo dal 370 al 379) ha lasciato un’omelia (Hom. XIX) in cui narra dettagliatamente il loro martirio, del quale forse ebbe notizia da testimoni oculari.
La vicenda ebbe inizio al tempo di Licinio (Flavio Galerio Valerio Liciniano Licinio) che fu imperatore romano dal 308 al 324. Dal 311, Licinio divise l’impero d’Oriente con Massimino Daia, regnando sulla Tracia e la penisola balcanica, e, due anni dopo, si recò a Milano per incontrare Costantino I, divenuto l’unico imperatore d’Occidente, col quale strinse un’alleanza contro Massimino Daia, suggellata dal matrimonio di Licinio con la sorella di Costantino, Costanza. Insieme, i due imperatori promulgarono l’Editto di Milano (313) che poneva ufficialmente termine alle persecuzioni religiose e proclamava la neutralità dell’impero nei confronti di ogni fede. Tuttavia, Licinio, sconfitto Massimino Daia e diventato unico imperatore della parte orientale, cominciò a perseguitare i cristiani considerandoli amici di Costantino (dal quale fu sconfitto nel 316 e nel 324-325) ed esigeva che i suoi sudditi apostatassero. Durante queste persecuzioni, furono “scoperti” cristiani quaranta soldati appartenenti alla XII Legione “Fulminata” (così detta perché nelle sue insegne aveva un fulmine) che allora si trovava a Melitene (odierna Malatya, in Anatolia), “scoperti” per modo di dire se ha fondamento storico un frammento di una apologia attribuita al vescovo di Ierapoli, Apollinare, in cui si racconta che nel 274, durante la guerra di Marco Aurelio contro i Quadi (polo germanico stanziato nell’attuale Slovacchia), l’esercito romano pativa la sete e le preghiere dei soldati cristiani della XII Legione “Fulminata” provocarono un nubifragio che rianimò i soldati e fece vincere loro la guerra. Era anche una legione dalla tradizione valorosa poiché aveva partecipato all’espugnazione di Gerusalemme nell’anno 70.
I quaranta soldati furono quindi arrestati e portati in giudizio, prima davanti al governatore Agricolao e poi a Lisia, comandante della Legione, ma di fronte alle promesse di ricchezze e privilegi rimasero saldi nella fede cristiana. In carcere, i giovani, prevedendo la loro fine, scrissero un “testamento” collettivo per mano di uno di loro chiamato Melezio. In questo documento, che non fornisce notizie storiche, essi salutano parenti e amici (uno solo saluta la moglie col figlioletto) esortandoli a trascurare i beni terreni per preferire quelli ultraterreni.
I giovani furono condannati a una morte lenta e terribile, l’assideramento: immersi nudi in un’ampia riserva d’acqua, situata in un cortile in comunicazione con le terme, che in inverno era ghiacciata (Sebaste è situata a 1285 m sul livello del mare). Per accrescere la sofferenza dei condannati e offrire loro una via per sfuggire alla morte, naturalmente dopo aver apostatato, erano state lasciate aperte le porte del calidarium, da cui uscivano allettanti vapori caldi. Verso mattina, uno dei quaranta soldati - forse Melezio, l’estensore del “testamento” - lasciò stremato il bacino, ma il forte sbalzo di temperatura lo uccise sul colpo. Nello stesso istante, secondo l’innografo sant’Efrem il Siro (306-373), una guardia, di nome Aglaio, ebbe la visione di trentanove corone che dal cielo scendevano su ogni condannato, mentre la quarantesima rimaneva sospesa in alto, e subito si spogliò gridando di essere cristiano e si unì al gruppo.
All’alba del giorno seguente, il 9 marzo, il governatore Agricolao ordinò di finirli, rompendo loro le gambe. Uno soltanto dei soldati era ancora in vita, ma, come narra san Basilio, non volle essere soccorso e fu sua madre stessa a portarlo sul carro dove erano stati raccolti i cadaveri perché morisse per la gloria del Signore.
Nel “testamento”, i giovani avevano disposto che le loro salme non venissero disputate fra i cristiani – come avvenuto in precedenza per altri martiri – ma fossero sepolte insieme (uniti nella morte come nella vita militare) nel villaggio di Sareim (oggi Kyrklar), presso la città di Zela (oggi Zila). Tuttavia furono seguite le disposizioni imperiali che ordinarono la cremazione dei corpi e la dispersione dei resti nel fiume. Si narra quindi che tre giorni dopo, i santi apparvero a Pietro, vescovo di Sebaste, indicandogli il luogo dove erano raccolti i loro resti. Le reliquie furono recuperate e, grazie alla diffusione del culto a opera di san Basilio, di sua madre Emmelia e di sua sorella Macrina, furono venerate in molte chiese: san Gregorio di Nissa (335-394?) ne possedeva e san Gaudenzio di Brescia (?-410), avutele in dono dalle monache di Cappadocia, le pose nella sua cattedrale di Brescia. Pronunciarono dei panegirici in loro onore Efrem il Siro (306-373), Basilio il Grande e san Gregorio di Nissa (in PG, XLVI, 749 ss., 773 ss.), mentre Romano il Melode (?-555?) li celebrò in due inni, esaltandoli come predicatori della pietà, maestri della verità per i dubbiosi, guaritori degli ammalati, sostegno per gli afflitti da morbi, porto per i naviganti, vendicatori degli oppressi: ogni titolo testimonia i miracoli operati dalle loro reliquie e riportati in diverse fonti agiografiche. Nel Tropario del giorno della festa (9 marzo) si canta: «Per le sofferenze che i tuoi Quaranta Martiri / hanno sopportato per amore tuo, / o Signore che ami l’umanità, / ti imploriamo: guarisci noi tutti / dalle nostre infermità». Inoltre, lo storico palestinese Sozomeno (400?-450?) raccontò il ritrovamento delle reliquie dei martiri da parte dell’imperatrice Pulcheria (399-453) cui assistette.
Lo sticheron dei vespri del 9 marzo del calendario ecclesiastico giuliano-costantiniano (22 marzo del calendario civile) riprende i nomi che firmavano il “testamento” (escluso Melezio, che non resistette alla tortura, e incluso Aglaio, la guardia che si convertì):Acacio, Aezio (o Ezio), Aggia (o Angia), Aglaio, Alessandro, Atanasio, Candido, Cirillo,Cirione (che non cessò di confortare i compagni), Claudio, Cudione, Domiziano, Domno,Ecdicio, Eliano, Eraclio, Esichio (o Isichio), Eunoico, Eutichio, Filottemone, Flavio, Gaio,Giovanni, Gorgonio, Ile (o Elia), Leonzio detto Teoctisto, Lisimaco, Melitone (l’ultimo a morire), Nikallo, Prisco, Sacerdone, Severiano, Sisinnio, Smaragdo, Teodulo, Teofilo,Valente, Valerio (o Valeriano), Vicrazio detto Vibiano, Xantio (cliccare sul nome per vederne l’immagine).
La loro memoria si celebra il 9 marzo nelle Chiese ortodosse (in cui, se la festa cade durante la prima settimana di Quaresima o durante la Settimana Santa, viene parzialmente sospeso il severo digiuno), maronite, greco-cattoliche e siro-orientali. La Chiesa armena li ricorda il sabato dopo la metà della quaresima, mentre il Martirologio Romano li festeggia il 10 marzo.
Inoltre nella Chiesa ortodossa, durante il sacramento del matrimonio (celebrato, nei giorni non destinati al digiuno, attraverso il rito dell’incoronazione), i martiri sono citati nella seconda preghiera per richiedere la divina protezione: «Ricordati di loro, come Ti sei ricordato di Enoch, di Sem, di Elia; ricordati di loro, Signore nostro Dio, come Ti sei ricordato dei tuoi santi, i Quaranta Martiri di Sebaste, ai quali hai inviato dal cielo le loro corone».
Nell’iconografia tradizionale, i quaranta soldati martiri sono dipinti a figura intera parzialmente immersi nel bacino gelato, rivolti uno all’altro per confortarsi a vicenda. A destra, è lo stabile delle terme con il bagno caldo che sta per essere raggiunto dal soldato che non sopporta più la tortura. Di solito, a braccia alzate, è raffigurata la guardia che si è convertita e decide di unirsi ai martiri. Lo sfondo riproduce spesso le montagne della Cappadocia. In alto, avvolto in una nuvola è Cristo benedicente. Talvolta la scena è arricchita dalla presenza di due soldati avvolti nei mantelli o dalle corone che stanno scendendo sul capo dei martiri.
La raffigurazione più antica, purtroppo mal conservata, dei quaranta martiri è in un affresco del VII secolo, situato nell’oratorio annesso alla chiesa di Santa Maria Antiqua a Roma. Vi sono anche dipinti nelle chiese di Santa Sofia a Ohrid (Macedonia) e a Kiev (Ucraina) databili tra l’XI e il XII secolo, e chiese o monasteri a loro dedicati, in particolare sul Monte Athos (nel katholikon del monastero di Xiropotamou, XIII secolo) e in Bulgaria (Veliko Tarnovo, XIII secolo), in Siria (Aleppo).
Sulla veridicità della storia nel suo insieme la Chiesa non ha dubbi, essendoci, come detto, testimonianze scritte. È vero, però, che nei particolari, il racconto contiene particolari fantasiosi e citazioni bibliche, che arricchiscono e rendono maggiormente edificante la vita dei martiri. Per esempio, si mettono in bocca ai martiri versi dei Salmi o dei Proverbi, il modello della madre richiama l’eroico comportamento della madre dei sette fratelli nel Secondo Libro dei Maccabei (7,1-41) e il 40 è un numero simbolico nella Bibbia. Infatti, nel secondo libro del De Doctrina Christiana, sant’Agostino scrisse: «L’ignoranza dei numeri impedisce di comprendere molte cose poste nella Scrittura in forma traslata o figurativa. Ad esempio, una mente che io chiamerei nobile non può non rimanere sorpresa dal perché mai Mosè, Elia e lo stesso nostro Signore abbiano digiunato quaranta giorni…». Infatti, il numero 40 è citato trentacinque volte nella Bibbia, dai 40 giorni e 40 notti del Diluvio alla vita di Mosè (in cui il numero quaranta si ripete spesso), ai 40 mesi della predicazione di Cristo, ai 40 giorni che egli apparve agli apostoli dopo la morte in croce... Infatti, non può essere considerato un caso che la data della loro morte e festa, 9 marzo, cada durante la Grande Quaresima: la loro eroica resistenza deve servire da esempio ai fedeli per perseverare con tenacia nel digiuno stabilito in modo da raggiungere la ricompensa celeste, ossia la risurrezione di Cristo nel giorno di Pasqua.
Per finire, una curiosità: in Romania, la festa dei martiri di Sebaste è stata particolarmente sentita fin dai primi tempi del cristianesimo, perché era simile alla festa pagana della primavera celebrata in prossimità dell’equinozio di primavera. Allora come ora, il 9 marzo si celebra la risurrezione della natura e la purificazione per una nuova vita, indicando nei Quaranta martiri i protettori dell’agricoltura, della vegetazione e della rigenerazione in generale, perciò si festeggiano in questo giorno anche coloro che non portano il nome di un santo del calendario ortodosso. Per ottenere i favori dei martiri, si usa preparare un dolce apposito, i mucenici, che hanno forma di “8” (numero che simboleggia l’equilibrio cosmico o l’infinito, per i pagani, e la trasfigurazione e il Nuovo Testamento, per i cristiani) e sono composti di farina di grano tenero, uova, noci e miele.
San Basilio il Grande, I Quaranta Martiri di Sebaste, IV secolo
San Basilio il Grande, o Magno, (Cesarea di Cappadocia 329?-379), primo dei Padri cappadoci e Dottore della Chiesa, proveniva da una ricca famiglia profondamente cristiana: suo nonno morì martire e la nonna Macrina, la madre Emmelia, i fratelli Gregorio e Pietro (che furono, rispettivamente, vescovi di Nissa e di Sebaste) e la sorella Macrina sono venerati come santi. Basilio studiò a Neocesarea sul Ponto, Costantinopoli ed Atene, dove conobbe san Gregorio Nazianzeno. Nel 356, tornò a Cesarea (oggi Kayseri, Turchia), di fece battezzare e, dopo aver visitato molti anacoreti di Egitto, Siria, Palestina e Mesopotamia, si ritirò in una sua proprietà sulle rive del fiume Iris vicino ad Annosi nel Ponto, dove compose la Grande Regolae la Piccola Regola, una serie di norme per la vita dei monaci (soprannominati “basiliani”) che diventò il punto di riferimento del monachesimo orientale e alla quale obbediscono tuttora gli ordini ortodossi e cattolici. Intorno al 360 fu nominato presbitero dal vescovo di Cesarea, Eusebio, col quale si batté contro le dottrine eretiche degli ariani. Morto Eusebio (370), Basilio fu eletto al suo posto vescovo di Cesarea e metropolita ed esarca della regione del Ponto. Scrisse molte opere di carattere dogmatico, ascetico, trattati, discorsi, omelie (tra cui quella dedicata ai martiri di Sebaste) e moltissime lettere sui più svariati argomenti. Oltre a ciò, fece costruire una cittadella per i poveri, chiamata “Basiliade”, comprendente locande, ospizi, ospedale e lebbrosario. La Chiesa ortodossa lo venera il I gennaio, la Chiesa cattolica il 2 gennaio.
Proemio
I. Quale sazietà può mai generare la [celebrazione annuale della] memoria dei martiri in chi sia devoto di essi, dal momento che l’onore verso i buoni “con-servi” è dimostrazione di amore al comune Signore? Ci si aspetta infatti che colui che manifestamente approva gli uomini valorosi non mancherà di imitarli in circostanze similari. Anche tu proclama con convinzione beato colui che ha affrontato il martirio, affinché tu pure divenga martire della volontà e ti renda degno delle medesime ricompense pur senza [essere sottoposto alla] persecuzione, al fuoco, ai flagelli.
Non uno solo è proposto alla nostra ammirazione devota, neppure due e nemmeno fino a dieci soltanto giunge il numero di coloro che proclamiamo beati, ma addirittura quaranta uomini sono coloro che dimostrarono di avere quasi un’anima sola in corpi diversi, di respirare all’unisono e in perfetta concordia di fede, unica anche la forza di sopportazione nei tormenti e la costanza a difesa della verità. Reciprocamente si somigliavano tutti: uguali nell’intendimento, uguali nella lotta; per questo furono ritenuti degni anche di uguali corone di gloria. Or dunque quale discorso potrebbe mai giungere a lodarli degnamente? Neppure quaranta lingue basterebbero a decantarne il valore. Tuttavia se anche uno solo fosse l’oggetto della nostra ammirata celebrazione, sarebbe sufficiente a soverchiare la forza delle nostre parole; figuriamoci una tale moltitudine, una falange di soldati, una guarnigione inespugnabile, invincibile in battaglia così come inarrivabile nella lode!
La narratio: memoria e imitazione
2. Orsù dunque, riportiamoli con la memoria in mezzo a noi e ai presenti proponiamo di ricavarne comune utilità ponendo sotto gli occhi di tutti, come in un quadro, le gesta di questi eroi. Infatti oratori e pittori son soliti rappresentare eroiche gesta di guerra, gli uni con parola ornata, gli altri con pitture su quadri, ed entrambi con ciò indussero molti al coraggio. Quel che la narrazione storica presenta attraverso l’udito, la pittura esibisce tacitamente attraverso l’imitazione. Così pure anche noi ricorderemo ai presenti il valore di tali uomini e, quasi ponendo sotto gli occhi le loro gesta, stimoleremo alla loro imitazione i più generosi e più affini per volontà. Esortare alla virtù i fedeli convenuti è l’encomio [più bello] per i martiri.
I discorsi sui santi non tollerano però di essere asserviti alle leggi [profane] degli encomi. Infatti quanti fanno bei discorsi traggono origine e motivo di lodi da cause mondane; ma per coloro per i quali il mondo è crocifisso come vi si potrebbe trovare motivo alcuno di esaltazione?
Patria, famiglia e professione dei quaranta
Non unica era la patria di questi santi, ma chi veniva dall’una e chi dall’altra. E che? li diremmo apolidi o piuttosto cittadini dell’ecumene? Come infatti nelle collette delle associazioni, quel che è stato contribuito dai singoli diventa comune contribuzione di tutti i partecipanti, così anche per questi beati la patria di ciascuno è comune a tutti gli altri e, da qualunque luogo sian essi venuti, tutti partecipano della stessa patria. Anzi, che bisogno c’è di ricercare quale patria abbiano avuto sulla terra, quando invece è necessario comprendere qual è la loro città attuale? Città dei martiri è la città di Dio, il cui architetto e costruttore è Dio, la celeste Gerusalemme che è libera ed è madre di Paolo [Gal 4,26] e di quanti gli somigliano.
Diversi l’uno dall’altro per parentela fisica, unica per tutti era la parentela spirituale. Infatti loro padre comune era Dio e tutti divennero tra loro fratelli, non per generazione terrena da un padre e da una madre, ma per l’adozione dello Spirito, tra loro congiunti nella concordia che deriva dall’amore. Divennero così coro già pronto ad accrescere il gran numero di coloro che in eterno lodano il Signore, confluiti non ad uno ad uno, bensì tutt’insieme. In qual maniera avvenne una tale confluenza? Eccellendo fra tutti i coetanei per prestanza fisica, vigore giovanile e forza, costoro furono iscritti nei ruoli dell’esercito; presto per esperienza bellica e coraggio meritarono le più alte onorificenze dagli imperatori, divenendo famosi dappertutto per il loro valore.
L’editto di persecuzione
3. Dopo che fu promulgato l’empio e scellerato editto che proibiva di confessare Cristo sotto pena di tormenti, fu minacciata ogni forma di supplizio e contro i cultori di Dio si mosse tutta l’ira e la ferocia dei giudici d’ingiustizia. Insidie e tranelli si tendevano d’ogni parte, s’apprestavano tormenti d’ogni genere, nessuna pietà negli aguzzini: pronto il fuoco, affilata la spada, piantata la croce, e ancora fosse, ruote e flagelli. Chi fuggiva, chi soccombeva, chi esitava: alcuni già prima della prova rimasero atterriti dalle sole minacce; altri, invece, in presenza dei supplizi, ne furono sconvolti, altri ancora, cominciata la lotta e non riuscendo a sopportare fino alla fine il supplizio, nel mezzo della battaglia vennero meno e, non diversamente da chi è travolto in alto mare dalla tempesta, nel naufragio persero anche quanto già guadagnato per mezzo della pazienza.
Autodenuncia dinanzi al governatore
Fu allora che questi invitti e prodi soldati di Cristo, fattisi innanzi, al governatore che mostrava loro l’editto dell’imperatore esigendo obbedienza, con voce spiegata, coraggiosi e impavidi, per nulla atterriti alla vista dei supplizi e insensibili alle minacce, dichiararono di “essere cristiani”. O lingue beate che proferirono quelle sacre parole! Le accolse l’aria e ne fu santificata, le ascoltarono gli angeli e plaudirono, il diavolo ne fu ferito a morte assieme ai démoni, mentre il Signore le iscrisse nei cieli.
4. Ciascuno di loro si fece innanzi e ad uno ad uno dichiararono: «Io sono cristiano». E come degli stadi quanti entrano in gara, dopo aver pronunciato l’uno dopo l’altro il proprio nome, passano al posto di combattimento, così anche costoro, ripudiati i nomi assegnati sin dalla nascita, presero ciascuno quello del comune Salvatore. E così fecero tutti, l’uno dopo l’altro; sicché unico per tutti fu il nome: non il tale o il tal altro, ma tutti quanti si proclamarono “cristiani”.
Il processo
Che fece allora il governatore?
Egli era abile e astuto: ora circuiva con lusinghe, ora aggrediva con minacce. Dapprima li lusingava nel tentativo di snervare ostinazione e fermezza della loro fede: «Non vogliate tradire la vostra giovinezza – diceva – e scambiare questa dolce vita con una morte prematura. Sarebbe infatti assurdo che voi, abituati a primeggiare per valore in battaglia, moriate della morte dei malfattori». Inoltre prometteva ricchezze; prometteva anche onori ed elargizioni di dignità a nome dell’imperatore; s’ingegnava infine in mille modi ad espugnarne l’animo. Poiché quelli non cedevano minimamente dinanzi a tale prova, egli si volse a un’altra specie di armi, passando a minacciare ferite e morte e intollerabili supplizi. Così (si comportava) il governatore.
Quale la risposta dei martiri?
«Perché o nemico di Dio – dicono – cerchi di allettarci con promesse di beni affinché,ribellandoci al Dio vivo, diveniamo schiavi di démoni esiziali? Cosa dài che valga ciò che ti premuri di togliere? Noi abbiamo in odio i doni che procurano danno; non accettiamo onori che generano disonore. Tu dài ricchezze che rimangono [su questa terra] e una gloria che appassisce. Vuoi renderci familiari dell’imperatore, ma ci estranei dal vero Re. Perché ci proponi così poco dei beni di questo mondo? [Sappi che non solo una parte ma] tutto ciò che è del mondo è da noi tenuto in disprezzo. Tutto quel che è sottoposto ai nostri occhi non è pari alla speranza che ardentemente ci spinge».
«Vedi questo cielo come è bello e quanto è grande? E la terra quant’è, e quante meraviglie contiene? Nulla di tutto ciò uguaglia la felicità beata dei giusti: le cose terrene passano, quelle cui noi aspiriamo rimangono. Un solo dono c’infiamma di desiderio: la corona di giustizia; una sola gloria aspettiamo con animo anelante: quella che è nel Regno dei cieli. Di onori celesti noi siamo bramosi e temiamo quel solo supplizio che è nella geenna: il fuoco che è là ci spaventa, quello da voi minacciato è nostro “con-servo”. Esso sa aver riguardo per chi disprezza gli idoli».
«Colpi da fanciulli stimiamo i vostri tormenti. Infatti tu colpisci il corpo, che sarà coronato di più fulgido serto se più a lungo saprà resistere al supplizio; se, invece, troppo presto verrà meno, se ne andrà libero da voi, giudici così violenti che, avendo ricevuto il compito di governare i corpi, pretendete anche il dominio sulle anime: poiché non anteporvi al nostro Dio è ritenuta da voi la più grave delle offese che noi potessimo arrecarvi, vi sdegnate e minacciate questi terribili supplizi, imputandoci la fede a delitto. Però troverete in noi gente non timorosa né attaccata alla vita o che facilmente si abbatta, poiché per amore di Dio siamo pronti ad essere stesi sulla ruota, tormentati con l’aculeo, arsi col fuoco e affrontare ogni specie di tormenti».
La condanna a morte per assideramento
5. Udito ciò, quell’uomo orgoglioso e barbaro, non tollerando una tale libertà di parola e ardendo d’ira, cercava come potesse escogitare per loro una morte lunga e straziante. Infine gli venne in mente quest’idea; quanto feroce, vi prego, osservate attentamente.
Considerato il clima già freddo della regione, attraversata in quel tempo dalla stagione invernale, egli attese quella notte in cui più pungente fosse il freddo per il soffiare della tramontana, e ordinò che tutti [i 40 soldati], nudi, a cielo scoperto, in mezzo alla città, morissero per congelamento. Voi tutti sapete, per avere esperienza dei rigori d’inverno, quanto intollerabile sia questo genere di tormento. Perché non è possibile farlo capire se non a chi per sua propria esperienza abbia già provato i sintomi che sto per dire. Il corpo, esposto al gelo, dapprima diventa totalmente livido per il coagularsi del sangue, poi è sconvolto da fremiti e brividi; i denti battono, muscoli e nervi si contraggono per lo spasimo, tutto l’organismo necessariamente si rattrappisce. Inoltre un dolore acuto e un tormento indicibile, penetrando fin nel midollo delle ossa, cagionano i più terribili spasimi a coloro che subiscono il gelo. Poi le estremità del corpo risultano tagliate e private di ogni sensibilità come fossero arse dal fuoco. Il calore, respinto dalle parti periferiche, si rifugia nell’interno: donde si ritira lascia la morte, procura dolorosi strazi dove si raccoglie, man mano che avanza la morte per congelamento.
Furono condannati a trascorrere la notte a cielo scoperto allorquando lo stagno, intorno al quale era stata costruita la città in cui questi santi martiri dovevano affrontare tale prova, appariva trasformato dal ghiaccio in una piana transitabile con cavalli e, fattosi solido e duro, offriva sulla sua superficie sicuro transito agli abitanti. I fiumi scorrenti giù dai monti, bloccati dal ghiaccio, si erano fermati: la natura molle dell’acqua si era cambiata nella durezza della pietra e violenti venti di tramontana opprimevano fino alla morte ogni essere animato.
Il discorso di commiato: esortazioni reciproche e preghiera fiduciosa
6. Allora udito il comando – considera, ti prego, l’invitto coraggio dei nostri uomini! –, con gioia si spogliarono tutti finanche della tunica e s’avanzarono incontro alla morte per gelo, incoraggiandosi reciprocamente come per far preda di spoglie nemiche.
«Non del vestito – dicono – noi ci spogliamo, ma del vecchio uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Ti ringraziamo, o Signore, perché con questo vestito noideponiamo il peccato. Poiché ci vestimmo a causa del serpente, per Cristo ora noi ci spogliamo. Lasciamo perdere i vestiti per [riacquistare] il paradiso che una volta perdemmo. Cosa renderemo al Signore in contraccambio? Anche il Signore nostro fu spogliato. Quale gran cosa per il servo soffrire i patimenti del padrone? Per di più proprionoi abbiamo spogliato il Signore. Infatti quella fu scellerata impresa di soldati, che lo spogliarono e ne divisero le vesti. Pertanto cancelliamo questa imputazione registrata a nostro carico per causa loro».
«Duro è l’inverno, ma dolce è il paradiso; doloroso è il gelo, ma dolce è il riposo[eterno]. Ancora un poco e il seno del patriarca (Abramo) ci riscalderà. Una sola notte val bene l’intera eternità. Bruci [per il gelo] il piede perché possa in perpetuo danzare con il coro degli angeli; si stacchi pure [per insensibilità] la mano perché possa levarsi [in preghiera] a Dio in libertà. Quanti nostri commilitoni caddero sul campo per mantenere fede a un imperatore mortale, e noi non getteremo via questa vita per la fede nel vero Re? Quanti delinquenti, sorpresi in flagrante, sopportarono la morte? Non la sopporteremo noi per la giustizia? Non cediamo, o commilitoni, non offriamo le spalleal diavolo. Nessun risparmio per le nostre carni: dal momento che in ogni caso bisogna morire, moriamo almeno per vivere. Il nostro sacrificio avvenga al tuo cospetto, o Signore, e saremo accolti come sacrificio vivente a te gradito mentre in questo freddo siamo offerti in olocausto: bella l’offerta, nuovo l’olocausto, non dal fuoco ma dal gelo consumato».
Questi conforti si davano l’un l’altro, esortandosi a vicenda: trascorrevano così la notte come se adempissero ad un servizio di guardia in guerra, eroicamente sopportando le sofferenze presenti e lieti per i beni sperati, infine irridendo l’avversario.
Una preghiera era sulle labbra di tutti: «Quaranta siamo entrati nello stadio, quaranta ne dobbiamo uscire coronati, o Signore. Neppure uno manchi a quel numero venerando che tu hai onorato con un digiuno di quaranta giorni, attraverso il quale la Legge entrò nel mondo ed Elia nel digiuno di quaranta giorni cercò il Signore e fu fatto degno di vederlo». Tale era la loro preghiera.
Una dolorosa e inutile “diserzione”
Nondimeno uno del numero, soccombendo alla violenza del supplizio, disertò, arrecando ai santi un indicibile dolore. Però il Signore non permise che le loro suppliche restassero inefficaci. Infatti colui al quale era stata affidata la guardia dei martiri, mentre si riscaldava nei pressi di un ginnasio, ne osservava la fine, pronto ad accogliere i soldati che avessero voluto sfuggire alla morte.
Era stato provveduto che lì vicino vi fosse un bagno, nel quale offrire pronto soccorso a coloro che avessero mutato proposito. Un tale luogo di prova fu malvagiamente escogitato e apparecchiato dagli avversari affinché il pronto sollievo offerto valesse a piegare la fermezza dei combattenti: ciò mostrò più insigne la sopportazione dei martiri. Costante infatti non è colui che manca del necessario, ma chi nell’abbondanza dei beni affronta saldamente le avversità.
7. Mentre dunque essi combattevano la suprema prova, la guardia ne osservava l’esito. Or ecco che egli vide uno spettacolo nuovo: milizie che scendevano dal cielo come per distribuire a nome del re splendidi doni ai soldati. A tutti distribuivano i loro doni fuorché ad uno solo, giudicato indegno degli onori celesti, quello, cioè, che soccombendo al dolore, disertò verso il campo avversario. Miserando spettacolo per i giusti: un soldato divenuto disertore, uno dei primi e dei più forti fatto prigioniero, una pecorella di Cristoghermita dal lupo! E tanto più miserando perché egli fallì il traguardo della vita eternasenza neppure godere di quella presente perché il contatto repentino con il calore [dell’acqua] subito dissolse le sue carni.
Conversione e martirio del carnefice
E mentre per amore della vita, inutilmente resosi colpevole, quello cadde, a sua volta il carnefice, appena lo vide staccarsi dal gruppo e correre verso il bagno, prese egli stesso il posto del disertore e, gettate le vesti, si mescolò agli altri denudati gridando al pari dei santi: «Sono cristiano!».
Stupendo gli astanti per l’improvvisa conversione, egli finalmente ricompose il numero [di quaranta] e con la sua aggregazione lenì il dolore per l’altrui cedimento, in ciò imitando coloro che in battaglia si slanciano a ricoprire il posto lasciato vuoto sulla linea di combattimento dal soldato caduto in prima fila affinché lo schieramento non si rompa. Altrettanto fece costui. Vide i prodigi celesti, conobbe la verità, si rifugiò nel Signore, fu annoverato fra i martiri. Rinnovò le gesta dei discepoli: andò via Giuda, subentrò Mattia. Divenne imitatore di Paolo: ieri persecutore, oggi evangelizzatore. Anche lui ricevette dall’alto la chiamata, non dagli uomini, né per mezzo degli uomini. Credette nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, in lui fu battezzato, non da un altro, ma dalla propria fede, non nell’acqua, ma nel proprio sangue.
Patrocinio dei martiri e frammentazione di reliquie
8. Così alla prima luce del giorno, mentre ancora respiravano, [i corpi dei martiri] furono dati alle fiamme e i resti carbonizzati furono gettati nel fiume, sicché la lotta sostenuta dai beati passasse attraverso tutti gli elementi. Combatterono sulla terra, a cieloscoperto resistettero alla prova, furono consegnati al fuoco, li accolse infine l’acqua. A loro appartiene quanto dice la Scrittura: Passammo attraverso il fuoco e l’acqua ma poi ci hai portati al refrigerio.
Essi serbano sotto il loro patrocinio la nostra regione come torri poste l’una accanto all’altra ad offrirci sicura difesa dall’assalto degli avversari, perché non si rinchiusero in un solo luogo, bensì ospitati in molti siti adornarono molte città. Ed è straordinario che non separati vengono a chi li riceva, ma uniti fra loro insieme tripudiano.
Oh, prodigio! Non diminuiscono di numero, neppure aumentano. Se tu li dividi in cento parti, non oltrepassano il loro numero; se in uno li raccogli, anche così rimangono in quaranta; similmente alla natura del fuoco. Anche il fuoco, infatti, passa a chi ne attinge eppure resta tutto intero presso chi lo aveva dapprima; così pure i quaranta stanno tutti insieme e nessuno manca presso il singolo [fedele che li invochi]: [è questo] un beneficio tutt’altro che lesinato, un dono che mai si esaurisce, pronto ausilio per i cristiani è tale accolta di martiri, schiera di trionfatori, coro di lode a Dio.
Quanto t’affaticasti [o fedele] per trovare uno che supplicasse per te il Signore? [Ecco che] ben quaranta sono coloro che innalzano [per te] una preghiera concorde: Dove sono due o tre radunati nel nome del Signore, egli è lì in mezzo a loro. Dove sono in quaranta, chi potrebbe dubitare della presenza di Dio? Chi è nell’afflizione ricorre ai quaranta, anche chi è nella letizia a loro accorre: il primo per trovare liberazione dai mali, il secondo perché gli sia conservata la prosperità. Qui trovi la donna pia pregare per i figli e chiedere il ritorno per il marito lontano, o la salute, se malato.
Una “vera madre di martire”
Unite le vostre preghiere con quelle dei martiri. I giovani imitino tali coetanei; i padri implorino di essere padri di tali figli, le madri apprendano il comportamento di un’ottima madre.
Infatti la madre di uno di quei beati, avendo visto tutti gli altri già morti per il freddo, mentre il figlio suo respirava ancora [forse] perché più robusto e resistente alla sofferenza, e [temendo che] i carnefici lasciassero in vita uno che avrebbe potuto [in simili condizioni] mutare proposito, sollevatolo con le sue stesse mani, lo depose sul carro, su cui tutti gli altri erano stati adagiati per essere condotti alla pira: vera madre di un martire! Non una lacrima di paura ella versò, né proruppe in lamenti indegni e inopportuni, ma «Vai – disse –, o figlio, per la buona strada assieme ai coetanei, assieme ai compagni: non separarti dal coro né comparire secondo rispetto agli altri dinanzi al Signore!».
Germoglio buono di radice davvero buona! Mostrò quella madre generosa di aver allevato il figliuolo molto più con gli insegnamenti della pietà che con il latte. Come era stato nutrito, così fu avviato dalla pia madre (all’estremo supplizio), mentre il diavolo si allontanava umiliato. Infatti pur avendo egli mosso ogni elemento della natura contro i martiri, trovò che tutti erano stati superati e vinti dalla virtù e dal coraggio di tali uomini: la notte sferzata dal vento [di tramontana], il clima freddo del luogo, la stagione invernale, la nudità del corpo.
L’epilogo: invocazioni finali ai martiri
O coro santo, sacra schiera, serrata e compatta falange, protettori comuni del genere umano, buoni sodali delle nostre quotidiane cure, compagni delle nostre preghiere, intercessori potentissimi, astri dell’ecumene, fiori delle Chiese!
La terra non vi ricoprì, vi accolse il cielo: per voi si aprirono le porte del paradiso. Spettacolo degno delle milizie angeliche, degno dei patriarchi, dei profeti e dei giusti questi uomini che nel fiore medesimo della giovinezza disprezzarono la vita per poteramare il Signore al di sopra dei genitori e dei figli. Pur essendo in età la più dolce da vivere, disdegnarono questo temporaneo soggiorno per lodare Dio nelle proprie membra; divenuti spettacolo dinanzi al mondo, agli angeli e agli uomini, risollevarono i caduti, confermarono i dubbiosi, raddoppiarono l’ardore nei seguaci della fede. Finalmente avendo innalzato tutti un unico trofeo alla pietà, di un’unica corona di giustizia sono stati anche adornati in Cristo Gesù nostro Signore, a cui sia gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ritrovamento delle reliquie dei quaranta martiri di Sebaste, V secolo (1)
Sozomeno (in latino: Salminius Hermias Sozomen; in greco: Hermeías Sozómenos) fu uno storico palestinese vissuto nella prima metà del V secolo. Di famiglia ricca e cristiana, dalla città natia, Betelia vicino a Gaza, andò a studiare legge a Beirut e poi a Costantinopoli, dove scrisse, probabilmente fra il 440 e il 443, due opere monumentali intitolate Storia ecclesiastica: nella prima (perduta) trattava il periodo intercorso tra l’ascensione di Gesù e la sconfitta di Licinio nel 323-324, nella seconda arrivò fino al 425. Egli si basò su un’ampia documentazione e fonti autentiche, ma elaborate in modo da rendere la narrazione ricca di aneddoti e di miracoli, cosicché la sua visione della storia della Chiesa è soprattutto apologetica.
Una donna di nome Eusebia, una diaconessa della comunità macedone, aveva una casa e un giardino all’esterno delle mura di Costantinopoli, in cui conservava i santi resti dei quaranta soldati che avevano sofferto il martirio sotto Licinio a Sebaste in Armenia [Minore]. Quando sentì approssimarsi la morte, lasciò in eredità le sue proprietà ad alcuni monaci ortodossi, obbligandoli, sotto giuramento, a seppellirla ai piedi delle reliquie dei martiri e a non informare di ciò alcuno. I monaci agirono secondo la sua volontà, ma per poter mantenere segreto l’onore dovuto ai martiri, secondo gli accordi presi con Eusebia, costruirono un locale di preghiera sotterraneo vicino alla tomba. Fu quindi eretta una struttura sulle fondamenta, ricoperta all’esterno con mattoni cotti, che celava una discesa segreta che andava alla tomba dei martiri.
Poco dopo, Cesare, un uomo al potere che in passato aveva coperto gli incarichi di console e di prefetto, rimase vedovo e volle seppellire la moglie vicino alla tomba di Eusebia, perché le due donne erano state legate da una tenera amicizia ed erano state sempre d’accordo su tutte le questioni dottrinali e religiose. Cesare comprò dunque quel terreno in modo che anche lui potesse essere sepolto accanto alla moglie. E i monaci si trasferirono altrove, senza divulgare la presenza delle reliquie dei martiri.
La costruzione esistente fu demolita, le macerie sparse all’intorno e Cesare fece erigere una magnifica chiesa in onore di Tirso martire.
Sembrava che Dio volesse far sparire quel luogo affinché la scoperta delle reliquie dei martiri potesse essere considerata come un evento assolutamente meraviglioso e notevole, come prova del favore divino verso la loro scopritrice.
La scopritrice, infatti, non era altri che l’imperatrice Pulcheria, la sorella dell’imperatore. L’ammirabile Tirso le era apparso tre volte, le aveva rivelato chi era nascosto sottoterra e le aveva ordinato di porre quelle reliquie accanto alla sua stessa tomba, in modo da ripartirsi posizione e onore. Anche i quaranta martiri le apparvero, vestiti di abiti splendenti. Tuttavia, l’evento sembrava troppo meraviglioso per essere credibile ed anche impossibile perché né gli anziani monaci di quella regione né altri, dopo aver fatto indagini e perlustrazioni, furono in grado di indicare la posizione dei martiri.
Dopo lungo tempo, quando ormai si erano perse le speranze, al presbitero Policronio, che precedentemente era stato al servizio della famiglia di Cesare, Dio fece ricordare che la località in questione era stata abitata tempo addietro dai monaci. Subito si recò dai monaci della comunità macedone per domandare di loro. Tutti i monaci erano morti tranne uno, che sembrava essere rimasto in vita con il solo scopo di precisare il punto in cui le reliquie dei santi martiri erano state occultate. Policronio lo interrogò pazientemente sul nascondiglio e sul desiderio di ritrovare i corpi, ma, a causa degli accordi presi con Eusebia, quel monaco dette risposte vaghe, finché non gli fu detto della rivelazione divina, dell’ansia dell’imperatrice e dell’insuccesso delle ricerche. Allora, il monaco confessò che Dio aveva detto la verità all’imperatrice: egli era allora un ragazzo che stava imparando la vita monastica dagli anziani, ma si ricordava esattamente che le reliquie erano state poste accanto alla tomba di Eusebia, tuttavia gli avvenimenti e le molte modifiche succedutisi nel frattempo in quel luogo gli impedivano di ricordare se le reliquie erano sotto la chiesa o in un altro posto.
In seguito Policronio disse: «È passato molto tempo, ma mi ricordo che io ero presente all’interramento della moglie di Cesare, perciò, giudicando dalla posizione rispetto alla strada, deduco che ella sia stata sepolta sotto l’ambone», cioè sotto il podio dei lettore. «Di conseguenza, – aggiunse il monaco – deve essere vicino ai resti di Cesare che va cercata la tomba di Eusebia, perché le due donne vivevano in stretta amicizia e intimità e avevano espresso il desiderio di essere sepolte vicine».
Seguendo quanto detto, era necessario scavare per recuperare le sacre reliquie e l’imperatrice, saputi i fatti, ordinò di avviare i lavori. Scavando dotto l’ambone si trovarono le casse di Cesare e della moglie come aveva supposto Policronio. A breve distanza, sotto la pavimentazione di mattoni cotti, posti in modo regolare, emerse la bara di Eusebia e accanto un’elegante urna di marmo bianco e viola. Alla sommità dell’urna, che era a forma di altare, stavano le reliquie ed era visibile un piccolo foro. Un addetto del palazzo imperiale si alzò in piedi e, presa una canna, la introdusse nel foro; quando la ritirò, l’annusò e sentì un dolce odore di mirra, che fu percepito anche dagli operai e dai presenti ispirando loro grande fiducia.
Quando avevano aperto la bara, erano stati trovati i resti di Eusebia e vicino alla sua testa sporgeva l’altro sepolcro, chiuso con propria copertura, e i due contenitori erano tenuti da ferri piombati assieme. In mezzo all’urna era il foro visto in precedenza dall’alto, per cui è risultato chiaro che essa conteneva le reliquie dei martiri. Immediatamente fu annunciata la scoperta e furono mandati alla chiesa i fabbri per dissaldare i ferri e aprire il coperchio: dentro c’era una gran quantità di profumi e, tra questi, si trovavano due cofanetti d’argento in cui erano disposte le sacre reliquie.
Allora l’imperatrice rese grazie a Dio per aver avuto fiducia in lei consentendole di ritrovare le sacre reliquie. Dopo onorò i martiri mettendoli in un scrigno molto prezioso e indisse una festa pubblica che fu celebrata in pompa magna con il canto dei salmi e alla quale io [Sozomeno] fui presente. Le reliquie furono disposte accanto all’ammirevole Tirso.
Molti altri che erano presenti possono testimoniare che ciò successe proprio nel modo descritto, in quanti sono tutti ancora vivi. Questo fatto è accaduto quando Proclo governava la Chiesa di Costantinopoli (2).
Note:
1. Sozomeno, Storia Ecclesiastica, Libro IX, capitolo II.
2. Il vescovo Proclo morì nel 446.
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