PAUL FR. BALLESTER CONVALIER
“Sempre pronti a rispondere a vostra
difesa a chiunque vi domanda ragione della speranza ch’è in voi”
(I Pietro 3, 15)
ATENE 1954
TRADUZIONE DAL GRECO
TRADUZIONE DAL GRECO
IC XC
NI KA
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NAPOLI
PRESSO LA CHIESA DEI SS. PIETRO E PAOLO DEI NAZIONALI ELLENI
PRESSO LA CHIESA DEI SS. PIETRO E PAOLO DEI NAZIONALI ELLENI
1955
AL
NASCENTE MOVIMENTO ORTODOSSO ITALIANO
DEDICO
NASCENTE MOVIMENTO ORTODOSSO ITALIANO
DEDICO
† A. B. K.
INVECE
DI PREMESSA
Nell’ottobre dell’anno scorso 1954 è sorto a Catania ed a Firenze, promosso
da Italiani di puro sangue, un movimento che mira non ad un
Cattolicesimo riformato, ma addirittura ad un ritorno completo e sincero alle
origini, cioè alla genuina Chiesa Cristiana esistente prima del funesto grande
scisma tra Oriente ed Occidente consumato dal Papa Urbano II nell’anno 1098 nel
Sinodo di Bari da lui ivi convocato. I pionieri di tale movimento hanno trovato tale
Chiesa primitiva nella Chiesa Ortodossa Cristiana che è infatti l’unica genuina
continuatrice della Chiesa fondata da Gesù Cristo e divulgata dai SS. Apostoli.
È molto commovente il fatto che proprio in quest’anno che è il
novecentesimo dagli inizi dei primi aperti contrasti ecclesiastici tra
Occidente e Oriente, che condussero poi all’anzidetta separazione definitiva
dell’anno 1098, ha inizio con il movimento Ortodosso italiano in parola, il ritorno alla retta
dottrina di Cristo dei popoli Occidentali trascinati allo scisma. Il detto
movimento Ortodosso italiano, pur giovanissimo e recentissimo, conta già in
Catania ed in Firenze due Vescovi, quattro presbiteri, un diacono e circa
duecento aderenti e moltissimi simpatizzanti.
Ora, il molto Rev. Paul Fr. Ballester Convalier ex Frate
Francescano in Spagna – ora Presbitero Ortodosso – abbandonò anch’egli il
Cattolicesimo Romano e scrisse poi in greco un opuscolo intitolato “La mia conversione
all’Ortodossia” in cui espone con molta chiarezza il dramma della sua anima a tale
riguardo. Egli spirito studioso, occasionalmente veniva messo in seri dubbi
circa la verità di alcune dottrine fondamentali della Chiesa Romana a cui
apparteneva ed ha cercato sinceramente e ad ogni costo e sacrificio di arrivare
al fondo della questione. Ed è riuscito a trovarne, da solo, l’uscita dal cieco
vicolo in cui inconsciamente si trovava. Il dramma spirituale esposto dal Rev. Convalier è, senza dubbio,
il dramma di numerosissime altre anime incapaci di trovare l’uscita dal cieco
vicolo. Per venire incontro a tale stato e specialmente a tutti i simpatizzanti
del suddetto «Movimento Ortodosso italiano» sentiamo il dovere di presentare in
debita traduzione il su riferito documento del Rev. Convalier, sostituendo il
titolo originale: “La mia conversione all’Ortodossia” con quello: “Perché abbandonai la
Chiesa Cattolica Romana”, come più adatto al contenuto e come più comprensibile
ai lettori in Italia. Siamo convinti che finché l’Europa Occidentale e Centrale
non sarà rieducata alla retta fede cristiana, direi riortodossata, studi sì
fatti non saranno mai inutili.
Infine ringrazio il mio carissimo figlio in Cristo Sig. Augusto Scrino dell’aiuto
letterario prestatomi per la sollecita traduzione del presente.
Napoli, 25 Marzo 1955.
Festa dell’Annunziazione di M. V.
† Archimandrita Benedictos
Katsanevakis
DUE
PAROLE AL LETTORE
Non è scopo di queste pagine una personale giustificazione della
conversione dell’autore all’Ortodossia, ma esse, costituiscono una
testimonianza apologetica, commovente e riconoscente della purezza della fede e
dell’arditezza del suo insegnamento. L’originalità del presente studio, non
consiste precisamente nel tema, per il quale sono già state scritte
innumerevoli opere teoriche sotto ogni punto di vista ecclesiastico, ma nella
maniera originale con cui esso viene svolto. Padre Ballester non si è
contentato di presentare semplicemente la teorica espressione del suo giudizio
teologico; egli è possessore di un modo di vivere teologico dal quale si è
mosso verso il più doloroso dei cammini spirituali, verso il più penoso dei
sacrifici: l’abbandono della sua Chiesa e l’allontanamento dalla sua patria. L’espressione
di questo modo di vivere teologico e della sua autosincerità, solo una speciale
ispirazione ed una rarissima forza di volontà gli potevano permettere di
trasmutarla in una splendida realtà.
Durante la lettura dei capitoli che seguono, il lettore, avrà l’occasione
di seguire devotamente, passo per passo, il cammino contestato di questo monaco
Francescano dai suoi primi timidi dubbi fino alla più decisiva confessione
della Ortodossia, quale vera Chiesa di Cristo. Confessioni di tal genere, sempre
più in maggior numero e più frequenti, costituiscono anche un severo monito per
quella Chiesa, la quale ha perduto ormai la sua medioevale occasione di mutarsi
in un centro dittatoriale di un mostruoso impero politico-ecclesiastico.
Costituiscono anche la più espressiva delle istruzioni per quei gruppi
cristiani, i quali camminano ancora nel buio, per il ritrovamento del vero
gregge. Ma, innanzitutto, sono una delle più incoraggianti lezioni, che oggi
possiamo ricevere noi che siamo già ortodossi; una oggettiva ed appassionata
testimonianza per la purezza della nostra eredità religiosa, una devotissima
resa d’onore alla fedeltà con la quale i nostri progenitori seppero conservarla
illesa, e in mezzo alle dure prove storiche e alle più sfavorevoli epoche.
Uomini, come l’autore del presente studio, i quali sanno cosa credono e
perché, ed in qual modo sono giunti alla pienezza di questa fede e che sono
pronti a dare testimonianza ed a fare apologia di essa con la stabilità di una
certezza assoluta e con l’entusiasmo dei figli della Verità, sono chiamati in
primo luogo a trasmettere la luce dell’Ortodossia al buio delle non Ortodosse
filosofie cristiane con la potenza ed il successo con cui sarà possibile un
giorno la realizzazione di quella Ecumenica brama di un solo gregge ad un solo
Pastore, Gesù Cristo, per la quale il Signore pregò con tanta perseveranza,
verso il Padre Celeste.
Marsiglia, Marzo 1954.
Stanislao Jedeezewsky
* * *
I
PRIMI DUBBI
Il lungo e faticoso cammino della mia conversione all’Ortodossia ebbe
inizio, la prima volta, un giorno mentre ero occupato nella compilazione dei
cataloghi della biblioteca di quel monastero Cattolico-Romano al quale
appartenevo. Questo Monastero, uno dei più belli della Spagna nord-orientale,
appartiene all’Ordine Monastico di S. Francesco d’Assisi ed è costruito sulla
spiaggia mediterranea a pochi chilometri da Barcellona, mia città nativa. I
superiori del monastero mi avevano incaricato di ricompilare i cataloghi delle
opere e degli autori della nostra ricca biblioteca conventuale, onde metterli
al corrente circa tutte le perdite d’incalcolabile valore che aveva subito
durante l’ultima guerra civile spagnola, quando il nostro monastero fu
incendiato e in parte distrutto dai comunisti. Una sera, quindi, mentre ero
tutto preso dal lavoro, nascosto dietro una montagna di vecchi libri e
manoscritti semibruciati, feci una scoperta che produsse in me grande
meraviglia. In una busta, contenente scritti riferentesi alla Santa
Inquisizione dell’anno 1647, trovai una copia in lingua latina di un Editto di
Papa Innocenzo X col quale si scomunicava quale eretico ogni cristiano che
osasse credere, seguire o comunicare ad altri l’insegnamento dell’Apostolo
Paolo circa l’autenticità della sua dignità apostolica[1]. Continuando poi questo straordinario scritto faceva
obbligo ad ogni fedele di credere, sotto la minaccia del castigo nell’oltre
tomba, che l’Apostolo Paolo, in tutta la sua vita ed azione apostolica, cioè da
quando si convertì al cristianesimo fino alla sua morte non aveva esercitato la
sua opera apostolica liberamente ed indipendentemente da ogni potere temporale,
ma contrariamente egli dipendeva in ogni momento dalla monarchica autorità
dell’Apostolo Pietro, del Primo presunto Papa e Re della Chiesa. Questo
assoluto potere, aggiungeva lo scritto in parola, lo ereditarono per
successione diretta tutti gli altri Papi cioè i vescovi di Roma.
Confesso che se avessi rinvenuto nella biblioteca del monastero un libro
messo all’«Index»[2] non mi sarei maggiormente meravigliato.
Naturalmente non ignoravo gli eccessi ai quali erano incorsi i Tribunali della
Santa Inquisizione nel Medio Evo e nei tempi posteriori in fatta di temi
dogmatici. Era quella un’epoca in cui cercavano con ogni sacrificio di
macchinare una giustificazione teologica delle ambizioni imperialistiche del
papismo. Per la riuscita di tale progetto Roma aveva dato ordini espliciti ai
teologi e predicatori onde dimostrare con ogni mezzo che i Papi avevano
ricevuto da Dio il potere di regnare come Cesari sull’intera Chiesa Ecumenica,
quali eredi del presunto primato dell’Apostolo Pietro. In tal modo s’intraprese
in Occidente una vera campagna di diffamazione teologica dell’insegnamento
Ortodosso relativo al detto presunto primato dell’Apostolo Pietro con il doppio
scopo di essere messo il fondamento a qualche giustificazione teologica del
Cesarepapismo da una parte e dall’altra minimizzare l’autorità dei Patriarchi
d’Oriente di fronte alle pretese del loro confratello romano. Uno dei mezzi
principali per l’adempimento di questo progetto fu una sorprendente moltitudine
di pubblicazioni delle opere dei Santi Padri, opere falsificate o semplicemente
apposta erroneamente interpretate. In queste opere falsificate si cercava
intelligentemente e con l’aiuto di una errata interpretazione di alcuni passi
evangelici[3] di far apparire il famoso «Primatus Petri»
come un eccezionale privilegio che Dio concesse all’Apostolo Pietro e in
seguito ai suoi supposti successori, i romani Pontefici, in virtù del quale,
questi, avevano il diritto di esercitare una dittatura praticamente assoluta
sulla Chiesa Universale, di fronte alla quale l’Ortodossa veniva descritta come
ribelle. Così, una grande moltitudine di «Antologie» e di «Catene»[4] di passi patristici relativi al primato papale,
gran parte dei quali sono assolutamente falsi ed il resto di essi contraffatti
e con una base minima di contenuto autentico, uscirono dalle tipografie dei
conventi dei principali ordini Monastici dell’Occidente circolando in
sbalorditiva abbondanza nell’Europa Mediterranea[5]. Però, se i fedeli avessero meditato sul fatto che
l’Apostolo Paolo e gli altri Apostoli non erano sottoposti al potere assoluto
del così detto Primo Papa Simone Pietro, allora l’intero edificio dell’alterata
dottrina del Papismo sarebbe crollato da per sé. Per questo motivo i Vescovi di
Roma non smisero mai di condannare, scomunicare e terrorizzare con minacce di castighi
spirituali e d’oltretomba, i fedeli che avessero tentato di manifestare il
benché minimo dubbio in proposito.
I Tribunali della Santa Inquisizione sotto l’emblema «Il fine giustifica
i mezzi»[6] presero mandato di porre in atto altri mezzi più
convincenti, cioè di mandare al rogo e alle torture e di gettare nell’olio
bollente o scorticare vivi i più ostinati e «impenitenti» cristiani «in
nome della SS. Trinità e per il bene generale della Chiesa». Ciò
nonostante, non mi aspettavo mai che il fanatismo della mia chiesa l’avesse
spinta al punto di osare finanche la proibizione e la condanna d’insegnamenti
che con molta chiarezza sono contenuti nelle Sacre Scritture e che furono
insegnati dagli stessi Apostoli, come accadeva con lo scritto che tenevo fra le
mani. Questo superava ogni limite, perché scomunicare i fedeli seguaci dell’insegnamento
dell’Apostolo Paolo equivale ad una incomprensibile condanna della dottrina
Ortodossa di questo Apostolo, il quale nella seconda sua Epistola ai Corinzi
chiaramente dice che in nulla fu inferiore a nessuno degli altri Apostoli[7]. Quindi, quell’Editto di Papa Innocenzo X, mi
sembrava così incredibile che preferii esaminare la possibilità di qualche
errore tipografico o forse qualche fatale contraffazione del testo autentico,
cosa che d’altra parte accadeva spesso all’epoca che la cronologia del
documento indicava[8]. In ogni caso, però, autentico o falsificato che
fosse, oppure semplicemente alterato, giunsi alla conclusione che questo testo
costituiva nella nostra biblioteca conventuale, un elemento bibliografico
veramente curioso e degno di ogni attenzione e di ogni studio.
Molto presto, però, il mio interessamento si mutò in turbamento, quando,
dopo il confronto, nella Biblioteca centrale di Barcellona, accertai che non
solo questo documento era assolutamente autentico ma che esso non costituiva
l’unico monumento della sua specie. Difatti in due casi anteriori di quelle
sentenze della Santa Inquisizione dell’anno 1647, cioè del 1329[9] e 1351[10] i Papi Giovanni
XXII e Clemente VI avevano scomunicato e condannato ogni uomo e teoria che
avessero tentato di negare che l’Apostolo Paolo aveva operato sotto gli
incontestabili ordini e l’assoluto potere del presunto Primo dei Papi e cioè
dell’Apostolo Pietro. Precisamente per la medesima ragione il Papa Martino V
aveva scomunicato Giovanni Huss nel Sinodo di Costanza[11]. Posteriormente Pio IX
nel Sinodo Vaticano[12], Pio X nel 1907 e
Benedetto XIV il 1920, avevano ripetuto le medesime condanne nel modo più
categorico e ufficiale[13].
Esclusa, quindi, in tal modo, ogni possibilità d’errore o, di
falsificazione, non tardai a comprendere che con tutto ciò, cominciò a nascere
in me un doloroso problema di coscienza. Perché personalmente mi era
impossibile credere seriamente che l’Apostolo Paolo fosse stato guidato da qualche
potere umano. L’indipendenza e la libertà della sua opera Apostolica presso i
gentili, in paragone all’opera dell’Apostolo Pietro presso i giudei,
costituisce per me un avvenimento molto serio che non ammette neanche la minima
obiezione[14]. L’Apostolo Paolo «chiamato
all’apostolato non dagli uomini né per mezzo d’alcun uomo»[15] considerava Simone
Pietro come il secondo, dopo Giacomo[16] fra quelli «che
sono reputati colonne» e che a Paolo piaceva di chiamare così perché «erano
considerati di essere qualcosa» nella Chiesa di Cristo[17]. Però, aggiunge in
seguito, che, il posto che essi prendono lo lascia completamente indifferente,
trattandosi di semplici preferenze personali, che Dio non tiene seriamente in
conto[18]. In ogni modo,
l’Apostolo Paolo categoricamente afferma che chiunque siano gli altri Apostoli,
lui non era inferiore a nessuno. Ciò per me era chiarissimo, specie se si
prende in considerazione la spiegazione dei Santi Padri che su tale punto, non
lascia alcun dubbio. S. Giovanni Crisostomo, per l’Apostolo Paolo dice: «Dichiara
costui la sua parità con gli altri Apostoli e desidera confrontarsi non solo
con tutti gli altri, ma anche col primo fra di loro, per dimostrare che tutti
avevano la medesima missione e dignità»[19]. E difatti con assoluta
unanimità, tutti i Padri insegnano che «Tutti gli Apostoli furono quello che
era Pietro e tutti erano dotati dello stesso onore e potere»[20].
È impossibile essere sotto gli ordini di qualche autorità superiore di un
altro di essi, perché l’assioma d’Apostolo è «il più grande potere, la vera
vetta di tutte le potestà»[21]. Perciò S. Cipriano
sostiene che «Tutti costoro, ugualmente, sono pastori, malgrado che uno è il
gregge. E questo in piena concordia viene pascolato dagli Apostoli»[22]. E S. Ambrosio aggiunge
a tale proposito: «Se l’Apostolo Pietro aveva qualche precedenza fra gli
altri, questa fu precedenza di confessione non di onore. Precedenza di fede e
non di classe»[23]. Giustamente, quindi,
il medesimo Santo scriveva riferendosi al Papa: «Non possono essere eredi
dell’Apostolo Pietro coloro i quali non osservano, come lui, la medesima Fede»[24].
Tutta la questione quindi era chiarissima. Ciò nonostante il dogma
Cattolico romano che insegnava a riguardo perfettamente il contrario, mi poneva
nel tremendo dilemma di scegliere in coscienza e a dispormi o col Vangelo e la
Tradizione da una parte, o coll’insegnamento della mia Chiesa dall’altra.
Perché secondo il dogma Romano ecclesiologico, al cristiano, per salvare la sua
anima[25], è indispensabile
credere che la Chiesa, costituisce chiaramente una monarchia[26] di cui Monarca è
il Papa[27]. Perciò il Sinodo del
Vaticano riassumendo in proposito tutti i precedenti verdetti, rese
ufficialmente noto che: «Se qualcuno avesse detto che Pietro – presunto
primo Papa e Vescovo di Roma – non fu costituito da Gesù Cristo quale Principe
degli Apostoli e Capo visibile della Chiesa militante... sia scomunicato»[28].
Come mi sarebbe possibile concordare due tanto diametralmente opposte e
conflagranti disposizioni dogmatiche ?
I
CONSIGLI DEL CONFESSORE
Essendomi trovato quale naufrago nella più inesorabile tempesta spirituale
mi indirizzai al mio Confessore, al quale esposi in modo semplice e naturale il
problema che mi tormentava. Il mio Confessore era uno dei più istruiti e
prudenti Sacerdoti del monastero e non tardò a comprendere che il caso era uno
dei più seri e complicati. Dopo essersi concentrato per un po’in silenzio nelle
sue riflessioni, cercando invano una soddisfacente soluzione, si decise a dare
un tale svolgimento al problema che confesso francamente non mi aspettavo:
«Le Scritture ed i Santi Padri – mi disse con il più naturale
tono – vi hanno turbato. Lasciate da parte queste due cose e limitatevi
a seguire fedelmente l’infallibile insegnamento della nostra Chiesa, senza
indagare tanto nelle cose e senza domandare molto. Non permettete che le
creature di Dio, qualunque esse siano, scandalizzino la vostra fede verso la
Chiesa di Dio».
Tale inattesa risposta non fece altro che ingrandire maggiormente il mio
turbamento spirituale. Avevo creduto sempre che la parola di Dio era
esattamente quell’unica cosa che nessuno poteva «mettere da parte».
Secondo la mia concezione la Scrittura è ciò che determina la retta posizione
delle nostre credenze[29] e non sono le
nostre credenze a determinare l’ortodossia della Santa Scrittura. E per dire
con precisione, proprio dalla Santa Scrittura deriva a noi l’obbligo di «esaminare
noi stessi se perseveriamo nella retta fede o no»[30]. «Non voglio sentire
ciò “che dici tu” e ciò “che dico io” – dice S. Agostino – ma
tutti e due dobbiamo ascoltare ciò “che dice il Signore”. Indubbiamente
esistono libri del Signore, all’autenticità dei quali tutti e due ubbidiamo e
ci sottomettiamo. In tali libri dunque dobbiamo cercare di trovare la vera
Chiesa e solo in essi dobbiamo poggiare la nostra discussione»[31].
Il mio Confessore, senza per nulla darmi tempo a proporre la benché minima
obiezione aggiunse: «Vi darò in cambio un elenco di nostri scrittori, nelle
cui opere potrete trovare di nuovo la vostra calma spirituale, perché è in
questi libri, che senza la minima difficoltà, potrete ritrovare l’insegnamento
della nostra Chiesa». E chiedendomi se avessi «qualcosa di più
interessante» da riferirgli, dette termine alla nostra conversazione. Pochi
giorni dopo il mio Confessore se ne andò dal Monastero per un viaggio di
predicazione in diverse Chiese e Monasteri del nostro Ordine. E lasciandomi il
catalogo dei libri di cui mi aveva parlato, mi chiese di promettergli, che gli
scrivessi spessissimo onde tenerlo al corrente dell’andamento dei «miei
turbamenti spirituali».
Malgrado che le sue argomentazioni non mi avessero, per nulla persuaso
raggruppai tutti quei libri con la decisione di studiarli con la maggiore
possibile obiettività e scrupolosità. La più grande parte di questi libri era
costituita da testi teologici e da manuali di decisioni papali e di Sinodi «ecumenici»
papali. Mi misi con premura e sincero interesse allo studio di questi libri e
senza prendere nessuna altra misura preventiva che la Santa Scrittura che
tenevo aperta davanti a me «la lampada ai miei piedi e lume al mio sentiero»[32]. Né il mio Confessore,
né l’intera mia Chiesa sarebbero riusciti a compararmi con gli Giudei, i quali
furono biasimati dal Signore perché «erano in errore non conoscendo le
Scritture»[33]. Contrariamente, anzi,
sarei rimasto fedele secondo l’esempio di quei fedeli, che dopo aver accettato
la parola di Dio «con ogni prontezza»[34] furono encomiati
dall’Apostolo perché consultavano continuamente le Scritture onde controllare
ogni cosa che insegnava loro[35] per non essere
ingannati dalla «filosofia e da vane sottigliezze secondo la tradizione
degli uomini e non secondo Cristo»[36].
Ma a mano a mano che avanzavo nella lettura e nello studio dei testi che mi
avevano suggerito, cominciai, in principio piano e timidamente, con maggiore
sicurezza poi, a persuadermi che fino allora ignoravo quasi completamente la
vera natura e composizione organica della mia Chiesa. Dopo essere stato
annoverato nel Cristianesimo e battezzato, verso la fine dei miei studi
ginnasiali, seguii le lezioni di filosofia e allora mi trovavo ancora sulla
soglia della teologia Cattolico-romana, cioè di una scienza che allora
costituiva per me qualcosa di assolutamente nuovo e che mi compariva per la
prima volta. Fino allora Cristianesimo e Chiesa Romana costituivano per me due
idee, le quali esprimevano la medesima e indivisibile realtà. Nella mia vita
Monastica che trascorreva tranquillamente ed indisturbatamente mi assorbiva
soltanto l’aspetto puramente soprannaturale della questione, e poiché la mia
attenzione era attratta dai miei studi filosofici, non mi si era presentata
l’occasione di esaminare profondamente le ragioni e le basi della composizione
organica della mia Chiesa. Fu precisamente in quei testi ufficiali, controllati
con tanta perspicacia dal mio Confessore, che mi si cominciò a rivelare, sotto
il suo reale aspetto, questa paradossale religioso-politica organizzazione
monarchica che si appella Chiesa Romana.
Suppongo che un riassuntivo riesame dell’insegnamento dei su accennati
libri, da me studiati, non sarebbe superfluo.
LA
MONARCHIA DEL PAPA
Secondo la concezione cattolica-romana, la Chiesa, in primo luogo, «non
è che una monarchia assoluta»[37] di cui il Papa è
monarca, che, come tale agisce[38]. In questa monarchia
del vescovo di Roma «consiste tutta la potenza e la stabilità della Chiesa»[39] che, «non
potrebbe esistere senza di essa»[40]. Il Cristianesimo
stesso, dicono i papisti, «si appoggia completamente sulla base del papismo»[41] e ancor di più, «il
papismo è l’elemento più importante del Cristianesimo»[42] «la somma e la
sostanza di esso»[43]. Il potere monarchico
del Papa, quale «supremo Sovrano e Capo della Chiesa», «Pietra
angolare», «Maestro infallibile della Fede», «Rappresentante
unico di Dio sulla terra», «Pastore dei Pastori», «Vicario di
Gesù Cristo», «Dolce Cristo in terra», «Dolce Cristo parlante»
ecc. ecc. è assolutamente autoritario, in ogni momento esecutivo e si estende
su tutto il mondo[44].
Tale autorità papale si estende, si dice, «per divino diritto»
contemporaneamente[45] su tutti i
battezzati del mondo intero e su ciascuno uomo separatamente[46]. Tale potere
dittatoriale, quindi, può mettersi in azione in ogni momento su ogni cattolico
cristiano direttamente sia laico che chierico, Vescovo, Arcivescovo, Cardinale
ed anche Patriarca ed ancora su ogni Chiesa di qualunque specie liturgica e di
qualunque lingua[47], perché il Papa è il
primo vescovo in ogni vescovado o diocesi del mondo[48]. Coloro i quali negano
di riconoscere tutto questo potere o non sottostanno ad esso «ciecamente»[49] sono «scismatici,
eretici, empi e sacrileghi»; e le loro anime sono fin da ora predestinate a
esser gettate nel fuoco eterno, in quanto da ogni punto di vista è
indispensabile, per la salvezza dell’anima, la fede nella divina istituzione
del Papato e la sottomissione ai suoi rappresentanti[50].
E così il Papa sembra incarnare quel fantastico Sovrano, nel sollecito
avvento del quale credeva Cicerone, e per il quale scriveva che gli uomini
avrebbero dovuto riconoscerlo per salvarsi[51]. E, sempre secondo il
dogma Romano, «dato che il Papa, ha il diritto d’intervenire e giudicare su
tutte le questioni spirituali di tutti e di ogni singolo cristiano, a maggior
ragione ancora, può intervenire nelle loro questioni terrene e materiali»[52]. Per questa ragione
egli può limitarsi soltanto alla imposizione di pene spirituali ed alla
privazione della salvezza dell’anima di coloro, i quali negano di sottomettersi
a lui, ma «similmente ha il diritto di obbligare i fedeli ad ubbidirgli
costringendoveli»[53]. Ciò perché «la
Chiesa tiene due spade: l’una simbolo del potere spirituale e l’altra simbolo
di quello mondano o temporale. La prima spada sta nelle mani del clero e la
seconda nelle mani dei Sovrani e soldati, ma similmente anche questa sta sotto
il criterio e la volontà dei preti»[54].
Il Papa che pretende di essere il Rappresentante e Plenipotenziario sulla
Terra di Colui «il cui regno non è di questo mondo»[55], di Colui il quale
proibì agli Apostoli di esercitare la minima dominazione o sovranità sui fedeli
è, con tutto ciò, anche Sovrano temporale facendo, in tal modo, continuare
nella sua persona, la tradizione imperiale dei Cesari di Roma «della Città
eterna» e regina del mondo[56]. Nel corso della
storia, il Papa, divenne Padrone e Sovrano di grandi Stati e condusse le più
sanguinose guerre contro gli altri Re cristiani al fine di conquistare una
nuova parte di terra o anche, semplicemente, per soddisfare la sua insaziabile
sete di dominio. Ottenne ancora migliaia di servi e svolse parte primaria e
molte volte decisiva nella politica internazionale. Il «dovere dei Sovrani e
Governanti cristiani» è di indietreggiare di fronte «al Re per divino
diritto» cedendo il loro regno stesso a questo trono ecclesiastico-politico
«che è stato istituito quale ornamento e sostegno di tutti i restanti troni
del mondo»[57]. Oggi, il regno mondano
del Papa, si limita alla sola Città del Vaticano, la quale costituisce uno
Stato indipendente con rappresentanza diplomatica negli Stati dei cinque
continenti del globo terrestre, con un esercito mercenario, con armi, polizia,
prigioni, propria moneta circolante, commercio, ecc.
E come coronamento di questa sua onnipotenza, il Papa, ha ancora un’altra
più tremenda prerogativa che nello stesso tempo è anche l’unica nell’intero
mondo; è una mostruosa e inaudita prerogativa, simile alla quale nemmeno
l’orgiastica fantasia delle più grossolane religioni idolatriche può mai
sognare. Il Papa, secondo tale immaginaria prerogativa, è per diritto divino «Infallibile»,
secondo la definizione dogmatica del Concilio Vaticano dell’anno 1870[58]. Di conseguenza da
allora l’umanità a lui deve rivolgere quelle parole che prima rivolgeva al
Salvatore: «Tu hai, Signore, parole di vita eterna»[59]. In avvenire non c’è
più bisogno della presenza dello Spirito Santo per guidare la Chiesa «in
tutta la verità»[60] non c’è bisogno
più nemmeno delle Sacre Scritture né della Tradizione, dato che già esiste un
Dio sulla terra col potere di. rendere inutili o anche di proclamare ancora
come errati gli insegnamenti di Dio dei Cieli[61].
In base a questa infallibilità, il Papa, e solamente il Papa, è il Canone
della Fede[62], e può proclamare,
anche senza il consenso della Chiesa, quanti che siano nuovi dogmi ai quali, i
fedeli, hanno il rigoroso obbligo di credere ciecamente se vogliono sfuggire ai
castighi dell’inferno nell’oltretomba[63].
«Dipende soltanto dalla volontà e dal piacere di Sua Santità –
scriveva il Cardinale Baronius – che l’intera Chiesa creda sacro e
santo ciò che lui desidera[64] e bisogna che le
sue Epistole Pastorali siano considerate, credute e ubbidite «come scritture
canoniche»[65]». Come logica
conseguenza di tale infallibilità, risulta, che gli insegnamenti papali devono
essere osservati con una tale cieca obbedienza che lo stesso Cardinale
Bellarmino, il quale è stato proclamato «santo» dalla Chiesa Romana,
nella sua celebre «Theologia»[66] espone tale
supposizione con la più grande naturalezza: «Se qualche giorno il Papa avesse
errato, consigliando peccati e proibendo virtù, la Chiesa, sottopena di peccato
contro coscienza, sarebbe stata obbligata a credere che in realtà i peccati
sono buoni e le virtù cattive». Il Cardinale Zabarella va ancora oltre e
assicura che: «Se Dio e il Papa si radunano in un Concilio... il Papa può
fare (colà) quasi tutto ciò che fa Dio... e il Papa fa tutto
ciò che desidera, sia pure illegalità e in ciò, egli, è qualcosa più che Dio»[67].
Quando ebbi terminata la lettura di tutti quei libri consideravo me stesso
estraneo in seno alla mia Chiesa la di cui composizione organica, era chiaro,
non aveva nessuna relazione con la Chiesa istituita dal Signore, organizzata
dagli Apostoli e i loro successori, e i SS. Padri avevano descritta e resa
chiara. Secondo la mia concezione una tale organizzazione papista,
difficilmente si sarebbe potuta identificare con la Chiesa di Cristo perché non
è edificata sopra la roccia che è lo stesso Gesù Cristo ma sopra l’instabile
sabbia d’immaginarie prerogative del Papa che si dice, ereditò da Simone Pietro
il quale, però, non le aveva mai avute e neppure immaginate.
«Noi – dice S. Agostino, uno dei più grandi Padri della Chiesa
Romana – noi, che siamo cristiani e che con le nostre parole e opere,
non crediamo a Pietro, ma a Colui che lo stesso Pietro aveva creduto... Colui,
il Cristo, il Maestro di Pietro il quale lo catechizzò alla strada che conduce
alla vita eterna, Colui è anche il nostro unico Maestro»[68].
E difatti come sarebbe stato possibile ammettere seriamente l’infallibilità
dei Papi, i quali usurpano il titolo di «esclusivi successori»
dell’Apostolo Pietro che fu precisamente il solo fra tutti gli Apostoli, il
quale, come disse lo stesso Signore, in determinati casi non sapeva quello che
diceva[69]. Infallibile Simone
Pietro, il quale fu ripreso dall’Apostolo Paolo perché «fosse da riprendere»[70], poiché «non
camminava secondo la verità del Vangelo»?[71] Infallibili coloro
i quali si autoappellano «legali successori di quello al trono e al
Vescovado di Roma» dal momento che sapevo benissimo che fra essi
s’incontrano non pochi nomi di generatori di tanti scandali, quali il Papa
Marcello, notoriamente apostata e idolatra che sacrificava a Venere, come è a
tutti noto, entro al medesimo tempio di questa e dinanzi al medesimo altare di
essa?[72] Infallibile,
dunque, Papa Giulio, il quale, fu scomunicato quale eretico dal Sinodo di
Sardica?[73] Infallibile anche
Liberio, che seguiva gli errori di Ario e condannò quale eretico S. Attanasio,
il grande protagonista dell’Ortodossia?[74] Infallibile anche
Papa Felice II per il quale, S. Attanasio dice che fu eletto Papa da tre suoi
eunuchi e ordinato da tre spie dell’Imperatore, e fu aspirante degno dei suoi
elettori della sua medesima pasta, dato che le di lui eretiche credenze erano
pubblicamente note, e generalmente tutta la sua condotta nel suo insieme si
adattava bene ad un Anticristo?[75] Infallibile Papa
Onorio, il monotelita[76] e Gelasio, il
quale seguiva credenze eretiche nel dogma della S. Eucaristia? Infallibile Papa
Sisto V, del quale circolò una edizione delle S. Scritture «corretta con le
sue stesse mani e nella pienezza della sua Apostolica autorità» la quale
era tanta piena di errori di ogni sorta che fu necessario ritirarla subito nel
mezzo del più grande scandalo?[77] Infallibile Urbano
VIII che condannò quale eretica la teoria di Galileo secondo la quale la terra
gira intorno al sole?[78] Infallibili i Papi
Zaccaria il quale proibì sotto pena di scomunica di credere che la terra è
rotonda?[79] e Pio II il quale
ebbe l’ammirevole sincerità di avvertire amichevolmente il re Carlo VII di
Francia che non bisogna credere in tutto ciò che i Papi dicono, perché il più
delle volte parlano per passione o per interesse?[80] Infallibile Papa
Pio IV, il quale ebbe l’ardire di trasgredire il VII Canone del Concilio
Ecumenico di Efeso[81] e con ciò si rese
spergiuro del giuramento che dette durante la cerimonia della sua
intronizzazione?[82]
La Chiesa, dice S. Cipriano e non il Vescovo di Roma, è quella «pura e
vivificante acqua, che non può essere intorbidita e misturata, perché la
sorgente dalla quale scaturisce è pura e limpida»[83]. All’intera Chiesa
e non esclusivamente ai Papi, Nostro Signore Gesù Cristo promise assistenza
perpetua e continua fino alla consumazione dei secoli[84]. A favore di tutta la
Chiesa, e non solo a Pietro e ai suoi presunti successori, promise d’invocare
dal Padre Suo lo «Spirito della Verità»[85], quello Spirito che insegna
tutta la verità[86] e tutto lo scibile[87]. E precisamente per
questo motivo l’Apostolo Paolo chiama la Chiesa e non Pietro «colonna e base
della Verità»[88]. E ancora, per la
medesima ragione, S. Ireneo insegna che, in nessun altro luogo, ma soltanto
nella Chiesa, bisogna cercare la Verità di Cristo, perché «solo nel seno
della Chiesa troviamo questa Verità con tutta la certezza pura, integra, e non
rimescolata»[89].
Non solo a Simone Pietro, ma a tutti insieme gli Apostoli e ai suoi
discepoli il Signore disse: «Chi ascolta voi ascolta me»[90]. D’altra parte, durante
il corso della storia della Chiesa antica, dall’epoca della sua istituzione
fino al grande scisma, non v’è neppure il minimo precedente di un qualche
disaccordo o qualche questione di fede di grande importanza che fosse stato
risolto dai Vescovi di Roma. Cosa, secondo me, inspiegabile se questi ultimi,
in effetti, fossero stati realmente riconosciuti ed ammessi quali veri Capi
assoluti e di più infallibili della Chiesa Ecumenica. È universalmente noto che
nessuna delle grandi eresie fu mai debellata dai Papi di Roma, ma, esse, furono
combattute, sconfitte ed estirpate per mezzo di un Concilio Ecumenico o da un
Padre della Chiesa o da qualche santo Teologo. L’arianesimo, per esempio, era
condannato dal Concilio di Nicea e non dal Papa, che era egli stesso seguace di
Ario. Il Concilio di Efeso neutralizzò il nestorianesimo. S. Epifanio fu colui
che sconfisse gli gnostici, S. Agostino fu il grande confutatore del
pelagianesimo e così di seguito.
Ancora di più: i Vescovi di Roma, non furono giudici in nessuna di queste
grandi questioni ecclesiastiche, ma, viceversa, più delle volte, ne erano
imputati, accusati e perfino giudicati da altri Vescovi, Patriarchi, Sinodi e
Concili. Così, il Sinodo di Arelate decide sul dissidio sorto tra il Vescovo di
Roma e quelli d’Africa circa la questione dell’anabattesimo[91]. Anche la Chiesa
Africana scrisse al Vescovo di Roma come a quello di Alessandria esortandoli
severamente a pacificarsi[92]. Il Patriarca
d’Alessandria con i Vescovi Orientali scomunicò Papa Giulio nel Sinodo di
Sardica[93]. Papa Onorio fu
condannato e scomunicato dal VI Concilio Ecumenico[94], ecc. ecc.
Avendo assoluta convinzione di tutto ciò, convinzione, che d’allora in poi
in nessun modo m’abbandonò, scrissi al mio confessore la prima lettera dopo la
nostra separazione.
«Ho studiato i libri che la Vostra Reverenza ebbe la bontà di consigliarmi.
Ciò nonostante, la mia coscienza non mi permette di trasgredire ai comandamenti
di Dio prestando fede ad insegnamenti umani[95] che non hanno
neppure la minima base Biblica. Tali insegnamenti sono la catena degli
insegnamenti sul Papismo i quali vengono coronati dallo sragionamento sulla
infallibilità. «Noi possiamo riconoscere la vera Chiesa basandoci –
dice S. Agostino – sul criterio biblico, e non appoggiati su detti e su
sentenze, né sui Sinodi dei Vescovi, né sulla lettera morta dei dissidi,
chiunque essi siano, né su fallaci presagi e prodigi, ma soltanto su ciò che si
trova scritto sulle predicazioni dei Profeti, sui Salmi, sulle parole dello
stesso Buon Pastore Gesù, sulle opere e sugli insegnamenti degli Evangelisti e
in una parola, sulla canonica autenticità delle Sacre Scritture»[96]. Questo stesso Padre
scrisse contro i Donatisti: «Non voglio più sentire questo “tu dici” e “io
dico”, ma noi tutti sentiamoci “così dice il Signore”». Indubbiamente vi
sono libri del Signore, sulla cui autenticità entrambi concordiamo, ubbidiamo e
ci sottomettiamo. In essi quindi ricerchiamo la Chiesa e su di essi discutiamo
la nostra discordia e differenza»[97]».
Terminai la lettera al mio Confessore con queste parole: «Non mi allontanerò,
quindi, mai da ciò che costituisce il vero canone cristiano per la prova e la
conoscenza della vera fede e per la veridicità e genuinità di ogni dogma: cioè
non mi allontanerò mai e poi mai dall’autenticità della parola di Dio e dalla
Tradizione della sua Chiesa[98]. E certo i vostri dogmi
sono inconciliabili con il detto canone».
La risposta non tardò a venire: «La Vostra Reverenza non ha ascoltato i
consigli e gli orientamenti che le ho dato – lamentava il mio
confessore – e ha lasciato che la Bibbia continuasse la sua pericolosa
influenza sulla sua anima. I Santi Libri sono come il fuoco, il quale quando
non illumina, brucia e annerisce... e appunto per questa ragione i
Papi saggiamente decretarono che «si tratta di uno scandaloso errore credere
che tutti possono leggere le Sacre Scritture[99] ed i nostri
Teologi confermano che i libri Sacri della Bibbia costituiscono una oscura
nube, un recinto ove anche gli atei ancora possono trincerarsi»[100]. «La fede nella
chiarezza delle Scritture costituisce un dogma eterodosso[101] dicono i nostri infallibili
Capi. Riguardo poi alla Tradizione, non ritengo necessario ricordare alla
Reverenza Vostra, che dobbiamo «seguire innanzi tutto il Papa quando si tratta
di questioni di fede anziché a migliaia di Santi Agostini, Girolami, Gregori,
Crisostomi», ecc.[102]. E quando abbiamo la
interpretazione dataci da Roma riguardo a qualsiasi testo della Bibbia se pure
tale interpretazione può sembrare assurda e contraria allo stesso concetto del
testo bisogna che noi crediamo di essere in possesso della Verità della parola
di Dio[103]».
Tutte queste cose consolidarono maggiormente le mie convinzioni. Con tutte
le sue teorie, con tutti i dogmi della nostra Chiesa contrari anche con
lo stesso Papa, io, non avrei potuto mai mettere da parte la parola di Dio,
la quale è assolutamente e incontestabilmente retta e chiara per quelli che
hanno trovato la vera conoscenza[104]. Questo è la parola
della Luce[105], che può sembrare
oscura solo a quelli che vanno verso la perdizione e dei quali il Dio di questo
secolo ha accecato lo spirito[106]. La S. Scrittura è
ancora la parola di Vita[107], della Grazia[108], della Virtù[109] e della Salvezza[110] e non desideravo
divenire colpevole e accusato nell’ora del Giudizio trascurandola ora[111]. Io sapevo precisamente
che la fede nelle S. Scritture è la fede più retta di tutte[112], e assolutamente
cattolica[113], giacché solo la S.
Scrittura è sufficiente, come dice S. Attanasio, alla professione della Verità[114]. Perciò S. Giovanni
Crisostomo mette in rilievo che: «quando abbiamo la Sacra Scrittura è
insensato cercare altri maestri al di fuori di questa»[115]. «In essa –
scrive Sant’Isidoro Pelusiota – esiste tutto quanto è necessario
conoscere»[116] e «tutto ciò
che c’interessa imparare»[117]. Secondo S. Basilio il
grande: «è una evidente imperfezione della nostra fede ed una prova di
superbia, il rigettare qualcosa di quanto è scritto ivi, o, al contrario,
ammettere qualcosa che ivi non è scritto»[118]. Da ciò giustamente i
SS. Padri ne concludono che «bisogna credere solo in quello che è scritto
nei sacri Libri e ciò che ivi non è scritto, non bisogna cercarlo[119] né utilizzarlo
mai»[120].
La mia Chiesa, colpendo la S. Scrittura, non ottenne null’altro che perdere
davanti ai miei occhi ogni autorità, perché divenne simile a quelli eretici per
i quali S. Ireneo dice che «perché furono ripresi dalla parola di Dio
ritornarono di nuovo contro di Essa per criticarla»[121]. «Colui che si
adatta alle S. Scritture – dice il gran Crisostomo – è
cristiano. Se qualcuno la polemizza egli cammina fuori del canone. Se però
nello stesso tempo, egli viene a dirvi che la S. Scrittura insegna ciò che lui
crede, allora ditemi, voi, non avete criterio e intelletto?»[122].
Questo fu il mio ultimo contatto che ebbi col mio Confessore. Dopo di ciò non
credetti opportuno continuare la nostra corrispondenza e non gli scrissi più.
Nemmeno lui da allora in poi cercò di sapere di me, preferendo non impicciarsi
oltre del «mio spiacevole caso» dato che indubbiamente ciò avrebbe
potuto danneggiarlo nelle sue splendide possibilità che aveva per essere
ordinato Vescovo «Apostolicae Sedis Gratia» che tanto fedelmente aveva
servito in ogni momento.
Io, però, non mi fermai. Avevo cominciato «a deviare dal deviamento»
della mia Chiesa, seguendo una strada per la quale non era possibile fermarmi
se non prima d’aver trovato un luogo sicuro, almeno teoricamente. Il dramma che
vissi in quei giorni era che, mentre sentivo me stesso allontanarmi sempre più
dal papismo, dall’altro canto, non mi sentivo di avvicinare a nessun’altra
realtà ecclesiastica. L’Ortodossia, il Protestantesimo e l’Anglicanesimo non
costituivano allora per me che delle idee abbastanza confuse, e non era ancora
giunta né l’ora né l’occasione di pensare al come avrebbero potuto avere la
benché minima relazione col mio caso personale. Ciononostante amavo la mia
Chiesa che mi aveva fatto cristiano e della quale indossavo la tonaca. Era
perciò necessario approfondirmi e occuparmi sempre più largamente dello studio
della questione, per giungere piano piano e con tristezza alla accorata
certezza, che questa Chiesa in realtà era inesistente, e non occupava nessun
posto entro il regime papista. E difatti, innanzi al potere dittatoriale del
Papa, l’autorità della Chiesa e del corpo episcopale è praticamente nulla.
Perché secondo la loro teologia «l’autorità della Chiesa è autentica ed
efficace solo quando si armonizza con la volontà del Papa. In caso contrario
l’autorità della Chiesa non ha assolutamente nessun valore»[123]. Perciò, quindi, il
medesimo valore ha il Papa essendo assieme con la Chiesa e il Papa senza la
Chiesa; con altre parole, il Papa è il tutto e la Chiesa non è nulla. Giustamente,
quindi, scriveva con dolore il Vescovo More: «Mutando la sintesi della Chiesa,
mutiamo anche il di lei dogma. E da ora innanzi sarebbe più retto salmodiare
nella divina Liturgia : «Credo al Papa» anziché dire: «Credo in Una,
Santa, Universale e Apostolica Chiesa»[124].
Il significato e l’importanza dei Vescovi nella Chiesa Romana consiste
nell’occupare un posto di un semplice rappresentante subordinato all’autorità
papale sparsi in tutti gli angoli del mondo, alla quale autorità papale si
sottomettono nello stesso modo come si sottomettono anche i semplici fedeli. I
papisti si sforzano di giustificare tale stato di cose che prevale, basandosi
su una assurda interpretazione del 21° capitolo del Vangelo di Giovanni[125] secondo il quale,
dicono loro: «Il Signore affidò a S. Pietro, primo Papa, il mandato
pastorale sui Suoi agnelli e sulle sue pecore, cioè il mandato di massimo,
unico ed assoluto Pastore su tutti i fedeli che vi sono simboleggiati con gli
agnelli e su tutti i restanti Apostoli e Vescovi, i quali vi sono simboleggiati
con le pecorelle»[126]. Ma anche i Vescovi nel
cattolicesimo romano non sono per idea successori degli Apostoli[127], perché «l’autorità
spettante agli Apostoli spirò con essi e perciò non si trasmise ai loro
successori nel vescovado». Soltanto l’autorità di S. Pietro, alla dipendenza
del quale si trovavano tutti gli altri si trasmise ai successori, i quali
vennero dopo di lui al Papismo[128]. Perciò «esiste una
grande differenza nel succedersi a S. Pietro e nel succedersi ad uno qualunque
degli altri Apostoli. Il Pontefice romano, quindi, solamente, succede a S.
Pietro quale legale Pastore di tutta la Chiesa e per conseguenza ha tutta
l’autorità che deriva da Colui dal quale Pietro la ricevette. Mentre i restanti
Vescovi non succedono nel vero senso della parola agli Apostoli, perché questi
ultimi non erano che dei semplici accreditati Pastori dei quali non può
esistere un successore».
I Vescovi quindi giacché secondo il papismo, non ereditarono nessuna
autorità Apostolica, non dispongono di nessun’altra potestà, fuori di quella
che ricevettero, non direttamente da Dio, ma dal Sommo Pontefice. «La
giurisdizione dei Vescovi deriva direttamente e immediatamente dal Papa»[129]. Ciò, secondo la mia
opinione, è una ingiustificabile offesa alla dignità episcopale, il di cui
valore veniva umiliato, sacrificandolo in favore di un presunto grado,
superiore cioè all’autorità papale. Non era indispensabilmente necessario
sapere perfettamente e completamente la storia dell’antica Chiesa per
comprendere che, già dai tempi Apostolici i Vescovi fondavano sempre la loro
autorità basandosi sul fatto «che succedettero agli Apostoli, governando la
Chiesa, tutti con la medesima facoltà[130] e col medesimo
ministero degli Apostoli»[131]. S. Attanasio parla del
ministero dei Vescovi come qualcosa che il Signore consacrò per mezzo degli
Apostoli[132]. S. Gregorio il grande
insegna chiaramente: «Oggi i Vescovi occupano nella Chiesa il posto degli
Apostoli»[133].
S. Ignazio di Antiochia dice che l’autorità Apostolica che hanno ricevuto i
Vescovi, proviene da Dio Padre[134]; e aggiunge che il
Vescovo non va sottomesso a nessun altro che al medesimo N. S. Gesù Cristo[135]. Da ciò «la catena
d’oro che unisce i fedeli con Dio, passa da anello in anello dai Vescovi agli
Apostoli, dagli Apostoli a Gesù Cristo e da Gesù Cristo al Padre[136]». Questo tradizionale
insegnamento è tanto chiaramente esposto dai SS. Padri che per conto mio non
esisteva alcun dubbio. Basta leggere gli antichi cataloghi dei Vescovi che a
noi ci hanno lasciato S. Ireneo, Tertulliano, Eusebio, S. Girolamo, S. Optato
di Mileve e tanti altri Padri storiografi ecclesiastici, i quali cercarono di
annotare e descrivere con la più dettagliata cura le successioni dei Vescovi
che diressero le diverse chiese fondate dagli Apostoli. Dopo i nomi degli
Apostoli fondatori vennero annotati, successivamente, i nomi di tutti i Vescovi
di ogni seggio, fino all’epoca degli autori di questi cataloghi. Ora, perché
tanta cura, tanto interessamento e tanta attenzione per poter dimostrare tale
apostolica successione, se, come pretende il papismo che «l’autorità degli
Apostoli si estinse con gli stessi Apostoli e non si trasmise ai loro
successori nel ministero Episcopale?»[137].
Per logica conseguenza degli insegnamenti papisti circa l’autorità e la
potestà dei Vescovi, nella Chiesa Romana, si crede, che gli stessi Concili
Ecumenici non hanno altro valore che quello in cui il Papa si compiace
concedere loro. «I Concili Ecumenici – dicono i papisti – non
sono né possono essere altro che una Congregazione del Cristianesimo riunita
per virtù del podere del Capo Supremo e sotto la presidenza di esso»[138]. Ora, dato che tale
Supremo Capo non è il Signore ma il Papa, in linea di massima non può esistere
Concilio Ecumenico se non convocato sotto la presidenza personale del Papa[139] o di uno dei suoi
immediati rappresentanti[140]. In qualunque momento
durante un Concilio Ecumenico il Papa da solo lo può sciogliere, differire o
trasferire[141]; basta solo che egli
esca dalla sala delle riunioni dicendo: «Io non sono più qui» che il
Concilio Ecumenico, sia trasformato da quel momento in una riunione privata, e,
se i suoi membri insistono ancora, «esso si trasforma in una congiura
illegale e scismatica»[142]. I Canoni stessi del
Concilio non hanno il minimo valore se non accettati e ratificati dal Papa, e
se non saranno timbrati con il timbro dell’autorità di lui[143].
Dopo la lettura di tutti questi testi cominciai ad intuire qualche cosa che
fino a quel momento mi era rimasto incomprensibile, che i Vescovi cattolici
romani di tutte le contrade del mondo, radunati il 1896 in Sinodo nel Vaticano
avevano aderito alla riduzione della loro autorità ed alla loro tramutazione in
muti servi del Vescovo di Roma ammettendo il dogma dell’infallibilità papale.
Il Papa era ivi semplicemente il Dittatore del Sinodo, dal giorno del suo
inizio fino al termine di esso, di modo che era impossibile non realizzarsi ivi
ciò che egli desiderava come pure era impossibile stabilirsi nel Sinodo
qualcosa senza la volontà del Dittatore. Infatti, così viene dimostrato dalle
dichiarazioni del Vescovo Tedesco Strosmayer, uno dei membri del Sinodo la cui
retta coscienza si scandalizzò dinanzi allo spettacolo che presentarono i
Vescovi privi di autorità e di libera volontà di fronte ad un onnipotente Papa:
«Nel Sinodo del Vaticano – egli disse – non avevamo la necessaria libertà; a
causa di ciò esso non può essere chiamato un vero Sinodo né può avere diritto
di emettere dei canoni che potessero imporre l’ubbidienza alle coscienze
dell’intero mondo cattolico. Tutto ciò che avrebbe potuto assicurare la libertà
della parola e di pensiero venne escluso con molta accortezza... e come se
tutto ciò non fosse bastato, questo Sinodo compì la più scandalosa violazione
dell’antico detto ecclesiastico: «quod semper, quod ubique, quod ab omnibus»
cioè: «È infatti cattolico quello che sempre, da per tutto e da tutti è stato
creduto»[144]. In una parola il più
evidente e disgustoso uso della presunta infallibilità papale è stato
necessario prima ancora che l’infallibilità stessa venisse proclamata quale
dogma.
Per di più si aggiunse questo: «che il Sinodo non venne convocato né
radunato legalmente; che i Vescovi, alti dignitari e altolocati italiani,
formavano una enorme e dominante cricca quasi monopolistica; in modo che i membri
di esso furono intimiditi dalla più scandalosa propaganda, e che tutto il
meccanismo del potere papale che in quel momento esercitava il Papa di Roma
contribuì ad intimidire e ad impedire ogni libera espressione. Ognuno, quindi,
ne può dedurre chiaramente quale specie di libertà di parola (norma inviolabile
ad ogni Sinodo) si avesse nel Sinodo del Vaticano»[145].
Durante tutto questo periodo di tanta violenta mia crisi spirituale, avevo
quasi abbandonato i miei studi. In tutte quelle ore che il regolamento del mio
Ordine mi concedeva libere, approfittavo della solitudine e compunzione della
mia cella per aumentare le mie cognizioni e approfondire una tanto ampia
materia. Mesi interi studiai la sintesi e l’organizzazione della Chiesa dei
primi secoli da fonti Bibliche, Apostoliche e Patristiche. Ma questa fatica non
si sviluppava completamente di nascosto: il mio aspetto esteriore sembrava
fortemente influenzato dalla mia grande inquietudine, che già aveva assorbito
tutto il mio interessamento. Non esitavo a cercare fuori dal monastero i libri
e le persone che avrebbero potuto contribuire in qualche modo ad offrirmi nuovi
lumi per il mio problema. Più tardi osavo già rivelare in parte le mie
condizioni benché con la più grande attenzione e prudenza, accennandole
confidenzialmente a diversi dotti ecclesiastici, amichevolmente legati a me. In
tal modo ebbi consigli, pareri ed opinioni sul mio caso, sempre di grande
importanza per me. Intanto, trovavo i più dei miei confidenti, più fanatici di
quanto non avessi supposto. Per quanto riconoscevano con me l’assurdo
dell’intera dottrina papista si aggrappavano disperatamente all’idea, che «la
sottomissione dovuta al Papa esige un cieco consenso della mente»[146] e quell’altro
detto di Ignazio Loiola, fondatore dell’Ordine dei Gesuiti secondo cui «per
avere in tutte le cose la verità, per non deludersi in nulla, bisogna avere
sempre come principio fermo, che ciò che vediamo come bianco, è in realtà nero,
se tale lo determina la gerarchia della Chiesa»[147].
Conformemente a tale fanatica mentalità dinanzi alla quale ogni logica
obiezione restava inefficace, un ieromonaco di quest’Ordine per l’amicizia che
ci legava mi confidò: «Ciò che tu dici è indubbiamente chiaro e logico da ogni
punto di vista e non posso fare a meno di riconoscerlo. Ma noi Gesuiti, oltre
alle tre promesse, ne abbiamo anche una quarta speciale, più sostanziale di quelle
dell’ubbidienza, della castità e della povertà.
È la promessa della sottomissione al Papa[148]. Perciò sono costretto
a preferire di gettarmi col Papa nell’eterna condanna, anziché salvarmi con
tutte queste tue verità dell’assoluta certezza».
TU
SEI PIETRO...
I più obiettivi tra i miei amici mi consigliavano di studiare le fonti
bibliche sul papismo e cioè i passi evangelici che questo cita per la
dimostrazione e la difesa del cosiddetto «Primato di Pietro»[149]. Consideravo giusto il
consiglio ed era molto di mio gusto, perché mi offriva una nuova occasione di
esaminare il mio caso sulla base della S. Scrittura. Come è naturale scelsi
come argomento delle mie ricerche la più importante delle pericopi evangeliche
nel 16° Capitolo del Vangelo secondo Matteo, sul quale si costruì la dottrina
circa il detto del «Primato»: «Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa»[150] *. Per il romano-cattolicesimo, questa
parola del Signore rivolta a Simon Pietro, costituiscono la divina istituzione
della pretesa giurisdizione amministrativa e giuridica di questo Apostolo[151]. Il Gesuita Bernardino
Llorca scrive: «Come ricompensa della sua meravigliosa confessione
circa la divinità di Gesù Cristo, il Signore annunziò a Pietro che lui, Pietro
sarebbe la pietra angolare, cioè il Capo e la suprema Autorità dell’edificio
della Sua Chiesa»[152]. Questa metafora
(Pietro-Pietra) la quale fu applicata all’Apostolo e la quale indica che egli è
il fondamento della Chiesa, dimostra anche chiaramente che egli viene stabilito
massimo Capo di questa. Il senso della metafora è che Pietro dev’essere per la
Chiesa ciò che è il fondamento per l’edificio. E come in ogni edificio il
fondamento è precisamente ciò che consolida e dà vera unione all’insieme di
esso, così anche nella Chiesa è lui, il Pietro, che da la stabilità e la vera
unione ad essa[153].
Concordemente a tale interpretazione del citato passo evangelico, la Chiesa
Romana insegna che S. Pietro, presunto primo Papa, «è il fondamento e la
pietra angolare della Chiesa, il di lei Principe e Capo, e l’infallibile
dittatore della terra»[154]. E difatti, ciò
costituisce dottrina obbligatoria ed «è evidente che secondo la volontà e
l’Ordine di Dio la Chiesa si regge sul beato Apostolo Pietro come precisamente
ogni edificio si regge sulle sue fondamenta»[155]. Intanto questa tanto
errata dottrina pretende che essa si accordi, secondo il Sinodo del Vaticano, «con
il chiarissimo ed evidentissimo senso della S. Scrittura come è stato inteso
sempre dalla Chiesa Universale»[156]. Secondo il mio
giudizio però «il chiaro e molto evidente senso della S. Scrittura come è
stato inteso sempre dalla Chiesa Universale era precisamente del tutto il
contrario. Poche cose, infatti esistono nella S. Scrittura così chiare ed
evidenti quanto quello che precisa che nessuno può porre altro fondamento che
quello che è stato posto, il quale è Gesù Cristo»[157]. «Gesù Cristo è il solo
fondamento della Chiesa», dice S. Attanasio[158]. Il Signore è l’unico
fondamento, di cui l’Apostolo Paolo è orgoglioso perché l’aveva messo, quando
insieme con lo stesso S. Pietro istituì la Chiesa di Roma[159] ** perché «solo il Signore Gesù Cristo
è il fondamento di tutte le parti della Sua Chiesa»[160]; «ogni qual volta nelle
Sacre Scritture si parla di un fondamento – dice S. Gregorio il Grande – non si
accenna a nessun altro che al Signore»[161]. Sembra impossibile che
uno possa osare di negare che Gesù Cristo è la pietra e il fondamento della
Chiesa, se leggerà sia pure una sola volta, i libri canonici del Vecchio[162] e Nuovo Testamento[163] ***.
Le parole del Signore «Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la
mia Chiesa» riportate dall’Evangelo di Matteo, non sono riferite da nessun
altro Evangelista. Non si ha il minimo cenno di esse né in Giovanni nonostante
che questi fa testimone oculare della confessione di Pietro, né in Luca e
neppure in Marco, il quale, anzi, è stato discepolo, compagno, interprete dello
stesso Pietro e scrive il suo Evangelo secondo l’insegnamento e lo spirito di
questo Apostolo. Tutte queste cose precisamente non ci presentano gli Evangelisti
come seguaci e sostenitori del primato papale dato che dimenticarono di notare
nelle loro Sacre Opere ciò che, secondo la dottrina papista costituisce «il
più importante elemento del Cristianesimo[164], la sostanza e
il totale di esso»[165]. O sarebbe più retto
attribuire la responsabilità di tale ingiustificata omissione allo stesso
Spirito Santo, sotto la guida del quale «sospinti parlarono»[166].
Nei diretti discepoli degli Apostoli, nella seconda generazione cristiana,
non troviamo ugualmente traccia di una allusione circa il passo di cui si
tratta. Difatti nelle Opere dei Padri Apostolici le quali comprendono 412
citazioni delle S. Scritture, manca completamente qualunque cenno relativo alla
confessione di Pietro, riportata solo da Matteo. Lo stesso precisamente succede
anche con gli altri passi evangelici che vanno citati a favore del primato
papista. Né nella «Didachè (= Dottrina) dei dodici Apostoli»,
né in Clemente, né in Ignazio, né in Policarpo, né in Barnaba, né nell’epistola
a Diognito, né nei frammenti di Papia, ancora meno nel Pastore di Erma, dove
solo si fa menzione circa la organizzazione e costituzione della Chiesa, è
possibile trovare la minima traccia circa il passo famoso encomiato dai papisti
«Tu sei Pietro...». I due primi secoli, quindi, si presentano
indiscutibilmente ignari di quello elemento «nella base del quale si regge
completamente il cristianesimo»[167].
Questa importante omissione è maggiormente sentita nel Pastore di Erma il
quale, Erma, era precisamente fratello di Pio Vescovo di Roma; inoltre sappiamo
dal canone del Muratori che Erma scrisse quest’opera durante il Vescovato di
suo fratello Pio. Ivi Erma descrive i posti degli Apostoli, Vescovi, confessori
e diaconi[168], priori, dignitari[169], di quelli che
presiedevano nella Chiesa protopresbiteri[170]. Ma nel Pastore,
quandunque sia strapieno di immagini e simbolismi circa l’organizzazione e la
gerarchia della Chiesa, non incontriamo in nessun punto una testimonianza circa
il singolare posto di Vescovo, quale Capo generale di tutto il Cristianesimo.
Importantissimo riesce, quindi, il fatto che il fratello stesso del Vescovo di
Erma, si presenti ignorando del tutto le cose che riguardano il primato
papista!
Il primo cenno del passo evangelico circa la famosa confessione di Pietro
non si presenta fino alla seconda metà del 2° secolo; quando verso l’anno 160
fu scritto il dialogo al Giudeo Trifone da Giustino Martire. Lo stile semplice
e indifferente con cui Giustino narra la confessione dell’Apostolo, è chiaro.
Egli dice: «Gesù ad uno dei suoi discepoli che si chiamava Simone il quale
per rivelazione divina, Lo dichiarò quale Figlio di Dio, gl’impose il nome di
Pietro»[171]. Verso la fine dello
stesso secolo appare per la prima volta nella Grammatologia Ecclesiastica, una
citazione, anche se non tanto fedele, del predetto passo. Il testo, che
contiene tale citazione, appartiene all’Evangelo «Diatessaron» del Siriaco
clerico Tatiano. Questa opera è di tale importanza, che nella Chiesa Siriaca
sostituì completamente i Vangeli canonici, almeno fino alla metà del IV secolo.
La citazione è la seguente: «Beato sei Simone. E le porte dell’Ades non ti
vinceranno»[172]. Dal senso
dell’espressione orientale «le porte» (pyle) possiamo solo supporre la
vittoria di Pietro sulla morte[173], secondo quel medesimo
senso che il Signore Risorto utilizzò, parlando di Giovanni «Se voglio che rimanga
finché io venga?»[174].
Da Giustino dobbiamo passare al secolo d’oro della Chiesa, per trovare
altre citazioni del nostro passo. In principio la prima cosa che notarono i SS.
Padri è che il Signore soprannominò il suo Apostolo «Pietro» nel genere
maschile, mentre disse che avrebbe edificato la sua Chiesa «Sulla Pietra»
adoperando il genere femminile, la cui distinzione è chiara ed esclude così
completamente l’identificazione di «Pietro» con la «pietra». Tale
distinzione guidò i Padri e gli altri scrittori ecclesiastici, nel credere che
la «pietra» sulla quale venne edificata la Chiesa, non era la
personalità di S. Pietro, perché in tal caso il Signore avrebbe adoperato
l’espressione «su questo Pietro»[175].
Conseguentemente la maggioranza di questi scrittori inclinava per la
interpretazione della Pietra, come confessione di fede al Figlio di Dio,
interpretazione questa che da tempo già aveva scalfito il S. Apostolo Giuda
(non l’Iscariota) consigliando edificare «Noi medesimi sulla santissima
nostra fede»[176]. Altri intesero il
significato della Pietra come lo stesso Cristo, il preannunciato dai Profeti
l’aspettata Pietra d’Israele[177] cosa che lo stesso
Signore attribuisce a Sé[178]. In fine, altri,
pochissimi scrittori, come Tertulliano, nonostante che determinate volte
avessero identificato la Pietra con l’Apostolo, pure attribuiscono ad essa solo
un’interpretazione metaforica, un significato soltanto spirituale, senza ritenere
questa come un particolare privilegio dell’Apostolo in paragone con gli altri e
molto meno ereditario[179].
Il grande Agostino scrive nelle sue Retractationes che leggendo questo
passo evangelico superficialmente ebbe la impressione che la Pietra si potesse
identificare con l’Apostolo; ma più tardi, studiando con attenzione comprese
che la retta interpretazione è, che la Pietra sulla quale la Chiesa edificata
non è che Colui il quale l’Apostolo Pietro confessò come Figlio di Dio[180]. S. Agostino insegnava
sempre questo insegnamento come risulta da innumerevoli passi delle sue Opere.
Egli espone i motivi di tale interpretazione e così si esprime: «Siccome la
parola “Pietra” è prototipo: perciò il Pietro prende il nome dalla Pietra, e
non la Pietra dal Pietro; come anche noi stessi cristiani assumiamo questo nome
da Cristo e non Cristo dai cristiani. Tu – dice Cristo – sei Pietro su questa
Pietra che hai confessato, dicendo “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”,
edificherò la mia Chiesa, cioè in me stesso il Figlio di Dio vivente»[181]. Lo stesso concetto
ripete S. Agostino, quasi con le stesse parole nella sua la Omelia sulla festa
dei due Πρωτοκορυφαίοι (Protocorifei)
Apostoli Pietro e Paolo[182]. Lo stesso fa anche
nella sua 5a Omelia sulla Pentecoste, in cui dice ancora più chiaramente: «Su
questa Pietra edificherò la mia Chiesa; non sopra Pietro (Petrum) il
quale sei tu, ma sulla Pietra (Petram), la quale tu hai confessato»[183]. Ed aggiunge nel Tractatus 124°
sull’Evangelo di Giovanni: «Su questa Pietra, la quale hai confessato, io
edificherò la mia Chiesa; e ciò perché la Pietra era lo stesso Cristo»[184].
Questo S. Padre ironizzava alcuni eterodossi, i quali, come oggi i papisti,
identificavano l’Apostolo Pietro con la Pietra: quanto interpretava i passi
circa la rinnegazione di Pietro domandando loro mordacemente con il tono
bruciante che lo caratterizza: «Dov’è adesso la vostra Pietra? Dov’è la
solidità di essa?»[185]. Lo stesso Cristo era
la Pietra, mentre Simone non fu che Pietro... di pietra. La vera
Pietra fu risuscitata per rinforzare Pietro, il quale vacillò abbandonando la
Pietra[186]. Su questa divina
Pietra, la quale è il Suo vero Figlio: Iddio pose «i fondamenti relativi»
cioè i primi materiali umani della Chiesa. Questi «fondamenti relativi»
sono tutti insieme gli Apostoli, fra i quali Simone Pietro non occupa nessuno
speciale posto di autorità o di giurisdizione. Ciò insegnano S. Paolo e S.
Giovanni Evangelista, il quale in una delle sue meravigliose profetiche visioni
ebbe l’occasione di vedere, che l’edificio spirituale della Chiesa edificato «sulla
Pietra», aveva dodici pietre di fondamento, e su queste stavano i dodici
nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello[187].
Perciò S. Ignazio Antiocheno scrive ai Tralliani, che «fuori di
loro (degli Apostoli), non esiste neanche il nome della Chiesa»[188]; e S. Cipriano lo
riferisce anch’egli a modo suo, insegnando che la Chiesa si è basata «Super
episcopos», cioè sugli Apostoli e sui loro successori[189] i quali sono,
stati edificati su quella inamovibile roccia (pietra) di Nostro Signore Gesù
Cristo[190]. L’ammettere che la
Chiesa è edificata solo sull’Apostolo Pietro escludendo tutti gli altri, come
pretende il Papismo[191], equivale a paragonare
il Salvatore con «quello stolto uomo» della parabola «che edificò la
sua casa sulla rena», la quale casa «cadde, e la sua rovina fu grande»[192]. «Tu dici che la
Chiesa si eresse su Pietro – scrive S. Girolamo all’eretico Iovinianus
– ma la verità è che si eresse su tutti gli Apostoli; e la potenza
della Chiesa si stabilì su tutti loro»[193].
Lo studio degli insegnamenti dei Padri relativo a questo passo della S.
Scrittura, è stato molto vantaggioso per me; perché, come scrive S. Vincenzo: «è
necessario, per evitare difficoltà ed i labirinti dell’errore, che il modo
della spiegazione della S. Scrittura sia consono con la nota regola secondo il
senso della tradizione ecclesiastica»[194].
Dopo queste indagini sui Padri, non avevo più alcun dubbio riguardo al
fatto che l’insegnamento cattolico-romano sul primato papista dell’Apostolo
Pietro, era del tutto contrario al «chiaro ed evidente senso» della S.
Scrittura e gli insegnamenti degli Apostoli ed alle interpretazioni dei SS.
Padri e in genere al costante ed ecumenico insegnamento, secondo la tradizione
della chiesa di Cristo[195].
IL
PRINCIPIO DELLA DISPUTA
Quando le mie idee cominciarono a divenire conosciute, iniziò anche a
circolare su di me la vaga diceria che fossi un monaco fortemente sospetto
d’eresia. «Se fossimo vissuti, invece di adesso, pochi secoli fa –
mi scrisse in modo molto severo un rispettabile Vescovo, ora Cardinale – le
teorie che la Rev. Vostra sta sviluppando avrebbero costituito motivo più che
bastante per condurla al rogo della Santa Inquisizione».
Non tardò anche a divulgarsi la diceria che i miei superiori ecclesiastici,
avevano deciso per il caso di interporsi onde fosse impedita la mia ordinazione
a Diacono[196]. Giunsero ad invocare
il voto dell’ubbidienza e della disciplina monastica, per costringermi ad
abbandonare coscientemente le mie convinzioni. Secondo loro dovevo ubbidire
ciecamente e smettere d’occuparmi di altro in quanto il diritto dell’esame
delle questioni di fede, l’aveva soltanto l’alta Gerarchia della Chiesa. Se
credevo nella Chiesa Apostolica, mi dicevano, dovevo seguire, secondo loro, in
tutti i legali successori degli Apostoli. Ma, la grazia del Signore permise che
rimanessi fermo nelle mie convinzioni tenendo dinanzi a me i detti di S. Ireneo
riguardo agli eterodossi. «Dal solo e semplice fatto che hanno l’Apostolica
successione, non possono avere la pretesa di essere loro seguaci: bisogna che
seguiamo i buoni successori degli Apostoli, ma anche bisogna dividerci dai
cattivi»[197].
Difatti, la Chiesa romana può avere la formale successione apostolica dalla
successiva imposizione delle mani dei Vescovi; ma non la vera successione della
fede e dell’insegnamento Apostolico, quella che Papia encomiava alla stessa
Cristianità di Roma nel secondo secolo dicendo: «In ogni successione ed in
ogni luogo si osserva ciò che esigono le leggi, i Profeti ed il Signore»[198].
Nulla poteva ormai farmi cambiare idea. Perciò quando un prete, il quale
d’allora non cessò di parlarmi con cattiveria, mi chiamò pubblicamente «ingrato
figlio della Chiesa Cattolica», mi permisi di esprimere i miei dubbi se
l’appellativo di «cattolico» s’accordasse realmente al papismo, che
caratterizzai come «empia innovazione»[199], mentre «la vera
fede cattolica è quella dell’antico ed universale Cristianesimo»[200]. E di fatti io stesso
mi credevo più cattolico della stessa mia Chiesa: «È veramente cattolico
colui il quale ama la verità di Dio, la Chiesa il Corpo di Cristo... colui il
quale non preferisce nulla più della divina religione; e non pone prima di essa
l’autorità d’un uomo, ma soltanto l’antica ed unica fede. E disprezzando questa
autorità e rimanendo solidamente e fermamente collegato alla vera fede, è
risoluto a non credere null’altro fuori di quello che sa che prescrisse la
Chiesa fin dai primi inizi del suo cammino»[201].
Quando mi domandavano, se io, l’ultimo e il più umile dei monaci di S.
Francesco, osavo giudicare e chiamare errata l’intera mia Chiesa, con tutti i
Papi, i Sinodi e i Teologi di essa mi bastava rispondere semplicemente,
ripetendo le parole di Tertulliano: «Ogni dottrina che si oppone alla verità
insegnata dalla Chiesa, dagli Apostoli, da Cristo e da Dio dev’essere giudicata
come errata»[202].
«ESCI
DA ESSA, O POPOLO MIO…»
Ciò nonostante, probabilmente non avrei fatto il minimo passo per
abbandonare la mia Chiesa, se fossi stato sicuro che malgrado la sua mostruosa
deviazione dogmatica, mi sarebbe stato perlomeno possibile rifugiarmi
esclusivamente nella vita spirituale, che il mio Ordine e il mio Convento mi
offri vano lasciando alla Gerarchia la responsabilità riguardo all’eresia e
l’obbligo di discernerla e di correggerla. Ma in una religione alla quale il
semplice capriccio di un Papa che si crede infallibile, può introdurre tanti
nuovi dogmi, decreti e insegnamenti errati quanti ne vuole, riguardo alla fede,
al culto ed ai Sacramenti, resterebbero forse sicuri gli interessi della mia
anima e la integrità della mia vita spirituale?
«Costituisce una grande tentazione – scriveva San Vincenzo di
Lerino già nel 5° secolo – il fatto che costui, il quale tu consideri
come profeta, come interprete dei profeti, come maestro e sostegno della verità
che segui col più grande rispetto e amore, improvvisamente comincia ad
introdurre clandestinamente pericolosi errori, che non puoi scoprire
facilmente, abbagliato dal preconcetto dell’anteriore suo insegnamento e dalla
cieca ubbidienza a lui»[203].
Di più ancora; era a me facile constatare, infatti, che la vita spirituale
del Cattolicesimo romano presenta gravi ed evidenti prove d’influenza della sua
deviazione Teologica. Dogmi, come quello del Purgatorio, usanze come quella dell’amministrazione
della divina Comunione da uno e solo elemento, esagerazioni come quella del
culto esagerato alla Vergine, costituiscono chiari sintomi di degenerazione
teologica, evidenti agli occhi di quelli che vogliono vederli senza parzialità
e senza preconcetti. Infatti, avendo loro di già profanato la iniziale purezza
della fede evangelica ed apostolica con la dottrina sul papato e con l’eresia
dell’infallibilità papale, avendo con tale modo travisata una parte del retto
insegnamento sull’uomo deviarono similmente anche in altri punti. E come in
tutti gli altri casi di eterodossia, che vengono ricordati dalla storia
ecclesiastica: «in seguito continuano l’alterazione anche in altri
insegnamenti, in principio per abitudine, e in seguito come se si fosse
acquistato un certo diritto per continuare l’alterare. E così essendo snaturate
in fine tutte le parti del retto-insegnamento, alterano, il tutto con lo stesso
modo»[204].
Non è per nulla strano se personalità distinte, dal punto di vista
spirituale, nella Chiesa romana, cominciavano a dare il segnale d’allarme,
sebbene già tardi, con dichiarazioni pubbliche tanto espressive come la seguente:
«Chi sa, se i “piccoli mezzi di salvezza” che ci assediano ci guidarono nel
dimenticare l’unico Salvatore: Gesù!...»[205]. «Oggi la nostra
pietà si presenta come un albero con tanti rami intrecciati e con tanto fitto
fogliame, dove le farfalle svolazzano col pericolo di non sapere più dove si
trova il tronco il quale contiene il tutto e dove si trovano le radici che
abbracciano la terra»[206]. Aggiungiamo anche
questa più opprimente frase: «Abbiamo decorato e supercolmato il quadro in
tal modo, che l’immagine di Colui che è l’unico necessario è scomparso sotto
gli ornamenti»[207].
La riparazione è semplice e possibile ed i più sinceri e coraggiosi di
questa Chiesa lo riconoscono. Sfortunatamente però, l’occasione che venga
applicata opportunamente è già molto dietro: «Non ci cibiamo d’altro
cristianesimo che non sia quello dei tempi Apostolici – esclamava un
sapiente Reverendo cattolico romano, Mons. Le Camus –. Non dobbiamo
permettere a coloro che ci propongono altre differenti idee di turbare la
nostra vita religiosa, di sottrarci alla nostra buona volontà e di diminuire le
nostre energie»[208].
Le seguenti parole sono veramente una eco dei rimproveri di S. Policarpo ai
Pilippesi: «Si abbandonino le vanità degli uomini e i falsi insegnamenti e
si torni all’insegnamento che ci fu dato in principio»[209]. E aggiungiamo anche le
osservazioni di S. Cipriano a Cecilio: «Quando la verità manca dall’usanza e
dalla Tradizione queste non sono altro che l’antichità dell’errore. Esiste un
mezzo molto sicuro per il quale le anime pietose possono distinguere ciò che è
vero da ciò che non è vero: basta risalire al primo inizio del divino
insegnamento, là dove ha termine l’errore umano. Si ritorni al primiero
insegnamento, che ci fu dato da N. S. G. Cristo, come fino all’inizio
Evangelico, fino alla Tradizione Apostolica da cui scaturisce la ragione dei
nostri pensieri e delle nostre opere»[210].
Aggiungiamo ancora le parole del grande Profeta: «Fermatevi sulle vie, e
guardate, e domandate quali siano i sentieri antichi del Signore, e guardate
dove sia la buona strada e incamminatevi per essa; e voi, troverete la
purificazione delle vostre anime»[211].
Ero, quindi, persuaso che anche la stessa vita spirituale della Chiesa
romana potesse riuscirmi seriamente pericolosa; perché «nella Chiesa di Dio,
costituisce grande tentazione per i fedeli, l’errore di coloro, i quali li
conducono, e maggiore e più grave è la tentazione, quando quelli che insegnano
l’errore occupano gradi molto elevati»[212]. Colui che affida la
sua anima ad una Chiesa, che è diretta e governata da eterodossi, corre il
pericolo che gli accada ciò che accadde ai fedeli, che si trovavano sotto
l’autorità pastorale di Origene, per il quale i Padri dicono: «Infatti, non
semplice tentazione, ma molto grave fu la cattiva influenza di questo maestro
della Chiesa a lui affidata..., che nulla sospettava, nulla temeva da lui e
così fu da esso condotta, a poco a poco ed incoscientemente, dalla originale
religione ad una empia innovazione»[213].
Non volevo più restare nel seno di un falso cristianesimo, che sfruttava il
Vangelo, per servire i fini imperialistici del cesaropapismo. Non volevo essere
di quelli, che «non possono avere il vero Dio quale Padre in quanto
disprezzarono la vera Chiesa quale Madre»[214], perché come dice S.
Cipriano, quanti deviarono dalla vera dottrina e dalla prima unione
ecclesiastica, «non hanno la legge di Dio, non hanno la fede del Padre e del
Figlio, non hanno la vita e la salvezza»[215]. Avevo la convinzione
che nulla più mi restava, che prendere la ultima decisione e fare il passo
decisivo, ponendo fine alla insopportabile mia condizione nel seno del papismo,
condizione la quale era già scossa da ogni punto di vista.
Indubbiamente la grazia del Signore mi ha contenuto in quei giorni in cui
avrei dovuto prendere una così grave decisione, in modo che io mi domando
ancora stupito, come mai ho potuto resistere alle tante lacrime dei miei cari
fratelli del monastero ed ai tanti rimproveri e alle tante minacce dei miei
superiori. Mi chiamarono ingrato e apostata della Chiesa dei miei avi e
apostata della Tradizione religiosa della mia Patria. Mi limitavo a rispondere
ai pochi che volevano ascoltarmi ancora, con queste parole di S. Girolamo nelle
quali trovavo tanta forza e consolazione in ogni momento: «Non siamo
obbligati a seguire gli errori dei nostri antenati e dei nostri maggiori ma i
dettami della S. Scrittura e gli ordini di Dio»[216]. Per quanto riguarda il
supposto «tradimento» alla Tradizione della Patria ero tranquillo. «Tutto
ciò che si contrappone alla verità, anche se si tratta di una Tradizione o di
una antica usanza, è eresia»[217].
E quando, dopo mesi, scrissi il primo capitolo del mio studio «Storia
dell’Ortodossia Spagnuola», nel quale scientificamente mi occupavo della
fondazione delle prime Chiese Iberiche dall’Apostolo Paolo[218] ho constatato che
ero precisamente l’unico che non aveva tradito ancora la vera e antica
Tradizione Spagnuola, dato che la Chiesa della mia Patria era infatti Ortodossa
durante i primi quattro secoli dalla sua fondazione e non papista e non
dominata dal Vaticano come oggi[219].
Abbandonai infine il monastero e poco dopo proclamavo pubblicamente la mia
decisione, di abbandonare la Chiesa Romana. Altri monaci e Sacerdoti, avevano
dimostrato fin allora il proposito di seguirmi, ma all’ultimo momento nessuno
di loro si mostrò premuroso di sacrificare tanto radicalmente le sue condizioni
nella Chiesa, il suo onore e la sua buona riputazione della società[220]. Prima di
abbandonare il Convento ebbi la buona idea di chiedere ai superiori di
rilasciarmi un certificato che attestasse che l’abbandono del Convento da parte
mia avveniva dietro mia spontanea volontà e che durante tutta la mia vita
monastica, non avevo dato il minimo motivo ad osservazioni. Tale documento mi
venne rilasciato in seguito e fu «la deplorevole particolarità» che
impedì posteriormente i Greci Uniti in Ellade di costruire qualche calunnia
sulle cause della mia «Apostasia».
In tal modo abbandonai la Chiesa di Roma, il cui Capo dimenticando che il
regno del Figlio di Dio non è di questo mondo[221] e che «colui il
quale è stato chiamato alla dignità Episcopale, non lo è stato per investirsi
di un’autorità umana, ma per servire intera la Chiesa»[222], imitò colui che «nella
sua superbia desiderando essere come Dio, perdette la vera felicità per
guadagnare una falsa gloria»[223]; imitò colui che «sedette
al Tempio di Dio, per credersi Dio[224]». «Salirò fino ai
cieli ed innalzerò il mio trono al disopra delle stelle di Dio: siederò sulla
montagna, ove seggono gli Dei... e somiglierò all’Altissimo»[225].
Giustamente Bernardo di Chiaravalle, una delle maggiori figure mistiche
d’Occidente, scriveva a Papa Eugenio: «nessun veleno maggiore per te,
nessuna spada più pericolosa, che la passione del dominio»[226]. Guidati da questa
sfrenata passione i Papi obbligarono la loro Chiesa a «fornicare con le
forze del mondo, facendone bottino di mercanti»[227]. In tal modo
trasgredirono i comandamenti di Dio, insegnando dottrine che sono precetti
d’uomini[228] e «minando la
verità, per costruire su questa i loro errori»[229] divennero loro
stessi bugiardi[230], e seguaci del padre
dei bugiardi e della menzogna[231]. E ciò, come del resto
è accaduto a tutte le altre eresie di tutte le epoche, «perché introdussero
nel divino dogma superstizioni umane, perché violarono i precetti degli
antichi, disprezzando gli insegnamenti dei SS. Padri, annullando la sapienza
degli antenati, attratti dalla sfrenata passione di una empia e vana, innovazione
e perché non volevano contenersi nei limiti della santa e incorruttibile
antichità»[232]. Ecco, dove è andato a
finire il Papa, come quello sventurato Origene «coll’avere sprezzato la
semplicità della religione cristiana e coll’avere preteso che egli sa più
d’ogni altro, disprezzando le Tradizioni della Chiesa e gli insegnamenti degli
antichi»[233].
In un tale stato di cose, non potevo fare altro che ciò che ho fatto,
ubbidendo alla voce della mia coscienza, la quale ripeteva il comandamento
dello stesso Dio al popolo eletto: «Esci da essa, o popolo mio: affinché non
sii partecipe dei suoi peccati e non abbi parte alle sue piaghe»[234].
VERSO
LA LUCE
Quando la notizia della mia disapprovazione del papismo cominciò a
divulgarsi in larghi circoli ecclesiastici e ad essere accettata con entusiasmo
dai Protestanti Spagnoli e Francesi, la mia posizione diveniva ancora più
delicata. Nella mia quotidiana corrispondenza ricevevo molte lettere anonime di
minacce e di ingiurie: mi si imputava che io cercavo di creare una pubblica
opinione antipapista tra i fedeli e che volevo condurre all’apostasia un
determinato numero di sacerdoti cattolici-romani, i quali, venivano considerati
«deboli dogmaticamente» perché avevano la debolezza di palesare
pubblicamente un interesse ed una simpatia per il mio caso. Tutte queste cose
mi condussero alla decisione di lasciare Barcellona per trasferirmi a Madrid,
ove accettai la ospitalità degli Anglicani e per mezzo loro iniziai relazioni
col Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Intanto, nemmeno là riuscii a rimanere inosservato. E, dopo ogni mia
predica, nei diversi Tempi della Chiesa Anglicana, un grande numero di
ascoltatori erano desiderosi di conoscermi personalmente e discutere con me,
confidenzialmente, su diverse questioni di coscienza. Il maggior numero dei
miei interlocutori mi poneva la domanda circa la coesistenza di diverse Chiese
Cristiane le quali si scomunicavano fra loro perché ognuna di esse sostiene che
è l’unica, autentica e genuina rappresentante e, quindi, erede della Chiesa dei
primi secoli.
Così, senza che io lo avessi cercato, cominciò a formarsi intorno a me un
circolo sempre maggiore, di cui la maggioranza dei componenti non erano
papisti. Ciò mi esponeva pericolosamente a venire alla rottura con le autorità,
specialmente quando fra le visite confidenziali che ricevevo, cominciarono ad
annoverarsi anche alcuni Sacerdoti cattolici-romani da molti conosciuti e
disprezzati quali «ribelli contro la loro chiesa e quali seguaci di una idea
liberale riguardo il Primato e la Infallibilità del Pontefice di Roma».
L’odio fanatico che nutrivano da allora in poi per me determinati
cattolici-romani più papisti che cristiani, lo integrarono, infine, in quel
giorno in cui risposi pubblicamente per esteso ad uno studio ecclesiologico,
che mi era stato inviato dall’Azione Cattolica come «ultimo passo» per
farmi desistere dalla «mia eretica ostinazione». Lo studio in parola, di
carattere apologetico, portava il titolo espressivo: «Il Papa Vicario di N.
S. Gesù Cristo sulla terra», ed il suo riassunto era presso a poco il
seguente: «In virtù dell’infallibilità di Sua Santità i cattolici-romani
sono, oggi, i soli cristiani che possano essere sicuri di ciò che credono».
Dalle colonne della Rassegna portoghese «Critica dei Libri», risposi
loro senza alcuna riserva: «Più obiettivo è, per virtù precisamente di tale
infallibilità, il fatto che oggi siete in realtà i soli cristiani... i
quali non possono essere sicuri... di ciò che Sua Santità li
obbligherà a credere domani». Il mio commento terminava con queste parole:
«ancora un po’ di più, e riuscirete a mutare N. S. Gesù Cristo in Vicario
del Papa nei cieli».
Poco tempo dopo posi termine alla nostra disputa con la pubblicazione a
Buenos Aires di un triplice studio, che esauriva completamente il tema nel modo
più obiettivo[235]. Questo studio consiste
in una raccolta di tutti i passi delle opere dei SS. Padri dei primi quattro
secoli, che alludono direttamente o indirettamente ai così detti «Testi del
Primato» che, come è noto, sono: Matt. 16, 16-19; Giovan. 21, 15-17; Luc.
22, 31-32. In tal modo dimostravo che la dottrina papista è assolutamente
contraria alla interpretazione che danno i SS. Padri su questi passi del
Vangelo, interpretazione che costituisce precisamente l’unica regola della
spiegazione della parola di Cristo.
L’INCONTRO
CON LA VERITÀ
Durante questo periodo, indipendentemente dai detti avvenimenti, venni per
la prima volta in immediato contatto con l’Ortodossia. Prima di procedere alla
enumerazione dei fatti devo far notare qui che le mie cognizioni su questa
Chiesa erano abbastanza sviluppate fin dal principio della mia odissea. Da una
parte, determinate discussioni, che per lungo tempo avevo fatto in temi
ecclesiastici con un gruppo di universitari Polacchi ortodossi, i quali erano
di passaggio per la mia patria, d’altra parte le notizie pubblicate che
ricevevo dal Consiglio Ecumenico relative all’esistenza ed all’azione degli
Ortodossi d’Occidente, avevano mosso sinceramente il mio interessamento. Di
più, ultimamente, cominciai a ricevere pubblicazioni da Russi, da Greci, da
Londra, da Berlino ed alcuni preziosi studi dell’Archimandrita Benedictos
Katsanevakis, pubblicati a Napoli, che avevano guadagnato la mia simpatia.
Tutto ciò contribuì, naturalmente, a poco a poco ad estinguere
integralmente tutti i miei preconcetti, che, a riguardo dell’Ortodossia vengono
fomentati dal Cattolicesimo romano, i cui testi ufficiali di dottrina che
vengono insegnati alla gioventù scolastica e universitaria riferiscono che: «Lo
scisma d’Oriente, il così detto Ortodossia, non è null’altro che un insieme
senza vita, mummificato, fossilizzato e disseccato; piccole chiese locali,
senza nessuno dei caratteristici contrassegni distintivi della vera Chiesa di
Cristo»[236]. Cioè «un
lacrimevole scisma il quale ebbe come Padre il Diavolo e come Madre la superbia
del Patriarca Fozio»[237].
Quando, di mia propria iniziativa, cominciai le mie relazioni per
corrispondenza con un venerabile membro della Gerarchia Ortodossa in Occidente
a cagione della mia propria crisi dovuta a tutte queste generiche informazioni,
ero già integralmente capace di ricevere obiettiva cognizione di quanto questo
Vescovo mi voleva riferire riguardo alla dottrina Ortodossa. In altre parole
ero già in condizione di esaminare senza preconcetti tutte le relative
questioni dottrinali riguardanti sia la fondazione che la situazione teologica
delle Chiese Orientali.
Durante tali relazioni, non tardai a discernere il parallelismo esistente
fra la mia negativa posizione e la dottrina Ecclesiologica dell’Ortodossia
dinanzi al papismo. Mentre io combattevo «ciò che non doveva esistere»
l’Ortodossia parallelamente, offriva «tutto ciò che deve esistere».
Riferii questo parallelismo a quel venerabile prelato, dato i nostri reciproci
rapporti convenne meco su tale punto, anche se con qualche riserbo dovuto al
fatto della mia permanenza fra Protestanti. Qui devo osservare che i
rappresentanti dell’Ortodossia in Occidente non s’interessano per nulla del
proselitismo perché il proselitismo tra cristiani è contrario alla loro
concezione circa la situazione ecclesiastica in Europa ed alla loro attività
strettamente pastorale fra i Greci ed i Russi, la di cui spiritualità è stata
loro affidata.
Quando la nostra corrispondenza era ormai molto avanzata e per mezzo di
essa le mie relazioni erano estese fino allo stesso Patriarcato Ecumenico, solo
allora, fu deciso di consigliarmi lo studio della preziosa opera di Sergio
Boulgakoff «L’Ortodossia»[238] e la non meno
profonda opera del Metropolita Serafino di Berlino, la quale porta il medesimo
titolo[239]. Dal principio della
lettura di queste opere, sentii il mio essere identificarsi con lo spirito dei
loro autori. Nessun paragrafo vi incontrai da non potere ammettere e
abbracciare coscientemente. Tanto in tali opere, quanto in molte altre che
cominciai a ricevere dalla Grecia accompagnate da lettere incoraggianti, mi
sorprendeva l’evangelica purezza dell’insegnamento Ortodosso, i di cui fedeli
sono oggi, indubbiamente, gli unici cristiani del mondo i quali credono quello
che credevano anche i cristiani delle catacombe; gli unici e veramente fedeli,
i quali hanno ragione di ripetere con legittimo orgoglio la patristica frase:
«Crediamo a tutto ciò che ricevemmo dagli Apostoli, a tutto ciò che gli Apostoli
ricevettero da Cristo, e a tutto ciò che Cristo ricevette dal Padre». O a
queste parole di Tertulliano: «Solo noi siamo in comunione con le Chiese
Apostoliche, perché la nostra dottrina è la sola, che non si differenzia dalla
dottrina loro. Questa è la testimonianza della nostra verità»[240].
Durante questo periodo scrissi il mio studio «Concetto della Chiesa
secondo i Padri dell’Occidente» e lo studio «Dio nostro, Dio vostro, e
il Dio»[241], la cui pubblicazione,
nel Sud America, fui costretto di sospendere, per non offrire un’arma tanto
maneggevole quanto pericolosa alla propaganda protestante.
Venni allora consigliato dal lato Ortodosso, di lasciare il mio
atteggiamento semplicemente negativo dinanzi al papismo, atteggiamento al quale
mi ero attaccato, per dedicarmi ad un lavoro di concentrazione e di autoesame,
per il rinvenimento del mio positivo e concreto mio personale «Credo»,
per mezzo del quale avrebbero potuto esaminare la mia esatta condizione
teologica e misurare le distanze che questa potesse avere dall’anglicanismo da
una parte e dall’Ortodossia dall’altra. Tale fatica non era né facile né breve
in quanto mi obbligava ad un esame molto largo, trattandosi della fede per la
quale indubbiamente non ero ancora teologicamente preparato. Perché, non si trattava
per me soltanto di cancellare i dogmi relativi al Primato Papale e le sue
prerogative e rimanere con il resto della dottrina romana, ma occorreva un
profondo lavoro di analisi e chiarificazione, tra le verità fondamentali del
Cristianesimo e le barriere dogmatiche papali di ogni ordine e specie, sulle
quali sono stati solidamente basati per secoli gl’interessi
politico-ecclesiastici del Vaticano, per la realizzazione delle sue mire
imperialistiche sulla Chiesa. E ciò perché non volevo ricadere nel medesimo
errore degli Antichi Cattolici i quali scandalizzandosi della proclamazione del
dogma dell’infallibilità papale nel Sinodo del Vaticano, abbandonarono il Papa
e restarono però con la medesima teologia romana, contessuta con tanti altri
artefatti dogmi, preconcetti e superstizioni.
Innanzi all’enorme difficoltà di questo lavoro preferii esprimere il mio
atteggiamento con parole generiche e positive, quanto più mi era possibile,
esprimendomi quindi così: «Credo a tutto ciò che contengono i libri canonici
del Vecchio e Nuovo Testamento ed a tutti gli insegnamenti che scaturiscono
direttamente dal loro contenuto conformemente all’interpretazione di esso fatta
secondo il tradizionale insegnamento ecclesiastico, cioè secondo l’insegnamento
dei Concili Ecumenici e dell’unanime consenso dei Santi Padri».
Da quel momento, cominciai a notare che la simpatia dei Protestanti verso
di me diminuiva rapidamente, fatta eccezione degli Anglicani, la comprensione e
l’incoraggiamento morale dei quali mi accompagnavano durante tutto questo
difficile periodo. E solamente allora l’interesse degli Ortodossi, anche se
molto tardi, cominciava a dileguare il preconcetto verso me e considerarmi come
uno «probabile e interessante catecumeno». Le parole di uno scienziato
Ortodosso Polacco (al quale, gli Uniti[242], informati della sua
influenza, delle sue ricchezze e del suo prestigio, fecero proposte di
convertirsi con ogni costo al papismo), le parole dico di lui mi persuasero
circa la fede dell’Ortodossia sulle verità sostanziali del primo Cristianesimo.
Questo mio amico diceva agli Uniti: «Mi consigliate che devo rinnegare la
fede Ortodossa per diventare perfetto cristiano: E bene; la mia fede Ortodossa,
è costituita dai seguenti elementi: Gesù Cristo, Vangelo, Sinodi e SS. Padri.
Chi o quali di questi elementi devo rinnegare, per diventare, come dite,
perfetto cristiano?». E quando, modificando la loro politica, gli proposero
di non rinnegare nulla di ciò, ma almeno riconoscere il Papa come infallibile
Capo della Chiesa, rispose semplicemente: «Riconoscere il Papa? Ciò sarebbe
come rinnegare tutti i sopraccennati elementi!».
Compresi, che difatti, ogni cristiano non Ortodosso, ha la possibilità di
sacrificare una parte dell’intera sua dottrina, per giungere ad una più
completa purezza della sua fede, mentre il cristiano Ortodosso non ha questa
facoltà, perché solo lui resta fermamente alla sostanza del Cristianesimo, la
quale costituisce la Verità rivelata, eterna ed immutabile. Un cristiano
cattolico-romano per esempio, può rinnegare il Papa, come feci io, o confutare
la dottrina sul Purgatorio, o portare obiezioni alle norme del Concilio di
Trento senza perciò cessare d’essere cristiano. Con lo stesso modo un
Protestante può rinnegare gli insegnamenti dei grandi Riformatori in ciò che
riguarda la Divina Grazia e la Predestinazione e rimanere intanto ugualmente
cristiano. Solo l’Ortodosso è colui il quale non dispone nella sua fede di
altri elementi che di quelle sostanziali e basilari verità del Cristianesimo,
direttamente rivelate da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Ortodossia è la sola
Chiesa la quale non accettò mai di proporre nulla ai suoi fedeli, tranne
quello, che «sempre, dappertutto e da tutti» fu considerato come
insegnamento rivelato da Dio[243]. Perciò, l’abbracciare
l’Ortodossia non è altro che l’abbracciare la fede del Vangelo nella sua
limpidezza primitiva, mentre al contrario il rinnegarla e il ribellarsi ad essa
è come rinnegare e distaccarsi interamente dal Cristianesimo.
L’Ortodossia è quell’unica Chiesa, che come fedele custode della fede
Evangelica «giammai mutò in essa nulla, né tolse né aggiunse nulla»[244] «non tolse
nulla di sostanziale né accumulò degli accessori, né smarrì qualcosa di suo, né
rapì nulla di estraneo, sempre fedele e prudente verso ciò che ereditò»[245], perché sa che nella
fede, che originariamente le fu affidata una volta per sempre[246], non è permesso il
minimo cambiamento neanche da un angelo del cielo[247] e tanto meno da un
uomo terreno bugiardo e peccatore!...
L’Ortodossia è la vera sposa di Cristo «gloriosa, senza macchia, e senza
ruga o qualcosa di simile, ma santa ed irreprensibile»[248].Questa è la Santa
Chiesa di Dio l’unica sua[249], «la veramente
Chiesa Universale (= Cattolica) che combatte contro tutte le
eresie». Essa può combattere ma non può essere mai vinta. Benché tutte le
eresie e gli scismi siano da Essa germogliati, sono tolti da Essa come tralci
inutili dal tronco della vite principale, questa però resta ferma alla sua
radice, alla sua unione con Dio[250]. Chi la segue, segue
Dio; chi ascolta la sua voce, ascolta quella di Dio[251]; e colui il quale le
disubbidisce è uno dei Gentili[252].
Persuaso di tutte queste idee non mi sentivo più tanto solo, dinanzi
all’onnipotente papismo da una parte, e la sempre più manifesta freddezza dei
protestanti dall’altra. Sentivo che esistevano in Oriente e sparsi in tutto il
mondo, milioni di miei fratelli cristiani, i costituenti la Chiesa Ortodossa,
che, con essi, mi trovavo già in comunione di fede e di dottrina. La calunnia
papista della fossilizzazione e del disseccamento teologico dell’Ortodossia,
non mi ha per nulla toccato, poiché, avevo compreso, ormai, che questa
perseverante costanza dell’Ortodossia nella verità da Essa ereditata, non era
immobile, statica, impassibile e quindi pietrificata, ma era una confessione di
fede a corrente permanente, quale la corrente di una cascata, che appare sempre
la stessa, mentre, le sue acque, alternandosi, sono permanentemente diverse ed
in ogni momento producono nuova eco ed armonia.
A poco a poco, anche gli ortodossi cominciarono a considerarmi come persona
loro. «Il discutere con questo Spagnolo delle verità dell’Ortodossia non è
proselitismo – scriveva un Archimandrita – ma è parlare con
lui di un insegnamento, di uno spirito religioso, i quali sono tanto nostri
quanto suoi, con la sola differenza che noi li abbiamo ereditati dai nostri
anteriori mentre lui è riuscito ad esumarli da una profondità di quindici
secoli di storia della nostra Chiesa». Era quindi chiarissimo che il naturale
sviluppo delle mie «spirituali inquietudini», così chiamate dal mio
confessore, mi aveva guidato inconsciamente nel seno della Madre Chiesa cioè
della Chiesa Ortodossa. Di più; durante questo ultimo periodo, ero già, senza
che me ne accorgessi, un Ortodosso e nello stesso modo come i discepoli a
Emmaus, così, anch’io camminavo percorrendo insieme con la Divina Verità, senza
riconoscerla, fino al termine del mio viaggio spirituale.
Quando, arrivato alla piena convinzione di tutte queste cose, compresi che
non mi restava null’altro che agire in conseguenza. Scrissi quindi, una lunga
esposizione del mio caso e del suo sviluppo al Patriarcato Ecumenico come pure
a Sua Eminenza l’Arcivescovo di Atene a mezzo della Direzione della «Diaconia
Apostolica» (Αποστολική Διακονία) della Chiesa di Grecia. Allo stesso modo
esposi chiaramente la mia risoluzione alle Gerarchie e ad altri membri delle
varie Chiese, con le quali ero in relazioni. E sentendomi come colui che
possiede già la perla preziosa per la quale vale la pena di sacrificare
qualunque cosa che ha[253], pur di custodirla,
abbandonai la mia Patria a mi recai in Francia dove venni in pieno contatto con
gli Ortodossi miei fratelli appena conosciuti. Preferii, però, di lasciare
passare ancora del tempo, prima di entrare regolarmente come membro della
Chiesa Ortodossa, avendo ancora intenzione di maturare a poco a poco la mia
tanto importante risoluzione.
Infine feci il passo definitivo, chiedendo ufficialmente l’ingresso nella
vera Chiesa di Cristo. Tutti concordemente decisero che l’avvenimento avesse
luogo nella stessa Grecia, terra per eccellenza della Ortodossia, ove
dall’altra parte, bisognava che mi recassi poiché colà dovevo seguire gli studi
teologici. Giunto ad Atene mi presentai a Sua Beatitudine l’Arcivescovo, che mi
serbò la migliore accoglienza paterna il di cui affetto, la tenerezza e
l’interesse si mantengono inalterati fin oggi, accompagnandomi ad ogni passo
della mia nuova vita ecclesiastica. Ciò potrei dire anche per l’allora Rev.mo
Protosincello (Vicario Generale), oggi per grazia Divina Vescovo di Roge (Ρωγών), vero padre, il di cui interessamento per me superò
fin dal principio ogni mia aspettativa. Inutile dire che in tale ambiente di
affettuosa tenerezza, il Santo Sinodo non tardò a decidere per il mio
definitivo ingresso nel seno della Chiesa Ortodossa.
Durante la Sacra Funzione della Cresima, per me commoventissima, in virtù
della quale divenni ormai membro della vera vite, fui onorato col nome
dell’Apostolo delle Genti, ed in seguito ammesso nel monastero della Madonna di
Pentelis come monaco. Pochi mesi dopo venni ordinato Diacono per mezzo
dell’imposizioni delle mani del Vescovo di Roge (Ρωγών).
Disprezzando le continue molestie da parte dei membri del fosco Ordine
papista dei così detti «Greci uniti» poco numerosi in Grecia, la
fantasia dei quali non si esaurisce mai quando si tratta di macchinare ogni
specie di calunnie mi sento felice perché circondato dall’affetto, dalla
simpatia, e dalla comprensione da parte della SS. Chiesa Greca e della
venerabile Gerarchia, come pure da parte delle diverse Organizzazioni religiose
ed in genere di tutti coloro che fin oggi mi onorano con la loro spirituale
conoscenza.
Da tutti questi, miei padri e fratelli nella fede, e da quelle persone che
a mezzo dei miei scritti benevolmente hanno appreso di me e di tutta la mia
Odissea, chiedo il soccorso delle loro preghiere per ricevere la grazia del
Cielo, onde mantenermi degno e costante verso il grande ed eccellente beneficio
di Dio.
IL
CONSENSO DELL’AUTORE
Salonicco, 1 febbraio
1955
Al molto Rev.
Archimandrita Benedictos
Katsanevakis
NAPOLI
(Italia)
Molto Reverendo,
Con grande gioia ho ricevuto tempo fa il Vostro libro: “I Sacramenti nella
Chiesa Ortodossa”, per l’invio del quale desidero esprimerVi i miei più sentiti
ringraziamenti. L’ho letto e studiato con molta attenzione e dopo di ciò sento
profondamente, come ortodosso Occidentale, la riconoscenza per la Vostra
attività illuminatrice e missionaria in Occidente, attività e opera, alle
quali, io, personalmente, debbo tanto, come attuale Cristiano Ortodosso.
La seria obiettività che usate nei vostri studi, la profonda scientifica
dignità e la fervente dedizione ai principi dell’inalterata eredità
dell’Ortodossia, presentano la Vostra Opera Apostolica quale veramente unica.
Da molto tempo avevo grande desiderio di venire in contatto spirituale con
Voi, affinché, da giovane ed inesperto operaio nella Vigna del Signore,
approfittassi dalla Vostra ricca, spirituale e scientifica esperienza
missionaria, ma ignoravo il Vostro preciso indirizzo in Napoli. Ultimamente
l’ho conosciuto durante la mia permanenza al Patriarcato Ecumenico di
Costantinopoli, ove con piacere ho constatato la profonda stima di cui lì gode
la Vostra persona ed il Vostro Apostolato…
Ora, rispondendo alla Vostra ultima lettera, con filiale riconoscenza per
l’onore concessomi Vi do pieno il mio consenso per la traduzione in lingua
italiana del mio umile libretto circa la mia conversione all’Ortodossia.
Ringrazio anticipatamente per questa Vostra fatica.
Devotissimo
Paul Fr. Ballester Convalier
[1] Editto del Sancti Officii del
24 Gennaio 1647 che fu approvato ed inviato da Papa Innocenzo X. Vedi il testo
in: Du Plessis d’Argenté, 3, 2/248.
[2] L’«Index Librorum Prohibitorum» è il
catalogo ufficiale che pubblica il Vaticano e nel quale vengono registrati
tutti i libri il cui insegnamento è contrario a quello Cattolico-Romano.
[4] «Catene» si chiamavano le
consecutive citazioni dei passi esegetici dei S. Padri riferentisi nello stesso
tempo ai passi commentati della S. Scrittura.
[5] Tutti questi avvenimenti non possono
non essere riconosciuti dagli stessi storici romani. Vedi p. e. G. Greenen, «Dictionnaire de Théologie Catholique», Paris 1946,
XVI, 1, pagg. 745-746; J. Madoz, S. J., «Une nouvelle rédaction des textes
pseudopatristiques sur la Primauté, dans l’oeuvre de Jacques de Viterbe?»
(«Gregorianum» vol. XVII, 1936 pagg. 563-583); R. Ceiller «Histoire des Auteurs
Ecclesiastiques», Paris vol. VIII, pag. 272. Ed anche: F. X. Rensch, «Die
Falschungen in dem Tractat des Thomas von Aquin gegen die Griechen»
(«Abhadlungen der K. Bayer», III. cl. XVIII, Bd. III. Munich, 1889). C. Werner,
«Der heilige Thomas von Aquin», I, Ratisbone, 1889, pag. 763.
[7] II Corinzi 11, 5 e 12, 11 «Io
stimo di non essere in nulla inferiore ai sommi Apostoli» e «in
nulla sono stato da meno dei sommi Apostoli».
[8] Vedi: G. Greenen, «Dictionnaire de Théologie Catholique» Paris 1946,
vol. XVI, 1, pag. 745 e segg.; R. Ceiller, «Histoire des Auteurs
Ecclèsiastiques» Paris, vol. VIII, pag. 272.
[9] Il 23 ottobre 1329, nella Sentenza
«Licet Iuxta Doctrinam». «Ioannis XXII, Constitutio, qua dammantur errores
Marsilli Patavini et Ioannis de Ianduno». Vedi testo a: Du Plessis d’Argenté,
1/365.
[10] Il 29 settembre 1351 nell’Epistola
Papale «Super Quibusdam», al Cattolico Consolatore degli Armeni. Vedi testo a:
Cardinale Baronio «Cronache» anno 1351, art. 3.
[12] Il Sinodo del Vaticano, che fu
convocato nella Basilica di S. Pietro in Roma dal 8-12-1869 fino al settembre
del 1870, stabilì, che il Primato del Papa era la parte più importante del
Cristianesimo, e confermò la teoria dell’Infallibilità del Papa. Vedi
testi a: Conc. Vatic. Const. Dogmat. Sess. 4, Const. 1, Bulla «Pastor Aeternus»
Cap. 1 (Denzinger, Enchiridion, 139, 1667-1683).
[13] Pio X nell’Editto «Lamentabili» il
cui testo trovasi negli: Acta Sanctae Sedis, 40-1907, 470-478. Vedi
anche: Concilii Fiorentini Decreta, Decretum unionis Graecorum,
in Bulla, Eugenii IV «Laetentur Coeli». Professio fidei Graecae
praescripte a Gregorio XIII per Constitutionen 51 «Sanctissimus Dominus
noster»; Professio fidei Orientalibus praescripta ab Urbano VIII ed Benedicto
XIV per Constitutionem 79 «Nuper ad Nos».
[20] «Hoc erant utrique et caeteri
Apostoli quod fuit Petrus, pari consortio praediti et honoris et potestatis».
S. Cipriano, De Unitate Ecclesiae IV. S. Basilio, in Isaia, 2.
S. Isidoro Hispalensis (di Siviglia), De Officiis Liber II
cap. 5, ecc.
[24] S. Ambrosio. De Poenitentia,
7. In Occidente circolano edizioni dell’opera di S. Ambrosio nelle quali la
parola latina «Fidem» è stata sostituita con «Sedem» facendo sì
che il testo dice «Non possono avere eredità di Pietro coloro i quali non
reggono come lui sulla stessa cattedra».
[25] Martino V. Bolla «Inter cunctas», 8
Calend. Martii 1418. Gerson, de Statu Sum. Pontif. Consid., 1.
[28] «Si quis dixerit... Petrum non
esse a Cristo constitutum, Apostolorum et totius Ecclesiae Militantis Visibile
Caput..., anathema sit», Concilii Vaticani, Constit. Dogmat. Sess. 4, Const. 1, Bulla a «Pastoar Aeternus», Cap. 1.
[38] Gregorio XVI (Mauro Cappellari,
libro circa il Primato del Vescovo di Roma). Omelia introduttiva, cap. 25.
[43] Idem, Prologo, vol. 2. Vedi anche:
Marin Ordonez, «El Pontificato», vol. I, cap. 10, p. 30, Madrid 1887. J. Donoso
Cortés: «Obras Completas» vol. 2, pag. 27, Madrid, 1904.
[46] Mons. Roey, «L’Episcopat et la Papauté au Point de vue Theologique»,
appendice 10° in «The Conversations at Malines», publicato da Lord Halifax,
London 1930.
[53] Bonifacio VIII, Bolla «Unam
Sanctam»; e più chiaro e sviluppato in: Bernadus Claravalensis, De
Consideratione, IV, 3; Hugui Sancti Victoris, De Sacramentis,
II 2, 4; Alexandre d’Halés,Summa Theologia, IV, quaestio 10, N.° 5, N.°
2.
[58] Constit. Dogmat. Conc. Vatic. Sess. 4, Const. 1, Bolla «Pastor Aeternus» (Test. in: Denzinger, Enchiridion,
139, 1667-1683).
[61] In questo modo i cattolici-romani,
in virtù dell’ipotetica infallibilità del loro Papa, somigliano a quegli
antichi eretici i quali furono condannati da tutta la Chiesa, perché, come dice
S. Vincenzo da Lerino, «avevano la temerità di promettere e insegnare, che
nella loro Chiesa, cioè nella loro eretica fazione, scendeva una speciale
grande grazia, del tutto personale, di modo che senza nessuna fatica, senza
nessuno sforzo, senza la minima cura, anche se non richiesta o non invocata
ricevevano da Dio un tale rinforzo tutti coloro che facevano parte della
fazione, come se Angeli li sostenessero sulle loro ali, e mai ferivano i loro
piedi sopra alle pietre, cioè mai subivano scandalo di falsa spiegazione». Commonitorium
de Orthod. Fide 25, 8.
[63] Devoti, Instit. Canon., Prol. Cap. 2.
Più che in ogni altro caso si addicono qui le parole di S. Vincenzo: «Non
finisco di stupirmi – dice questo venerabile e più antico padre della Chiesa –
per l’estrema empietà del loro cieco cervello, per la loro insaziabile passione
per l’errore ed il male, che non si soddisfano con canone della fede, dato e
ricevuto una volta per sempre da tempi antichissimi, ma cercano quotidianamente
innumerevoli innovazioni e sono continuamente inquieti volendo aggiungere
ancora qualcosa alla religione o cambiare o togliere qualcosa, come se non
fosse dogma divino quello secondo il quale basta agli uomini quello che è stato
rivelato una volta, e loro credono che ciò sia una legge umana, la quale non
può essere portata alla sua perfezione se non attraverso una assidua correzione
e revisione». (Commonitorium 21, 1).
[65] Gratianus, Codex juris
Canonici, vol. 1, dis. 13, part. 1, cap. 6, pag. 90. Parigi, 1612 e
Col. 55, Editio Leipzig., 1839.
[66] «Si autem Papa erret,
praecipiendo vitia, vel prohibendo virtutes, tenetur Ecclesia credere vitia
esse bona et virtutes mala». Theologia, Bellarmino, «De Romano
Pontefice», libr. 4, Cap. 23.
[67] «Deus et Papa faciunt unum
consistorium... Papa potest quasi omnia facere quae facit Deus... et Papa
facit quidquid libet, etiam illicita, et est ergo plus quam Deus».
Cardinalins Zabarella, De Schism, Innocent. VII.
[71] «Vidi che non procedevano con fermo
e diritto piede secondo la verità del Vangelo» (Gal. 2, 14).
[72] Papa Marcello (296-303) cadde
nell’idolatria e giunse al punto di sacrificare nei Templi degli Dei pagani per
salvare la propria vita e i propri beni durante le persecuzioni di Diocleziano.
È per esempio un avvenimento di storica precisione, che Marcello entrò nel
Tempio di Afrodite e ivi sacrificò alla Dea sullo stesso altare di questa. Tale
avvenimento scandaloso generalmente noto e divulgato all’epoca, fu il motivo
per cui la cristianità di Roma conservò il peggiore ricordo di questo Papa per
intere generazioni, almeno fino al termine del V secolo, da quello che
giudichiamo dalle testimonianze che giunsero fino ai nostri giorni. – Gli
storici cattolici-romani nell’impossibilità di negare la chiarezza delle prove
storiche su questi tristi avvenimenti, preferiscono attribuirli alla fantasia
degli eretici Donatisti, nemici di Marcello, i quali avrebbero sollevato una
campagna diffamatoria contro di lui dopo la sua morte. Ma non possono spiegarci
perché in tal caso, nello stesso romano «Liber Pontificalis» Papa Marcello è
esplicitamente annotato apostata. Questa, inoltre, è stata
precisamente l’opinione del clero superiore romano, il quale negò di inscrivere
il nome dell’apostata suo Capo nel calendario ufficiale ove si segnano gli
anniversari di tutti i papi. Difatti da papa Fabio (250) fino a papa Marco
(335) si trovano ivi tutti i nomi e le date di tutti i vescovi di Roma con la
sola eccezione di Marcello.
[73] È generalmente noto che nel Sinodo
di Sardica del 342 (343?) i Vescovi d’Oriente insieme al Patriarca di Antiochia
Stefano, di fronte alle pretese Occidentali di revisionare le sentenze e le
particolari disposizioni ecclesiastiche degli Orientali, scomunicarono Giulio,
vescovo di Roma, Osio vescovo di Cordova (Κορδούης), Protogene di Sardica ed altri (Vedi:
Mansi, Summa Conciliorum, Anche Synod. Sardica, Decreta).
[74] Riguardo alla eresia di Liberio,
(352-366) abbiamo tre insospettabili testimoni: S. Girolamo, S. Ilarione e S.
Pietro il Damianòs. Papa Liberio essendo Ortodosso in principio fu poi escluso
da Roma ed esiliato dagli Ariani. Ma poco dopo, stanco degli incomodi
dell’esilio, e mosso dalla nostalgia della sua molto onorata e sontuosa vita
che menava sulla cattedra papale, tradì i suoi seguaci, si ribellò, e firmò «il
credo» eretico degli Ariani. Dopo di ciò condannò e scomunicò S. Attanasio
quale eretico. Grazie a ciò, gli ariani gli permisero di tornare a Roma e di
rioccupare il suo trono. S. Girolamo scrive esplicitamente: «Liberio stanco
degli incomodi dell’esilio sottoscrisse l’errore eretico e tornò a Roma come
conquistatore» (Cronache, A. D. 357; e: De Script. Eccles.).
Ciò conferma e dichiara S. Ilarione parlando del terrore che si produce vedendo
la firma papale sotto il «credo» eretico: «Haec est perfidia ariana!»
(Fragment. Histor, VII). Anche S. Pietro il Damianòs, del secolo XI,
conferma di nuovo, che Papa Liberio fu «eretico e apostata». (Liber
Gratissimus, cap. 16).
[75] S. Attanasio, Storia Ariana,
73. S. Attanasio dice egualmente, che papa Felice era tanto scandalosamente
eretico che i fedeli di Roma si rifiutavano di entrare nelle chiese, che egli
visitava (Epist. ai Monaci opp. I 861, Parigi 1627). Vedi anche:
Duchesne, Histoire Ancienne de l’Église, vol. II, cap. XIII.
[76] Papa Onorio (625) accettò e sanzionò
pubblicamente gli insegnamenti eretici dei monoteliti. Restando fermo in tale
errore, tanto fondamentale per la fede, fu con unanimità condannato e
scomunicato dal VI Concilio Ecumenico insieme con tutti gli altri capi della
eresia monotelita. «A Teodoro Faranite anatema; a Sergio l’eretico anatema;
a Onorio eretico anatema; Ciro l’eretico anatema; a Pirro l’eretico anatema»
(Vedi Mansi, Sum. Concil. Actae VI Concil. Gener, Sess. XIII). Su tali
avvenimenti non esiste nessun dubbio; gli stessi successori di Onorio al papato
lo confermano nelle loro Epistole; così S. Leone II nella sua lettera
Apostolica che inviò ai Vescovi di Spagna, chiedendo il loro consenso sugli
insegnamenti del VI Concilio Ecumenico, dice che Onorio ed i suoi seguaci «furono
puniti con la perpetua condanna» («aeterna condemmatione multati sunt»),
perché il Concilio li trovò traditori della purezza della tradizione
apostolica. Lo stesso S. Leone II scrive al Re Ervigio che Onorio «fu
condannato dal venerabile Concilio e escluso dalla comunione della Chiesa
universale». Similmente Papa Adriano II nella sua Epistola circolare del
Sinodo Romano, fa menzione dell’eretica colpevolezza e della scomunica di
Onorio dal Concilio «Honorio ab Orientalibus post mortem anathema sit dictum
sciendum tamen est, quia fuerit super hacresi accusatus...» (Adriani II,
Epist. Synod. Concilii Romani, quae in Octavae Synodi Actione VII et lecta et
approbata est). Gli storici cattolici-romani, non potendo negare la evidenza di
tali avvenimenti, hanno l’ordine di passarli sotto silenzio assoluto o, nel
caso in cui vi sarebbe bisogno assoluto, solo di menzionarli semplicemente.
Così p. e. nella «Somme des Conciles» di Abbé Guyot (Paris, 1968), non si trova
in nessuna parte dei verbali che riguardano la XIII seduta del VI Concilio
Ecumenico nemmeno il minimo cenno della condanna di Onorio (Vedi voi. I, pag.
315). E l’Ufficio del «Breviarum Romanum», per il festeggiamento di S. Leone
che si festeggia in Occidente il 28 giugno, conteneva le relazioni di tutti
questi avvenimenti fino al giorno in cui il Vaticano si avvide che il testo era
tanto offensivo e ne ordinò la distruzione. Lo tolsero difatti nella riforma
del «Breviarium» che fece Papa Clemente VIII.
[77] Papa Sisto V pubblicò intorno al
1590 un testo della «Vulgata» e proclamò ufficialmente dal «perpetuum Decretum»
che questo sarebbe da allora in poi l’unico autentico e autorevole testo delle
Sante Scritture, dato che lui stesso lo aveva corretto con le sue mani
medesime, «appoggiandosi sulla potenza della sovrabbondanza dell’autorità
apostolica». Il «Decretum» rendeva ufficialmente noto ai fedeli che tutte
le altre edizioni della Bibbia restavano automaticamente senza valore e che
colui il quale osasse mutare il minimo del nuovo testo o anche degli
insegnamenti e delle altre pubbliche interpretazioni come discussioni private,
ripianerebbe «ipso facto» scomunicato. Ma questa edizione di Sisto V fu
presentata tanto piena di errori di traduzione, espressione ed insegnamento che
neanche uno scolaro l’avrebbe presentata. Ciò costrinse a ritirarla subito con
il più grande scandalo. Il successore di Sisto al papato, Clemente VIII, per
far dimenticare quanto più possibile il fatto, pubblicò un nuovo testo della
«Vulgata» il 1592, differente in innumerevoli parti dal precedente, anche
questo molto difettoso. Ma lo scherno generale sollevato dalla infelice
«Vulgata» di Sisto V fu tale che per secoli la memoria di questo Papa era
dappertutto causa di ironici motteggi, fino al punto che il Cardinale
Bellarmino comprendendo che ciò costituiva un serio ostacolo per la
divulgazione dei suoi insegnamenti circa il potere papale, chiese a Papa
Gregorio XIV di proteggere la fama di Sisto V, pubblicando di nuovo il testo
ora corretto (Vedi Card. Bellarminus,Autobiografia, Ediz. 1591, pag.
211). Il Bellarmino pensava di aggiungere anche un prologo a questa nuova
edizione, nel quale fosse spiegato ai fedeli che nella infelice lª edizione del
1590 si erano commessi «alcuni errori» di cui i responsabili erano... «i
tipografi ed altre persone»! Ma lo stesso Bellarmino confessa nella sua
Autobiografia che tale suo pensiero non era altro che una pia bugia, perché
nessuno ignorava che Sisto era l’autore di tale «labirinto d’errori di ogni
genere» e che ogni paragrafo che questo papa aveva toccato era stato
tramutato nel peggiore modo. «Per multa perperam mutata».
(Bellarm. Aut. ibid., 291).
[78] Quando la Santa Inquisizione con le
sue torture e i suoi tormenti, per ordine del Papa Urbano VIII, ordinò a
Galileo di disapprovare la sua teoria, cioè che la terra gira intorno al sole,
questo celebre astronomo, avendo perduto la sua fede nel Papa e nella Chiesa di
lui, sussurrò ancora, dopo che aveva già firmato la disapprovazione impostagli,
quelle parole che la Storia fece celebri: «eppur si muove...!». Urbano
VIII pubblicò subito, come una vittoria dell’autorità papale, l’atto della
disapprovazione del grande astronomo, costretto a ciò tanto indegnamente dai
carnefici della Santa Inquisizione. E così dal giorno 30 Giugno 1633 tutti
furono costretti a credere che la terra non girava intorno al sole per paura
della scomunica per eresia. «Ma Iddio, il quale ancora anche in tali tempi
era più forte del Vescovo di Roma – dice con ironia Stanislas
Jedrezewky – aveva da dar ragione infine a Galileo». Difatti,
posteriormente il progresso della scienza astronomica fece tanto chiara la
teoria «eretica» di Galileo, in modo che il 1822 Papa Pio VII fu
costretto a porre in derisione l’autorità papale, correggendo i decreti della
Santa Inquisizione del 1633 contro Galileo, permettendo gli studi astronomici
di Kopernico. Infine, col più grande scandalo dei fedeli e con l’ironico
scherno del mondo scientifico, il Vaticano non seppe trovare altro mezzo onde
ristabilire il prestigio della sua autorità che permettendo e approvando tutto
quello che fino allora aveva condannato e scomunicato. E il 1835 fra la
generale derisione, il Papa ordinò di cancellare dal catalogo dei libri
proibiti (Index Librorum Prohibitorum) tutte le opere di Kopernico, di Keplero
e di Galileo.
[80] «Unum a te petimus fili
clarissime, Doctoribus Sedis Apostolicae non semper credas, multa illorum
passionibus tribua». (Epist. Pii II ad Carolum VII Regem Galliae. Epistol.
CCCLXXIV).
[81] Pio IV spergiurò contro le
disposizioni del canone VII del Concilio Ecumenico di Efeso nel quale è
compresa la sentenza e l’anatema contro colui il quale avrebbe osato comporre e
imporre ai fedeli un altro «Credo» differente da quello del Concilio di
Nicea. Egli compose il Credo che porta il suo nome: «Credo di Pio IV». (Credo
Pii Quarti). È vero che questo «Credo» non è contrario a quello di Nicea, ma
basta il fatto che è differente. Difatti nella V seduta del Concilio Ecumenico
di Calcedonia fu recitato il «Credo» di Nicea, e in seguito, fu proibito
non solo la compilazione di un «Credo» contrario a questo ma anche «un
altro Credo qualsiasi». (Vedi Mansi, Summa
Concil. Act, Concil. Ephes. Can. VII Act. Conc. Calced. Sess. V).
[82] Ogni Papa, secondo la disposizione
dell’VIII canone del Sinodo di Costanza è obbligato a fare confessione di fede
contenuta al «Liber Diurnus» durante la cerimonia della sua intronizzazione.
Tale confessione dice: «Con la mia bocca e col mio cuore, prometto di
osservare senza mutare in minima parte ciò che è stato prescritto e ordinato
negli otto Concili Ecumenici e cioè: in quello di Nicea, il primo; di
Costantinopoli, il secondo; di Efeso, il terzo; di Calcedonia, il quarto; di
Costantinopoli, il quinto e il sesto, e il 2° di Nicea, il settimo e quello di
Costantinopoli, l’ottavo. Prometto di stimarle tutte egualmente con il medesimo
onore e rispetto seguendo con sollecitudine tutto ciò che in essi è stato
disposto e condannando tutto ciò che in essi è stato condannato».
[92] «Placuit etiam, ut de dissentione
Romanae atque Alexandrinae Ecclesiae, ad sanctum papam Innocentium scribatur:
quo utraque Ecclesia intra se pacem, quam praecepit Dominus, teneat».
Afric., N° 101.
[118] S. Basilio, «Della Fede» Cap. I,
Confr. anche S. Giov. Crisostomo, Omelia XIII a II Corinz. 7.
Del medesimo Omelia XXI agli Efes.; e Omelia VI del
Lazzaro; S. Cirillo di Gerusal. Catechesi, 12.
[119] S. Basilio, Omelia XXI «Contro
i Calunniatori della SS. Trinità»; Confront. S. Giovanni Damasceno, «Della Fede
Ortodossa». Libr. I, Cap. I, S. Teodoreto, Dial. I.
[131] Vedi Martigny, Dictionn.
d’Archéologie Chréstienne, Evéques pag. 569: Atti di
Sinodo di Calcedonia.
[135] S. Ignazio d’Antiochia, Epistola
ai Filadelfesi, 1. Confr. Martigny Dict. d’Archéol. Chrét., Evéques,
pag. 566.
[137] Devoti, Institutiones
Canonicae, Proleg. Cap. II. – Bellarminus, De Pontifice Romano,
Lib. IV, Cap. 24, 25; e Libr. I, Cap. 9.
[139] Benedetto XV, Codex Iuris
Canonici, Canon. 222, 1. – Hefel, Histoire de Consiles, Introd. II, 3.
[146] Gregorio XVI (Mauro
Cappellari), El Triunfo de la Santa Sede, Tavol. Cap. VI, 10.
Madrid, 1834.
[148] Questa dedizione dei Gesuiti alla
cattedra papale, non fu mai sincera, specialmente nei casi in cui si urtavano
gli speciali interessi di questo involuto Ordine. Gli stessi Gesuiti,
nonostante la loro solenne promessa di cieca sottomissione al Papa, a cagione
della quale tanto si vantano quali possessori di una speciale virtù di primo
ordine, la dimenticarono d’un tratto, quando Clemente XIV ordinò lo scioglimento
del loro Ordine. Difatti il Papa Clemente nell’anno 1773 emanò un Editto
«Decretum Brevis» col quale proclamava lo scioglimento della Organizzazione dei
Gesuiti e l’annientamento di essa per sempre; costoro però invece di
sciogliersi si rifugiarono in Prussia e in Russia, dove il Papa non poteva
mettere con la forza delle armi in pratica il suo Editto. Ivi rimasero
organizzati moltiplicandosi fino al 1814, quando riuscirono con le loro perfide
macchinazioni ad ottenere dal Papa Pio VII la emanazione di un altro Editto con
il quale si abrogava il primo e si permetteva di nuovo l’esistenza e il
funzionamento dell’Ordine.
Matteo 16, 18-19: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia
Chiesa, e le porte dell’Ades (Ades vuol dire mondo
invisibile e designa il soggiorno dei morti) non la potranno vincere;
ti darò le chiavi del regno dei cieli; e tutto ciò che avrai legato sulla terra
sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei
cieli».
Giovanni 21, 15-17: «Gesù disse a Simon Pietro: Simon di Giona, m’ami tu
più di questi? Egli gli rispose: Sì, Signore, Tu sai che io t’amo. Gesù gli
disse: Pasci i miei agnelli. Gli disse di nuovo una seconda volta: Simon di
Giona, m’ami tu? Ei gli rispose: Sì, Signore: tu sai che io t’amo. Gesù gli
disse : Pastura le mie pecorelle. Gli disse per la terza volta: Simon di Giona
mi ami tu? Pietro fu rattristato ch’ei gli avesse detto per la terza volta: Mi
ami tu? E gli rispose: Signore, tu sai ogni cosa; tu conosci che io t’amo. Gesù
gli disse: Pasci le mie pecore».
Luca 22, 31-32: «Simon, Simon, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come
si vaglia il grano; ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga
meno; e tu, quando sarai convertito assicura i tuoi fratelli (del tuo
convertimento)».
* Nota: Per diretta esperienza acquistata
durante i venticinque interi anni in cui svolgo il mio ministero qui in un
paese per eccellenza Cattolico posso affermare che potete trovare il 90% dei
cattolici-romani digiuni delle più elementari nozioni circa la religione e il
loro rito ma non trovereste nemmeno uno che non conosca il passo Evangelico «Tu
es Petrus» ecc. † A. B. K.
[151] Vedi, per esempio, Knabenbauer, S.
J., Cursus Scripturae Sacrae, Paris, 1903, Comment. in Ev.
Matthaeum, pars altera, pag. 60 e seguenti. I Knabenbauer, Cornely e Hummelauer
dell’Ordine dei Gesuiti hanno la temerità di sostenere nel loro «Cursus
Scripturae Sacrae» che quei dei SS. Padri, i quali non riconoscono sulla base
del su riferito passo il primato papale, lo fanno perché hanno sbagliato,
prestando bene attenzione al vero senso di tutto il testo: «Si Sanctus
Doctor recogitasset – scrive Knabenbauer parlando del S. Agostino – Christum
locutum esse aramaice, vel si hanc et totum conteaeum perpendiset, probaeto
priore sua interpretatione stetisset» (Ivi pag. 61).
[152] Bernardino Llorca, S. J. Historia
de la Iglesia Católica. Vol. I, Cap. 1, pag. 49. Madrid, 1850.
[155] Leone XIII, Enciclica «Satis
Cognitum» (il testo in: Josè Madoz, S. I. Enquiridion sobre el Primado
Romano, 361).
[156] Concil. Vatic. Constitut.
Dogmat., I. De Ecclesia Christi. Cap. I. (Denzinger, Enchiridion,
pag. 396). Vedi anche: The Conversations at Malines, pubblicate da
Lord Halifax, III Conv. London, 1930.
** Nota: L’Apostolo Pietro non si è recato mai
a Roma come ha dimostrato L. Teillefer Pasteur nel suo libro «S. Pierre a-t-il
jamais été a Rome?», Genève 1845. Vedi anche: Arch. Demetracopulos nel suo
libro: «Della leggendaria venuta di Pietro a Roma». Arcivescovo di Atene
Crisostomo «Il primato di Vescovo di Roma» pag. 14, Atene 1930. Il mio libro
«Luce sulle vicende della Chiesa» pagg. 47-50, Napoli 1949.
Riguardo al passo di Eusebio citato dal
Rev. autore osserviamo che esso proviene da Papia Vescovo di Gerapoli che
scrisse verso il 140 una «Esegesi dei detti del Signore», andata perduta ma di
cui Eusebio di Cesarea (†340) nella sua «Storia Ecclesiastica» ed altri
scrittori ci hanno conservato qualche frammento. Papia nel proemio del suo
libro diceva che si basava, per la raccolta «dei detti del Signore» sopratutto
sulla tradizione orale degli anziani e specialmente di Aristione e di un certo
anziano Giovanni che non può essere l’Apostolo Giovanni per molte altre ragioni
e perché egli certamente sarebbe già morto quando Papia scriveva. Papia poi
come risulta dalla sua narrazione non era nemmeno il diretto ascoltatore del
detto anziano Giovanni, ma ha ricevuto i suoi detti di seconda mano, dimodoché
questi possono essere andati soggetti a due successive alterazioni, per opera
dell’informatore di Papia e di Papia stesso. Le informazioni non sicure di
Papia che interessano il nostro argomento dicono: «L’anziano Giovanni diceva
anche questo: Marco divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente quanto
ricordo... e intorno a Matteo poi dice (chi dice l’anziano o Papia?) Matteo
raccolse per scritto i discorsi in lingua ebraica» (Eus. III 16, 4). Ireneo
vescovo di Lione (†180) attingendo anche egli come Eusebio da Papia la stessa
frase l’ha manipolata così: «Matteo scrisse il Vangelo fra gli Ebrei, nella
loro stessa lingua, quando Pietro e Paolo evangelizzavano in Roma e fondavano
la Chiesa. Dopo la loro morte poi Marco, lo scolaro e l’interprete di Pietro...»
(Ireneo, Adversus Haereses III l, 1-3). Il tratto specifico in
cui Papia riferiva: «Marco divenuto interprete di Pietro...» e Ireneo
con identiche parole: «Marco lo scolaro e l’interprete di Pietro…» ci
mostra come Ireneo debba avere Papia per fronte. Siccome le notizie di Papia
non hanno nessun fondamento solido così anche le notizie che attinge da lui
Ireneo non possono avere di storicamente apprezzabile nulla riguardo alla
fondazione della Chiesa romana né da S. Pietro, né da S. Paolo e tanto meno
l’hanno fondata insieme. Lo stesso vale per Tertulliano e per Clemente di
Alessandria (†200) con i quali giungiamo fin entro il terzo secolo. È assurdo
ammettere che S. Pietro andasse attorno nel mondo ellenico-latino, predicando
in aramaico e che Marco un suo figlio (I Pietr. 5, 13) (certamente non
l’Evangelista Giovanni Marco) gli facesse da interprete. † A. B. K.
[162] Già al Vecchio Testamento, Dio e
Gesù molte volte vengono simboleggiati con la Pietra: Genesi 49, 24;
Deuteronomio 32, 4-15; II Samuele 23, 3; Salmi 18, 3; 47, 19; 28, 1; 31, 3; 73,
26; 89, 27; 118, 22; Isaia 8, 14; 17, 19; 28, 16; Zaccaria 3, 8-9; confr. Apocalisse
5, 6.
[163] Al Nuovo Testamento, il simbolo
della Pietra si riferisce sempre a Gesù Cristo: Matteo 21, 42; Marco 12, 10;
Luca 20, 17; Atti 4, 11; Romani 9, 33; Efesini 2, 20; I Corinzi 3, 10;
Colossesi 2, 7, I Pietro 2, 4-8.
*** Nota: Non è affatto certo che l’Evangelista
Marco era stato «discepolo, compagno e interprete dello stesso Pietro» e meno
ancora che egli «scrisse il suo Evangelo secondo l’insegnamento e lo spirito
di questo Apostolo». Eusebio Vescovo di Cesaria (†340) nella sua «Storia
Ecclesiastica» (III, 15) riporta un brano della perduta opera di Papia Vescovo
di Gerapoli (†140) «Esegesi dei detti del Signore» in cui Papia scrive che egli
ebbe l’informazione da un individuo che non determina, ma che definisce un
certo «anziano Giovanni» diceva che «Marco, divenuto interprete di
Pietro, scrisse accuratamente quanto ricordò...». Dalla detta Opera di
Papia prese tale notizia, come abbiamo visto nella nota precedente, Ireneo di
Lione (†180) e da Ireneo altri successivamente fino ai nostri giorni. Ma chi sarebbe
questo Marco? Papia e da lui Ireneo gli altri studiosi posteriori, sapendo che
esiste un Vangelo secondo un certo Marco supposero che potevano identificare il
Marco Evangelista con il Marco menzionato nella I Pietro (5, 13) come «figliuolo»
di Pietro. E partendo essi da questa ultima notizia hanno supposto che il Marco
della epistola di Pietro sarebbe il Marco Evangelista. Tenendo poi loro
presente che l’Evangelista Marco non è annoverato fra gli Apostoli non hanno
trovato difficoltà nello scrivere che Marco Evangelista aveva come fonte del
suo scritto la predicazione di S. Pietro, e per conseguenza egli era «interprete
e scolaro di Pietro». Ma secondo i dati del Vangelo, tale identificazione
non regge. L’Evangelista Marco può essere identificato con Giovanni Marco,
parente di Barnaba, nominato ripetutamente negli Atti (12, 12-25; 13, 13; 15,
37-39) identico alla sua volta col Marco che compare come seguace di S. Paolo
in Col. 4, 10 (ove è chiamato espressamente nipote di Barnaba) Fil. v. 24, e II
Tim. 4, 11. Marco Evangelista quindi potrebbe essere identificato con Giovanni
Marco seguace di S. Paolo, ma seguace, di S. Pietro, mai. Marco che S. Pietro
menziona come suo «figliuolo» (I Pietro 5, 13) potrebbe essere benissimo
un omonimo suo «figliuolo» spirituale come pure non si esclude possa
essere un suo figliuolo genuino una volta che S. Pietro era certamente non solo
sposato (Matteo 8, 14; Marco 1, 30; Luca 4, 38) ma aveva l’abitudine di avere
con sé nei suoi viaggi Apostolici la sua moglie ed altri famigliari (I Corinzi
9, 5). † A. B. K.
[173] L’espressione orientale «le porte»
(Πύλαι), significa «le forze», perché in
caso di guerra o di un altro pericolo esterno, le forze della difesa si
raggruppavano presso le porte delle città fortificate, ove si mostrarono le
reali forze dinanzi al nemico. Questo senso, di più generalizzato si usa ancor
oggi; da ciò la frase «La Porta Alta» (Υψηλή Πύλη) ed altre. Questa metafora era certamente
abituale fra gli ebrei, popolo orientale per eccellenza, e per mezzo di esso
entrò nei testi delle S. Scritture.
[175] Vedi p. e. S. Agostino, In Concione
II super Psalmum XXX; In Psalm. LXXXVI; Epistola CLXV
ad Generosum; Tractati VII, CXXIII et CCXXIV in Ioannem; Sermo
CCLXX in die Pentecostes V; Sermo CCXLIV; Sermo
CCXIV; in Psalm. LXIX; Sermo XXIX De Sanctis. De
Baptism, II, 1. S. Crisostomo, Omelia 55ª nell’Evangelo di
Matteo; Omelia 51ª a Matt. 16, 18; Omelia 65ª; 4ª; 83ª;
S. Cirillo di Alessandria, a Isaia, Libr. 4°, Discorso 2° sulla
SS. Trinità, 4; al Vangelo S. Giovanni 21, 42. S. Girolamo, In Sctum.
Matthaeum, liber VI; Adversus Iovinianum, lib. I; InPsalmum
LXXXVI; Epistola XV ad Damasum, 2; S. Cipriano, Epist. XXVII De Lapsis; Epistol. XXXIII, in initio; Epist.
LXXIII ad Lubainum. De Unitate Eclesiae, IV; S. Ambrogio, De Incarnatione. Domin. Sacrament. 5; Liber
VI Comment. in Evang. Lucae 9; Comment. in Ephes.
2; Epist. ad Damasum; S. Giovan. Damasceno, Omelia,
Della Trasfigurazione; Tertulliano, De Pudicitia, 21; De
Praescriptionibus Haereticorum, XVI et XXII; S. Attanasio, Contro
Ariani, 3; S. Gregorio Nanzianzeno, Omelia 32ª 18; S.
Gregorio Nisseno, Encomio a S. Stefano, 2; Per la venuta del
Signore; S. Basilio, al 2° cap. di Isaia, Contro Eunomio, 2, 4; S.
Epifanio, Contro dell’eresie, 59; S. Ilario, De SS. Trinità,
liber II et VI; S. Gregorio Magno (di Roma) Moralia in Iob.
XXVIII, 14; Comment. in Psalm. CI, 27; S. Isidoro
d’Ispaleo, De officiis lib. II, 5; S. Beda, In Quest.
super Exodum, cap. XLII, in Recapitulatione; Homil. de
Feria III Palmarum in cap. XXI Ioannem; Basilio di Seuleucia, Discorso
25°; S. Pietro Crisologo, Omelia 55ª Del Protomartire
Stefano; Omelia 74ª; Origene a Geremia, Omelia
16ª; Contro Celso, libr. 3° 28; Commenti all’epistola
ai Romani, 5; Omelia 7ª ad Isaia. S. Eusebio
di Alessandria (vescovo di Laodicea) Omelia circa la Resurrezione;
Theodorito, Epist. 77ª a I. Corinz. 3, 10; Al Evlalio, vescovo
di Persia; S. Isidoro Pelusiota, Epist. 235ª 1; Theofilato a
Matt. 16, 18; Hincmari del Reims, in Opuscoli XXVIII adversus Hincmarum
Laudunensis episcopum, Vet. XIV; S. Ippolito al S. Epifania, 9. S.
Paolino, Epistol. XXVII, ad Severum, 10.
[191] «(Il Signore), preferendo Pietro
fra tutti gli altri Apostoli lo costituì quale Capo dell’Unità della Chiesa e
quale fondamento visibile di essa, sulla saldezza del quale edificò l’eterno
edificio della Chiesa». Bulla Pastor Aeternus, Constit. I,
Introduct. (Denzinger, Enquiridion, 1667).
[195] Ciò costituisce la principale
obiezione contro il Primato Papale, che riferì l’Arcivescovo Strossmayer nel
Sinodo del Vaticano. Durante il suo discorso, fu interrotto molte volte dagli
altri Cardinali, membri del Sinodo, con le frasi: «rompete la bocca all’eretico»
«Faccia silenzio il bestemmiatore!» ecc. (Vedi Kolnische Zeitung 13-7-1881).
Anche l’Arcivescovo cattolico-romano Kenrick (San Louis, U.S.A.) pubblicò a
Napoli, il 1850, un discorso che aveva approntato per leggerlo al Sinodo del
Vaticano. In tal documento egli confessava: che il Primato del Papa è contrario
alle rette interpretazioni della S. Scrittura, contrario agli atti dei Concili
Ecumenici e agli insegnamenti dei SS. Padri. Per ignote cause, che non è
difficile indovinare, questo discorso non fu tenuto al Sinodo. Da fonte non
ufficiale tale mancanza fu giustificata con il pretesto che: «Il molto Rev.
Kenrick aveva perduto già il suo portacarte quando giunse alla Città del
Vaticano!». Qui si adattano molto bene le frasi di S. Attanasio relativamente
ai seguaci di Apollinario: «Accecati dall’odio, tradiscono i messaggi dei
Profeti e gl’insegnamenti degli Apostoli e gli ordini dei SS. Padri, e le
stesse indiscutibili parole del Signore» (Dell’Incarnazione, Contro
Apollinario I, 1).
[196] Ogni candidato all’Ordinazione nella
Chiesa romana deve indispensabilmente giurare solennemente, fra le altre cose:
«Credo fermamente che la Chiesa è stata edificata su Pietro, Principe della
Gerarchia Apostolica e sopra i suoi successori» (Motu Proprio Sacrorum
Antistitum, Pii X. Acta Sanctas Sedis, II 1910, 669-672).
[199] L’etimologia del termine «Cattolico»
non si adatta a coloro i quali si staccarono dalla cattolicità della Chiesa.
[214] «Haberliam non potest Deam
patrem, qui Ecclesiam non habet matrem». S. Cipriano, De Unitate
Ecclesiae VI.
[215] «Hanc unitatem qui non tenet, Dei
legem non tenet, non tene Patris et Filii fidem, vitam non tenet et salutem».
Ivi.
[216] «Nec parentum nec maiorum
nostrorum error sequendus est, sed autoritas Scripturarum et Dei docentis
imperium». S. Girolamo. In Ierem., 1, 12.
[218] Pubblicato ad Atene sotto il titolo
«Il viaggio e l’opera di S. Paolo in Spagna» (Ristampato dal periodico
«Ecclesia» Marzo 1954).
[219] Vedi: Relazioni tra le
Chiese Iberiche e le Chiese d’Africa, dal S. Cipriano a S. Agostino. Lux,
Lisbona, 1950. Anche: Arcivescovo Inan B. Cabrera: La Iglesia en Espana,
(Desde la Edad Apostolica hasta la invasione de los Sarracenos) Madrid, 1910.
[220] È però vero che oggi le cose sono
fortunatamente molto differenti e possiamo prevedere che, con l’aiuto di Dio,
nel prossimo futuro altre conversioni sicuramente saranno realizzate a cagione
dell’interesse e dell’amore all’Ortodossia, per le quali continuamente combattiamo
per aumentarle in Occidente.
[223] S. Gregorio Magno, Epistola
a Giovanni, Patriarca di Costantinopoli (Libro V, epist. XVIII Ed. Bened.
1705).
[236] Vedi p. e. l’Apologetica di
Juan Ruano Ramos, per uso degli alunni delle Scuole Medie, Barcellona, 1948.
[237] Ecco come viene caratterizzata
l’Ortodossia dai papisti: a) L’Ortodossia non è l’«una»
Chiesa, perché si è allontanata dal centro dell’Unità, il quale centro sarebbe
il Papa. b) Non è la «Santa» Chiesa, perché costituisce
un tralcio distaccato dalla vite madre, in cui circolano la grazia e la
santità: Questa vite madre sarebbe la Chiesa papale. c) Finì
d’essere la «Cattolica» Chiesa, quando si staccò da Roma che sarebbe
centro del Cattolicesimo. d) Non è nemmeno «Apostolica»,
in quanto non deriva dagli Apostoli, ma, dicono, da Fozio o/e da
Cerulario. Ivi: parte II (cioè: Apologetica di Juan Ruano
Ramos), contrassegni Distintivi della vera Chiesa di Cristo.
[242] Gli «Uniti» da «Unitas»
costituiscono l’Ordine spionistico dei papisti di rito greco, i quali
travestiti da Ortodossi operano proselitismo ai paesi e agli Stati Ortodossi.
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