L’INFALLIBILITÀ DELLA CHIESA
(Tratto da: Teologia Dogmatica e Simbolica Ortodossa, 2, Roma 1996, pp. 238-250)
La questione dell’infallibilità della chiesa, specialmente dopo il dogma dell’infallibilità del papa nel concilio Vaticano I del 1870, ha ricevuto una particolare attenzione nel contesto della teologia simbolica ed ecumenica. Con un pronunciamento ufficiale, da una parte della chiesa, è stato riconosciuto che l’infallibilità si concentra su un portatore esterno, anzi su una persona. Nel caso concreto, la chiesa romano-cattolica ha dato una soluzione chiara e categorica sulla questione dell’infallibilità, che tocca i due lati della chiesa, quello esterno e quello interno, quello comunionale e quello istituzionale, quello amministrativo e quello carismatico. In altre parole, la chiesa romano-cattolica, in periodi di fatto cosmogonici e molto difficili per i suoi interessi, ha osato tagliare un nodo gordiano, decidendo espressamente qual è lo strumento dell’infallibilità. Il lato interno e carismatico del corpo ecclesiale non viene ignorato, ma sicuramente obbedisce all’espressione esterna dell’ amministrazione, anzi al capo del potere gerarchico.
Sono note le ragioni storiche che nel 1870 hanno imposto la promulgazione ufficiale dell’infallibilità che, a sua volta, ha provocato il dogma dei Paleocattolici, ma più importante ancora ne è la preistoria e, soprattutto, il contenuto teologico di una tale promulgazione. Lo spirito ierocratico e gerarchico della chiesa romano-cattolica si è insinuato dentro a condizioni storiche drammatiche, si è stabilizzato durante le lotte contro il potere mondano e, finalmente, si è rafforzato molto di più nella controversia con i protestanti di Lutero e gli altri riformatori. Gli estremismi si sono incontrati e acuiti al massimo: quello ierocratico e centralizzato della chiesa romano-cattolica e quello spiritualistico del protestantesimo. Questa polarità, che ha influito anche sugli argomenti teologici ed ecclesiologici ortodossi, molte volte pone il problema in maniera dialettica e assoluta: o si deve preferire un’autorità esterna, visibile e concreta, oppure si deve aderire all’espressione libera e spirituale dei membri del corpo, lottando contro ogni struttura e ogni tendenza di organizzazione.
Questa tensione sopra si risolve solo a partire dalla comunione e dalla vita carismatica. Dal corpo germoglia l’ordine gerarchico e non, viceversa, dall’ordine gerarchico il corpo. Certamente il potere carismatico degli apostoli e, per mezzo di essi, quello dei vescovi è concesso da Dio, ma questa funzione è inconcepibile senzala cooperazione simultanea e la presenza del corpo. Tuttavia la posizione romano-cattolica sulla priorità e l’importanza del potere gerarchico non la si può interpretare come conseguenza della priorità del corpo vivo dei membri della chiesa. D’altra parte la posizione protestante sulla base spiritualistica del corpo ecclesiale, se inizia correttamente, poi devia, scontrandosi con la struttura ierocratica della chiesa romano-cattolica. Ne emerge un rifiuto di ogni organizzazione storica e una trascuratezza del divenire storico della chiesa. Sta qui la seria deviazione del protestantesimo dalla continuità della successione apostolica, che esso rifiuta identificandola ad uno strumento puramente esterno, sclerotizzato e amministrativo.
Tuttavia la successione apostolica, come sostiene a ragione Florovskij, non è un vestito esterno di strutture amministrative e canoniche, ma è lo stesso corpo carismatico come vita, come contenuto di insegnamento e di fede e come esperienza profonda del contenuto della salvezza. La concatenazione esterna della successione garantisce solo la continuità e il prolungamento di questa vita dentro gli schemi storici. In altro modo, invece, si presenta un organismo vivo senza rapporti e adattamenti esterni al contesto storico, imposti automaticamente. La ricchezza carismatica della chiesa possiede sempre dei portatori che trasmettono verso l’esterno la loro offerta spirituale. In questa offerta e in questo incontro si crea un rapporto storico. La prima parola su questa presenza esterna appartiene all’organizzazione gerarchica di tutto il corpo. Su qualche punto si verificano anche degli scontri ed è qui che la gerarchia mostra il suo volto, senza mettere da parte la ricchezza carismatica. Di conseguenza, l’organizzazione gerarchica con i suoi precetti esterni ha un carattere provvisorio, come prevedono anche i canoni della chiesa. L’elemento fondamentale e primario è quello del corpo carismatico.
Tuttavia tutte le tensioni e gli sforzi nell’ambito romano-cattolico e protestante per stabilire l’autorità che possiede l’infallibilità, portarono necessariamente ad un’altra esagerazione, ossia alla collocazione dell’infallibilità in un ambito diverso da quello del corpo ecclesiale e della verità. Indirettamente chi segue questa via riconosce che la chiesa come corpo non vive e non possiede la verità, pertanto, è necessario un veicolo esterno, infallibile, per ricordarla e garantirla. Questo fatto, benché sia esagerato, può considerarsi giusto, almeno in quei casi in cui la chiesa nella sua vita subisce influssi, persecuzioni e tentazioni diverse. In queste situazioni molti membri possono essere ingannati, il che indica la necessità di uno strumento infallibile. Rimane però il problema sul rapporto di questo strumento con la verità. Dove si trova la verità e lo strumento come viene informato o come la fa sua? Forse la verità si identifica con lo strumento stesso e, di conseguenza, esso non ha bisogno di un rapporto con essa? Qui sta la soluzione teologica del problema.
Quest’autorità esterna, se possiede da sola la verità, o meglio, se la riceve direttamente da Dio, la comunica al corpo ogni volta che ce n’è bisogno. In un caso del genere la base ecclesiologica del corpo si capovolge con conseguenze dannose. Se, invece, la verità è vissuta dal corpo, lo strumento esterno si informa su di essa attraverso la sua comunicazione con la vita del corpo. Nel caso della presenza di membri che vivono nell’errore, lo strumento dell’infallibilità attinge la verità dal corpo sano, anche quando esso possiede in sé la verità. Ma se la verità viene vissuta dal corpo sano, esso ha di per sé un rapporto con l’infallibilità. In questo caso l’infallibilità non può appartenere solo ad un portatore.
La teologia ortodossa indica una via d’uscita da questo vicolo cieco secondo la sua tradizione di vita. La tradizione non si impone dal di fuori, ma è vissuta come esperienza continua all’interno della chiesa, passando dalla struttura interna a quella esterna, e mai viceversa. Se avviene il consolidamento della parte esterna della chiesa, questo significa crescita del corpo carismatico: abbiamo un insegnamento retto perché viviamo correttamente; non viviamo correttamente perché abbiamo un insegnamento retto. Pertanto l’esperienza infallibile della chiesa prima di tutto si scopre nella dimensione del corpo carismatico, nella sua stessa vita. La comunità stessa nel suo insieme, con i veicoli carismatici, si pronuncia sulla strada retta o sbagliata. Il corpo è la comunità della chiesa ed è ovvio che la funzione di questo corpo costituisca il solo mezzo di diagnosi della vita retta o errata. Questa diagnosi si fonda prima di tutto sui rapporti dei membri del corpo e sulla relazione del corpo con le forze del mondo. Le immagini e le posizioni patristiche, che chiariscono e descrivono questi rapporti, sono molto significative. L’immagine più importante è il confronto della situazione malata o dell’apostasia nell’ambito della chiesa con la prostituzione.
Questa immagine è descritta molto bene nella storia di Israele come rapporto con un Dio «geloso». Ogni apostasia del popolo costituisce un’offesa ad un rapporto prestabilito, perciò viene chiamata prostituzione o adulterio. Ad esempio, Osea sposa l’adultera Gomer per mostrare che Dio considera il suo popolo adultero, ma per un amore che sa perdonare gli chiede di nuovo un rapporto. Il criterio della corruzione del popolo si manifesta nel suo atteggiamento e nei suoi rapporti, ossia nel contenuto della sua vita. Secondo Cristostomo la prostituta Raab è l’«immagine della chiesa»; i gentili, che sono apostati e commettono prostituzione nei confronti di Dio creatore, per mezzo di Raab ricevono gli inviati di Dio. Questo fatto è il preannunzio di un accordo che porrà fine alla prostituzione. La prostituzione è un rapporto distorto, una disfunzione e segno di staticità nel rapporto agapico. Il corpo che si prostituisce mostra i segni della sua cattiva condotta. Questa situazione mortifica la fioritura della vita, è demoniaca e, nel contempo, tirannica; è una «incarcerazione», secondo l’espressione di Nicola Cabasilas. La distruzione di questo carcere, della prostituzione, si realizza con la costruzione del corpo ecclesiale. Quando c’è distorsione, ci vuole vera correzione, cura ed edificazione di una vita nuova. La vita cristiana ha espressioni tangibili; inizia con un cammino che si perfeziona solo con il completamento dell’edificio che è la chiesa.
La base per una giusta considerazione dell’infallibilità è la pneumatologia, che è necessaria, perché l’infallibilità non può essere un’autorità esterna e dominante, ma è la vita stessa del corpo della comunità e, precisamente, i diversi carismi come funzioni di un corpo. L’esame di tutte queste funzioni carismatiche può essere fatto solo se si ammette la vita di questo corpo, che si fonda sulle energie dello Spirito Santo. Queste energie, nella manifestazione dei carismi, connettono e unificano il corpo vivo, affinché la sua struttura gerarchica sia a vantaggio del corpo, ossia carismatica, e non oppressiva a svantaggio di esso. Da questo punto parte una pneumatologia corretta e sostanzialmente ortodossa. La comunità dei membri ha come fondamento e modello la comunità trinitaria; i rapporti tra i membri sono rapporti d’amore, vivi e pneumosantificanti, cioè carismatici. Nella comunità trinitaria e, di conseguenza, nel corpo vivo di Cristo, ossia nella chiesa, non fiorisce il cristocentrismo o qualche altra considerazione unilaterale di un’opera o di una sola persona della Santa Trinità. Né la comunità delle persone viene messa in difficoltà né le espressioni carismatiche ed energetiche sono messe da parte. Questo è il presupposto fondamentale di una pneumatologia ortodossa e di una giusta valutazione dell’infallibilità della chiesa. Solo così possiamo comprendere che cosa significa coscienza ecclesiale o senso ecclesiale. Non si tratta della coscienza individuale, ma dell’esperienza delle energie pneumosantificanti per mezzo dei carismi. Tutto il corpo vive e ha esperienza di questa vita. I temi di insegnamento e dello stabilimento dell’attività vengono pronunciati come strumenti carismatici; ma ogni decisione deve essere in accordo con l’esperienza del corpo.
Pertanto la coscienza è quella della chiesa una, santa, cattolica ed apostolica. Se non ci sono i presupposti sopra menzionati, la chiesa non può essere una, perché non avrà la sua unità trinitaria – ben altro è il discorso dei carismi personali, nel cui contesto non c’è uniformità sommaria né dominio individualistico – ma rotture o fossilizzazioni in alcuni rappresentanti del corpo. Le conseguenze di una tale perdita sono gravi: si perdono, ad un tempo, la santità, l’incorruttibilità e la crescita del corpo comune e incomincia a dominare l’elemento demoniaco e l’aspetto egocentrico ed individualistico. La santità, come fioritura di un unico corpo è minacciata e si altera. E l’elenco delle conseguenze negative potrebbe continuare. La chiesa perde o si pone nella condizione di perdere la cattolicità e l’apostolicità. La cattolicità, come compimento della vita e della verità, viene perduta perché la rottura dell’unità e della santità comporta la distorsione di ciò che vive il corpo e l’alterazione della verità. La verità, come realtà, e la vita, come movimento verso il perfezionamento, incontrano ostacoli insuperabili. Infine, l’apostolicità viene messa in pericolo, perché la tradizione dei beni apostolici non è altro che la costituzione di questo corpo ecclesiale per mezzo delle energie del Paraclito; questo corpo è uno, santo e cattolico.
L’infallibilità è, dunque, questa stessa vita del corpo comune, sempre presente e che si esprime. Se questa vita non fosse presente, non sarebbe possibile il discorso sull’infallibilità, sull’autorità e su quella persona che pronuncia l’insegnamento dogmatico. Tutto deriva dalla partecipazione di questo corpo vivo alla gloria del regno di Dio. Il regno di Dio è più grande della chiesa, perché è la gloria increata. Qui si trova anche il punto più critico della teologia, che cerca di esplorare il contenuto e i portatori dell’infallibilità. Occorre chiarezza sulla distinzione tra il contenuto e la persona che lo veicola. Il contenuto consiste nella vita concreta dei membri del corpo, nella loro partecipazione alla gloria increata del regno divino. Questo contenuto dell’infallibilità esiste solo in questa partecipazione, che si esprime in un’ulteriore esperienza della vita con la creazione di numerosi «monumenti». In questo senso la contestualizzazione dei veicoli dell’infallibilità risulta facile: è tutto il popolo, la teologia e, infine, il potere episcopale con i sinodi. L’importanza e la priorità è sempre del contenuto e non del veicolo. Si capisce facilmente che se la teologia e, prima di tutto, la vita della chiesa perdessero questa dimensione della partecipazione alla divina gloria, le sclerotizzazioni e le fossilizzazioni in tutto il corpo sarebbero inevitabili; non è più presente l’organismo dinamico ed escatologico che attua il corpo vivo per mezzo delle energie carismatiche dello Spirito Santo.
Berdiaiev osserva che la teologia della chiesa romano-cattolica ha perso la dimensione della profondità e dello spirito creativo seguendo la linea agostiniana che identifica la chiesa con il regno di Dio. Questa identificazione ha condotto alla sottolineatura della città terrena di Dio in opposizione alla città diabolica. Di qui ebbe inizio l’impero ecclesiastico nell’Occidente, che ha fortemente segnato la storia del medioevo occidentale. Il potere cosmico ed ecclesiastico si identificarono con l’accentuazione del potere ecclesiastico. Nel caso concreto la chiesa devia dal suo scopo che è la partecipazione dei suoi membri e dell’intera creazione alla gloria del regno divino. Ne consegue il consolidamento dell’infallibilità da parte della chiesa romano-cattolica nelle mani di un portatore di autorità.
Il corpo carismatico della chiesa non si può intendere senza un collegamento organico tra il popolo e la gerarchia. Senza il popolo non si può avere gerarchia e senza la gerarchia si cade in una considerazione spiritualistica della chiesa, che ogni gnostico o filosofo fautore dello gnosticismo potrebbe facilmente ammettere. Sotto quest’angolatura possiamo interpretare correttamente il ruolo del sistema sinodale e, ancora più, del concilio ecumenico, dentro la vita della chiesa. Prima di tutto si deve osservare, alla luce della teologia ortodossa, che il sinodo nella chiesa è inteso come un raduno di tutto il corpo per esprimere la verità e la bontà del suo contenuto in modo dossologico, liturgico e didattico. Questo era il senso del sinodo apostolico e degli altri sinodi locali. La diversificazione, che iniziò a partire dal IV secolo, secondo cui nel sinodo partecipano soprattutto i vescovi, è dovuta a ragioni tecniche. In ultima analisi, i vescovi sono necessari come rappresentanti del corpo del popolo, approvando la verità e la vita del corpo stesso.
Si potrebbe affermare che solo un concilio ecumenico è il veicolo esclusivo di un’espressione concreta del contenuto della verità e della vita del corpo. L’autorità del concilio ecumenico è ovvia, ma anch’esso si deve intendere nel contesto di tutta la vita del corpo, mentre, d’altra parte, ci sono anche altre espressioni della vita carismatica, come la teologia, l’energia terapeutica dei sacramenti della chiesa, i raduni locali, il contenuto della fede del popolo, la vita dei santi e così via. D’altronde per tre secoli la chiesa ha vissuto la maestà della gloria e dei martiri, senza un concilio ecumenico. In momenti critici la chiesa stessa decise la convocazione dei concili ecumenici, per quanto lo permettevano le situazioni esterne. Essa ha la capacità spirituale di vivere per secoli senza un concilio ecumenico e, contemporaneamente, può prepararne uno.
Un concilio ecumenico è il frutto di tre tappe all’interno della stessa vita ecclesiale del corpo. Nella prima tappa la chiesa, come insieme di membri vivi, comprende che la guerra contro le potenze demoniche e corruttive si intensifica al massimo. Ogni influsso demoniaco e ogni opposizione eretica provocano le forze sane della chiesa: la teologia, l’insegnamento, la pastorale, la vita liturgica e ogni tipo di spiritualità. Tutti i mezzi sono necessari per questa battaglia e per l’autodifesa. La mobilitazione di tutte le potenze suscita nelle coscienze il problema e, di conseguenza, domanda la sua soluzione con la convocazione di un concilio ecumenico. Così la gerarchia della chiesa, che è chiamata alla realizzazione di una convocazione, obbedisce al bisogno e alle esigenze del corpo. Essa, quindi, non convoca il concilio solo di sua iniziativa, ma prende in considerazione le esigenze del corpo carismatico nel suo insieme.
Con la convocazione incomincia la seconda tappa, che include l’atto della convocazione e la chiusura del concilio, il quale, rappresentando il corpo, decide «seguendo i santi padri», cioè in accordo con tutta la vita del corpo e con l’insieme della tradizione. La tradizione del corpo è espressa dai santi padri. Le decisioni conciliare non si costruiscono dal nulla, né sono separate dai bisogni concreti del corpo. Esse corrispondono, inoltre, alle esigenze del contesto spirituale e della lotta delle forze sane contro le deviazioni eretiche. Così pure le sentenze saranno sottoposte al controllo del corpo e devono essere addotte per un’applicazione decisiva.
La terza tappa concerne il riferimento delle decisioni al corpo della comunità. Il concilio viene provato dalla tradizione. Solo all’interno della vita del corpo si formerà una coscienza di ecumenicità. Il carattere ecumenico viene convalidato dalla vita della chiesa presa nel suo insieme. Pertanto un concilio non è ecumenico solo perché assolve alle forme esteriori dell’ecumenicità – convocazione del concilio, partecipazione dei rappresentanti ecc. – ma perché è in accordo con la vita del corpo. Questa esperienza della vita, se si è attuata nella storia, può controllare e respingere i concili formalmente perfetti, considerandoli non ecumenici. I concili formalmente corretti, ma senza spiritualità. sono condannati e respinti dalla coscienza ecclesiale. Un concilio può avere esso stesso una coscienza ecumenica – il che non è necessario – ma anche questa coscienza di ecumenicità viene provata dalla vita e dal senso del corpo. Ad esempio, il concilio del 879/880, a Costantinopoli, aveva una coscienza ecumenica ed ha riconosciuto il concilio di Nicea del 787 come il settimo concilio ecumenico. Il concilio di Costantinopoli ha riconosciuto che cos’è il primato d’onore del vescovo di Roma e ha ristabilito sul trono il patriarca Fozio, riconoscendo il rispetto delle abitudini locali seguite dalle chiese. Questo concilio, riconosciuto da tutti come ecumenico, può essere accettato come tale anche ufficialmente da ogni altro sinodo. Tuttavia il riconoscimento appartiene prima di tutto alla coscienza della comunità. Grande e importante fu il sinodo di Costantinopoli del 1482, convocato dal patriarca Massimo III e chiuso dal patriarca Simeone I. Questo sinodo non riconobbe quello di Firenze del 1439, condannò le violenze del potere occidentale contro la popolazione greco-ortodossa – nelle isole dello Ionio, di Creta, di Cipro ecc. – e stabilì l’unzione con il miro di coloro che sarebbero ritornati dalla chiesa romano-cattolica a quella ortodossa. Tutti questi sinodi, in ultima analisi, si sottopongono al senso della comunità ecclesiale, pertanto quando l’infallibilità conciliare coincide con quella della comunità dei fedeli, è come se ricevesse una specie di carta d’identità: solo allora il concilio ecumenico è lo strumento infallibile della chiesa.
Il concilio ecumenico, dunque, non scopre la verità; non è neppure concepibile che la vita muoia e il concilio la faccia risorgere. «La verità non è stata scoperta dai sinodi, perché era persa», afferma il Florovskij, questa verità, come abbiamo già detto, è esperienziale e carismatica; precede a ogni sinodo e lo delimita. Verità ed eresia si scontrano prima di tutto a livello della vita e solo dopo a livello del pensiero, dell’attività e, naturalmente, della teologia. La chiesa ha sempre affrontato le eresie, perché viveva fortemente e rettamente il contenuto dei beni della sua tradizione.
È anti-ortodossa l’affermazione secondo cui il concilio ecumenico forma la coscienza ecclesiale o il senso della chiesa, come se i suoi membri vivessero in un mondo sconosciuto. Il concilio, semplicemente, chiarisce un insegnamento, lo interpreta e preserva alcuni suoi membri dall’inganno. Il senso della chiesa, però, è sempre vivo, altrimenti la vita della stessa comunità del corpo di Cristo sarebbe stata problematica.
Lo studio di S. Charchianakis, che già ho menzionato, sostiene una posizione contraria alla mia. Secondo lui, è il concilio che forma la coscienza ecclesiale e impone la verità. Su questo punto l’autore chiede: «Che cosa faceva la chiesa quando il suo insegnamento si trovava in pericolo a causa delle eresie che minacciavano la sua purezza? Aspettava la formazione della coscienza ecclesiale nei fedeli, per giudicare e, in seguito, per mettere da parte gli eretici, oppure interveniva spontaneamente per mezzo dei suoi strumenti canonici imponendo pene e illuminando l’insieme dei fedeli?». La risposta a questa domanda è semplice e facile, osservando prima di tutto che nel caso delle eresie, la chiesa – secondo l’autore, la gerarchia – non aspetta la formazione di una coscienza ecclesiale, ma prosegue nell’attuazione del suo compito. La gerarchia, però, non ha bisogno di aspettare la formazione della coscienza ecclesiale, perché essa è viva, o almeno, la gerarchia deve conservarla viva; altrimenti il corpo stesso non è vivo. Non si può, inoltre, comprendere, come la gerarchia – secondo l’autore, la chiesa – possa aspettare un’eresia per formare la coscienza ecclesiale per mezzo della condanna dell’insegnamento eretico. Di conseguenza, una domanda di questo genere, così come la pone l’autore sopra menzionato, non può offrire una soluzione al problema, perché essa non ha a che fare con il corpo vivo della chiesa.
La risposta dei patriarchi ortodossi all’enciclica papale di Pio IX del 1848 mostra in modo convincente lo spirito della teologia ortodossa. Alla pretesa papale del ritorno di tutte le chiese ortodosse alla chiesa occidentale, esse hanno risposto negativamente, perché la chiesa nell’ambito ortodosso è costituita da tutto il popolo, il quale non approva nessuna innovazione. L’enciclica di questi patriarchi ortodossi ha una base ecclesiologica molto importante.
La correttezza formale e la retta convocazione di un sinodo non sono mai i soli criteri di identità tra le sue decisioni e la verità del corpo della chiesa. La correttezza formale basta solo nelle comunità puramente legali e mondane. Spesso, d’altronde, per mezzo di essa viene uccisa la correttezza sostanziale. Il contrario avviene nella chiesa, perché essa è opera dello Spirito Santo. La correttezza formale in sé non dice nulla. Un sinodo può essere convocato formalmente come ecumenico, ma in realtà, può essere del tutto contrario allo spirito dell’ecumenicità. In altre parole, nella chiesa è necessaria l’identità tra la correttezza formale e il mistero dello Spirito Santo presente nel corpo della comunità. Solo così possiamo comprendere le parole di Gregorio il Teologo che suggerisce di evitare ogni sinodo dei vescovi, poiché nessun sinodo ha portato qualcosa di buono nella vita della chiesa. Questa posizione di Gregorio esprime la sua amarezza personale ma constata anche la verità sopra menzionata: deve esistere coincidenza tra la correttezza formale e quella sostanziale. Su questo punto si situa il mistero dell’infallibilità della chiesa.
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