Questo lungo articolo è tratto dal sito: il mondo
delle catacombe. Opportunamente sono stati lasciati i contatti ipertestuali
originali di modo che il lettore, se interessato, posa accedere alle fotografie
delle catacombe descritte o ad ulteriori approfondimenti.
1. Le origini delle catacombe
Gravano ancora sul mondo delle catacombe una
certa quantità di luoghi comuni che dipingono queste suggestive necropoli
ipogee utilizzate dai cristiani dei primi secoli, come tristi
scenari di morte, come teatri delle più cruente azioni persecutorie e come
estremo rifugio dei fedeli in fuga. Tutte queste idee, alimentate specialmente
dai romanzi del 1800 e dai kolossal cinematografici del secolo
scorso, cominciarono a circolare piuttosto presto se, nella seconda metà del IV
secolo, S. Girolamo si sofferma a descrivere l'habitat oscuro delle
catacombe con termini e toni piuttosto forti ed impressionanti, rievocando
come, da ragazzo, quando soggiornava a Roma per studiare, era solito visitare
le tombe degli apostoli e dei martiri, insieme ai suoi compagni,
nel giorno del Signore. "Spesso – racconta Girolamo – entravamo nelle
gallerie, scavate nelle viscere della terra, completamente interessate dalle
sepolture e così oscure che sembrava si realizzasse il motto profetico: Discendano
vivi nell'inferno(Salmo 54,16). Rare luci, provenienti dal
sopratterra attenuavano un poco le tenebre, ma il chiarore era talmente flebile
che sembrava provenire da uno spiraglio e non da un lucernario. Si procedeva
adagio, un passo dietro l'altro, completamente avvolti nel buio, tanto che
veniva in mente il verso di Virgilio: Gli animi sono atterriti
dall'orrore e dal silenzio (EneideII, 755) (in Ezech.
12,40)". Questa oscura visione delle catacombe romane,
che risente della drammatizzazione tipica dei ricordi di infanzia, non
corrisponde certamente allo spirito che aveva animato i primi cristiani, quando
decisero di costruire dei cimiteri propri, ove deporre i fratelli di fede
defunti, come in una sorta di dormitorio (di qui la definizione koimeteria),
in attesa della resurrezione finale. Le catacombe, che desumono la
loro definizione dal termine greco che tradotto significa: presso
l'avvallamento, in relazione al complesso di S. Sebastiano sulla via Appia,
non erano altro che cimiteri comunitari e non luoghi di rifugio. Questi
sotterranei, infatti, erano ben conosciuti dalle autorità romane nella loro
ubicazione e dislocazione; in un certo senso, ne veniva ammessa e riconosciuta
la funzione funeraria, ancor più degli edifici di culto che nei primi secoli
dovevano mimetizzarsi tra gli altri edifici di abitazione. Allo scadere del II
secolo, le comunità cristiane trovano la forza e
l'organizzazione per svincolarsi dalle sepolture delle aree pagane, di cui sino
a quel momento si erano servite, come nei casi celebri della sepoltura di S.
Pietro in Vaticano e di S. Paolo sull'Ostiense, per creare delle aree proprie.
In questo frangente muta completamente il concetto individuale delle sepolture
e si solidifica quel "senso comunitario" che guiderà
l'ideologia cristiana dei primi secoli. Questo spirito nuovo
spinge i fedeli a creare delle vere e proprie areae sepulturarum nostrarum,
come precisa autorevolmente Tertulliano, quando, in occasione di un contenzioso
sorto tra i fratres christiani e la plebaglia pagana,
quest'ultima gridava "areae non sint!", nel senso che non si
volevano concedere ai cristiani delle aree speciali, comuni e distinte dalle
necropoli pagane (Ad Scapulam 3).
Negli stessi anni, ovvero nell'estremo scorcio del II
secolo e agli esordi del seguente, anche i cristiani di Roma creano
degli spazi funerari propri, talora gestiti dalla più alta gerarchia della
Chiesa, come nel caso della cosiddetta "area prima" del complesso
di San Callisto, il cimitero voluto da papa Zefirino (199-217) e
affidato alle cure dell'allora diacono e futuro papa Callisto (217-222) (Ippolito, Philosophumena IX,
12, 14).
Anche in Oriente il concetto di
cimitero, inteso come un "dormitorio comune" inizia a diffondersi,
come testimonia una specificazione di Giovanni Crisostomo che definisce i
cimiteri come un luogo di riposo provvisorio in attesa della resurrezione
finale (Coemeteria, 1) e come conferma, per Alessandria, lo stesso
Origene che ricorda l'esistenza di grandi necropoli comunitarie attestate nel
suburbio della città (Homeliae in Jeremia 4, 316).
In tutto il mondo cristiano antico
si sviluppa, dunque, il desiderio di creare delle aree cimiteriali comuni, se
non altro per offrire a tutti i fratelli, anche ai meno abbienti, una degna
sepoltura. Per assolvere a questa esigenza si creano, secondo la testimonianza
di Tertulliano (Apologeticum 39,6), delle "casse comuni"
utili ad espletare tutte le pratiche della tumulazione, anche per coloro che
non potevano permetterselo. Tra gli obblighi sociali della comunità, infatti,
secondo la Tradizione Apostolica (cap. 34), si annovera quello
di occuparsi delle sepolture dei poveri, che non dovranno affrontare nessuna
spesa, né per la chiusura delle tombe, né per la cura delle stesse.
Uno spiccato senso comunitario guida,
dunque, la genesi e la fortuna delle catacombe che, ben
presto, soppiantarono l'uso di seppellire sopratterra, tanto che a Roma ne sono
venute in luce una sessantina, mentre nel resto del suolo italico se ne contano
altrettante, con riguardo speciale per la Sicilia (Palermo,
Siracusa), Campania (Napoli), Sardegna (Cagliari, S. Antioco), Umbria (Massa
Martana – Todi), Toscana (Chiusi), Puglia (Canosa), Basilicata (Venosa),
Abruzzo (Castelvecchio Subequo, Amiterno, l'Aquila), Lazio (Bolsena, Nepi,
Sutri, Rignano Flaminio, Grottaferrata, Albano), arcipelago toscano (isola di
Pianosa). Altre catacombe sono state individuate a Malta, in Africa (Hadrumentum)
e in Grecia.
Per quanto riguarda le catacombe
romane, oltre a quelle celebri e già citate di S.
Callisto, possiamo ricordare quelle di S. Sebastiano e
di Pretestato sulla via Appia; quelle di Domitilla sull'Ardeatina; quelle dei Ss.
Pietro e Marcellino sulla via Labicana; quelle di Priscilla, di
Felicita e dei Giordani sulla via Salaria nova; quelle di S. Ermete
e di Panfilo sulla via Salaria vetus; quelle di S. Agnese sulla
via Nomentana; quelle di Ciriaca sulla Tiburtina; quelle di S. Valentino sulla
via Flaminia; quelle di Aproniano e di Gordiano ed Epimaco sulla via Latina;
quelle di S. Tecla e di Commodilla sulla via Ostiense, quelle di Generosa sulla
via Portuense.
Chi percorre le gallerie delle catacombe
romane, si sofferma ad ammirare le ingenue decorazioni pittoriche,
i sontuosi rilievi dei sarcofagi, i luminosi brani musivi, le ardite
architetture scavate nel tufo; si emoziona dinanzi agli epitaffi, ora semplici
ed essenziali, sino ad essere ridotti ad un unico elemento onomastico, ora più
complessi e oscillanti tra un umano e nostalgico ricordo della persona cara ed
un'inattaccabile speranza nella vita dell'aldilà, che consola amici e parenti.
La visione, che si presenta al
visitatore contemporaneo, è fuorviante, lacunosa, frutto delle infinite
incursioni dei vandali di ogni epoca, a cominciare dalle invasioni storiche,
quando le catacombe, concludendo la loro vita funeraria, nel corso
della prima metà del V secolo, mantennero esclusivamente il ruolo di sedi del
culto martiriale, un ruolo che, facendo forza su uno spontaneo fenomeno
popolare, era stato strumentalizzato e sistematizzato nell'ultimo scorcio del
IV secolo, nell'ambito del complesso programma politico-religioso del papa
Damaso. Questa funzione selezionò, innanzi tutto, un ristretto gruppo di
monumenti, condannando alla dimenticanza tutti gli altri cimiteri cristiani,
che non conservavano sepolture di martiri e che sarebbero ritornati alla luce
soltanto di lì ad un millennio. Ma il culto martiriale, d'altra parte, salvò e
isolò settori minimi e ben circoscritti delle catacombe, disegnando
dei percorsi obbligatori, agevoli, illuminati e rapidi, che comportavano, in
sostanza, una scala di accesso, un breve itinerario interno al cimitero,
suggerito dallo sbarramento dei diverticoli da non percorrere, la sede del
culto alle tombe venerate e una scala di uscita.
2. La decorazione delle catacombe
Gli oscuri ambienti ipogei erano
rallegrati da una decorazione estremamente gioiosa e positiva. Gli affreschi si
dispiegavano sulle volte e sulle pareti delle gallerie e dei cubicoli. I primi
esploratori del XVI secolo, che riscoprirono ad una ad una, le catacombe del
suburbio romano, percorrendo con fatica quei meandri, alla luce delle fiaccole,
si arrestarono dinanzi a quegli affreschi, così semplici nella forma, ma così
profondi nei contenuti.
Il grande storico della chiesa Cesare
Baronio, descrivendo la prima catacomba ritornata alla luce nel maggio del
1578, quella di via Anapo sulla Salaria nova, dimostra tutta la sua
ammirazione per quegli ampi spazi sotterranei, che sembravano costituire una
vera e propria città completamente affrescata con immagini sacre (sanctorum
imaginibus ornata).
È significativo constatare che gli
esordi di un’arte propriamente cristiana a Roma
coincidano con la nascita ufficiale delle catacombe, tra il II e il
III secolo dopo Cristo, quando papa Zefirino (199-217 d.C.) affida al
diacono Callisto la
sovrintendenza delle catacombe della via Appia.
Proprio nell’area I di S. Callisto e
nella regione di Lucina, prospiciente il cuore del comprensorio callistiano,
si inaugura la grande stagione figurativa dell’arte delle catacombe che
interesserà tutto il III, il IV e il primo decennio del V secolo, per
riprendere, dopo la traumatica interruzione che vede la fine dell’utilizzazione
di questi suggestivi ipogei del suburbio romano, in età bizantina ed
altomedievale, con una seconda stagione meno feconda ma ricca di risvolti
devozionali.
Prima di questo avvio, l’arte cristiana che,
alle origini si propone specialmente come pittura cimiteriale, trova dei
sorprendenti precedenti nella decorazione parietale di alcune domus romane
e ostiensi e di alcuni ipogei sepolcrali romani. In queste ultime
costruzioni si assiste alla progressiva semplificazione dello “stile
architettonico” tanto caro alla pittura romana e vesuviana ed
anzi non è difficile riconoscere, in queste pitture del II e del III secolo,
l’estrema sintesi del II “stile pompeiano”. Dalle complesse architetture
illusionistiche della pittura pompeiana, si estraggono soltanto le strutture
portanti, tanto che rimangono solo delle linee rosse e verdi che suddividono lo
spazio delle pareti assolutamente bianche in forme geometriche, che vengono
decorate con figure di ispirazione cosmica e dionisiaca.
Nelle domus del
Laterano, nelle case ostiensi delle pareti gialle e delle volte dipinte, nella
“villa piccola” di S. Sebastiano sull’Appia si
possono ancora apprezzare queste semplici decorazioni che ricreano un mondo di
eroti, animali, uccelli, fiori, foglie, paesaggi, come per alludere ad un
illusivo habitat beato, sospeso nel cosmo.
Questo tipo decorativo trova la sua
manifestazione più complessa nell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, un
sepolcreto riferibile agli anni ’30 del secolo III, completamente dipinto in
tutte le pareti dei tre ambienti che lo costituiscono. Proprio dal
programma decorativo si arguisce che la religione osservata
dagli Aureli che utilizzano l’ipogeo si conforma come una
sincresi privata, la quale associa diverse realtà religiose del tempo, senza
ancora abbracciare il Cristianesimo. Le pareti, suddivise da un complesso
reticolo di linee rosso-verdi, includono immagini simboliche, che si
riferiscono alla tematica bucolica e filosofica. Ma l’ipogeo accoglie anche
scene estremamente singolari, che hanno fatto molto discutere gli iconografi.
Tra queste appare molto significativa una rappresentazione pastorale animata da
un pastore-filosofo con il suo gregge, dove, in passato, si riconobbe il Cristo
mentre pronuncia il Discorso della montagna, ma dove è più opportuno
riconoscere un defunto e, più precisamente, uno degli Aureli raffigurato
nell’aldilà, che è reso con un’ambientazione amena e rustica.
Un altro Aurelio è colto nel momento
in cui accede in una città oltremondana, nelle sembianze di un nobile cavaliere
che viene accolto da una folla che, poi, gli si aduna attorno, nel grande foro
della città, per ascoltarne attentamente la parola.
Una defunta, sempre appartenente al
gruppo familiare degli Aureli, è rappresentata mentre prende parte ad un
banchetto funebre a cui partecipano altri dieci commensali. Anche con questa
scena si vuole alludere all’ingresso della defunta nell’aldilà, che qui si
manifesta con la condizione paradisiaca del refrigerium, il pasto
funebre, già in voga presso i pagani, ma ripreso anche nella civiltà
paleocristiana.
Ma torniamo alle catacombe
di S. Callisto, dove, come si diceva, nasce
un’arte propriamente cristiana, con scene che, abbandonando la neutralità,
alludono direttamente alle storie della Bibbia o personificano le nuove virtù
cristiane. La pittura che decora le pareti di questi cubicoli si propone come
una manifestazione senza alcuna pretesa formale, nel senso che le immagini sono
rappresentate con grande semplicità, rasentando i canoni dell’arte naïve.
Al di là di queste elementari figure
emerge, però, un complesso di significati totalmente nuovo che convergono verso
la tematica delle salvezza espressa attraverso diverse coordinate simboliche.
Una di queste linee salvifiche è espressa dal tema del battesimo che viene
rappresentato esplicitamente con il Battista che impone le mani sul capo del
Cristo immerso nel Giordano. Ma anche altre scene, come quelle relative al
colloquio del Cristo con la Samaritana al pozzo, a Mosè che batte la rupe nel
deserto e al ciclo di Giona, in quanto ricollegabili all’acqua purificatrice,
possono essere facilmente riferite al sacramento del Battesimo, inteso come
mezzo per cancellare le macchie del peccato, ma anche come strumento
indispensabile per sconfiggere il concetto della morte.
Con lo stesso spirito, sempre
nelle catacombe
di S. Callisto, e precisamente nella regione
di Lucina, è rappresentato, in forma simmetrica, un singolare simbolo, che, in
passato, è stato collegato all’eucarestia. L’immagine, infatti, propone un
grande pesce su cui è posato un cesto di pani, attraverso il cui intreccio si
intravede un bicchiere di vino rosso. La suggestiva interpretazione è stata
confutata e si è ipotizzato che la figurazione voglia semplicemente alludere al
pasto funebre, nel senso che vengono rappresentati, in sintesi, gli oggetti,
dei conviti sepolcrali.
Ma l’arte delle catacombe dei
primi secoli allude – come si diceva – alla salvezza finale, con raffigurazioni
direttamente ispirate agli episodi salienti della Bibbia. Questo modo di
procede riflette, con ogni probabilità, la sensibilità dei Cristiani della
prima ora e può essere agevolmente collegata con altre manifestazioni
religiose, quali la liturgia. La scelta delle immagini bibliche, infatti,
risponde perfettamente alla formulazione delle prime preghiere, di cui noi oggi
abbiamo redazioni piuttosto tarde, che contengono, però, i nuclei più antichi.
In queste preghiere si fa esplicito riferimento alla salvezza concessa ai giovani
ebrei di Babilonia nella fornace, a Daniele nella fossa dei leoni, a Giona
ingoiato dal pistrice, a Susanna molestata dai vecchioni, ad Isacco che stava
per essere immolato da Abramo.
È significativo poter constatare che
questi episodi siano proprio quelli rappresentati nelle
regioni più antiche, dimostrando così, che i pittori della prima età cristiana cercano
nel grande repertorio della Bibbia i paradigmi più sintomatici della salvezza,
rispettando perfettamente le aspirazioni dei fedeli della comunità romana.
È anche interessante constatare che tali temi trovino puntuali confronti con la
decorazione di monumenti contemporanei d’area orientale, così come succede
nella domus ecclesiae di Dura Europos sull’Eufrate.
Nell’ambiente battesimale di questo antico edificio di culto, che possiamo
riferire alla prima metà del III secolo, sono dipinte, infatti, la scena della
samaritana al pozzo, il buon pastore, i protoparenti ed altri episodi biblici,
secondo gli stessi schemi che abbiamo riscontrato nelle catacombe romane,
dimostrando, così, che l’arte cristiana nasce simultaneamente, con
gli stessi significati e le medesime forme in tutte le regioni del mondo
antico.
Ma l’arte delle catacombe
romane non esprime soltanto una concezione salvifica, né attinge
esclusivamente agli scritti biblici, ma fa talora riferimento al vissuto
quotidiano della più antica comunità romana. Alcuni affreschi
alludono, infatti, al mestiere svolto in vita dai defunti, come accade
nel cubicolo dei bottai nelle catacombe di Priscilla,
dove vengono rappresentati otto costruttori di botti al lavoro o come possiamo
constatare nel cubicolo dei fornai a Domitilla, che accoglie una decorazione
complessa relativa all’attività dei mensores, nell’ambito
dell’attività annonaria.
Questo aspetto realistico interessa
anche altri più poveri documenti iconografici delle catacombe di Roma,
come le incisioni figurate sulle lastre funerarie che rievocano l’attività di
macellai, erbivendoli, ciabattini, negozianti, pescivendoli, come dimostra, ad
esempio, una celebre lastra del cimitero dei Ss. Marcellino e Pietro con una
vivace scena di vendita di un pesce.
Alcune scene oscillano tra la materia
realistica e quella spirituale, come quelle che raffigurano le scene di
banchetto, che vogliono riferirsi ai conviti funerari che si svolgevano presso
le tombe in occasione del giorno anniversario della morte dei fedeli, che i
cristiani definivano sintomaticamente refrigeria, alludendo, cioè,
ad un “rinfresco” concreto, ma simbolicamente applicabile anche al “refrigerio
dell’anima”.
Questa oscillazione tra il reale e lo
spirituale interviene anche nella rappresentazione dei fossori, coloro che si
preoccupavano di scavare le catacombe, ma che gestivano
direttamente anche la compravendita dei sepolcri, tanto da assurgere a figure
emblematiche delle catacombe, nella forma di un genius loci cristianizzato.
Con questo significato, i fossori vengono rappresentati nelle pareti di
ingresso dei cubicoli, come per “vigilare” sui sepolcri dei defunti.
Altre pitture delle catacombe
romane ci parlano della personalità dei singoli fedeli, con semplici
ritratti o con veri e propri cicli, che ripercorrono la vita terrena del
defunto. Emblematico, in questo senso, appare il ciclo dipinto nella parete di
fondo del cubicolo della “Velata” nelle catacombe di Priscilla sulla
via Salaria. Qui, un’anonima defunta è “fotografata” in tre momenti importanti
della sua storia, ovvero il matrimonio, la maternità e il suo accesso in
paradiso. Questo ultimo momento è stato realizzato con la figura intera della
defunta in atteggiamento di orante, con lo sguardo estremamente suggestivo
levato verso l’alto.
L’atteggiamento di orante, con le
mani sollevate ed aperte, rappresenta il gesto più diffuso nell’arte
paleocristiana sin dalle origini, quando compare insieme al buon pastore sulla
volta di un cubicolo della regione di Lucina nel comprensorio
callistiano.
Il gesto dell’expansis manibus,
come viene definito dal padre della Chiesa africano Tertulliano sul finire del
II secolo, non vuole esprimere una semplice richiesta di intervento divino, così
come era intesa dalla cultura pagana, ma vuole significare una condizione di
beatitudine e di salvezza. Per questo assumono questo atteggiamento i
personaggi della Bibbia (Noè, Daniele, Susanna, i giovani nella fornace), ma
anche i defunti e i martiri.
Come abbiamo detto, la figura
dell’orante, che proviene dall’immagine pagana della pietas, viene
spesso rappresentata in compagnia del buon pastore. Anche quest’ultimo presenta
dei precedenti nella cultura pagana, nel senso che era servito a interpretare il
concetto dell’offerta sacra nelle civiltà più antiche, quello della filantropia
nella cultura greca e quello della humanitas nel mondo romano.
Nel momento paleocristiano la figura del pastore con la pecorella sulle spalle
rappresentò presto il Cristo, in particolare riferimento alla parabola della
pecorella smarrita.
L’associazione del buon pastore con
l’orante, specialmente nella volta dei cubicoli, assume un profondo
significato simbolico, nel senso che il primo rappresenta la personificazione
dell’azione redentrice e salvifica del Cristo e la seconda la gioia e la
consapevolezza della salvezza conseguita.
Nella ricca produzione della pittura
catacombale, dunque, compaiono sia scene del Vecchio Testamento, sia immagini
propriamente simboliche, ma non mancano situazioni ispirate direttamente dalla
narrazione evangelica.
A questo riguardo – come si diceva –
viene rievocato il colloquio della samaritana al pozzo, ma anche le storie dei
diversi miracoli operati dal Cristo, come la moltiplicazione dei pani e dei
pesci, il matrimonio di Cana, la guarigione del cieco, del paralitico,
dell’emorroissa, la resurrezione di Lazzaro.
Alcune scene, più rare, raffigurano
momenti particolari della storia del Cristo, a cominciare dall’Annunciazione
della sua nascita dipinta in un cubicolo delle catacombe di Priscilla e
continuando con la prima rappresentazione della natività. Questo ultimo
documento iconografico decora una galleria dell’arenario centrale sempre
delle catacombe
di Priscilla sulla via
Salaria. L’affresco, riferibile agli anni 230-240, si inserisce all’interno di
un ameno contesto bucolico, animato da pastori, piante ed ovini, realizzato
precedentemente in stucco. La scena della natività non si pone soltanto come
una semplice rievocazione dell’evento evangelico, ma assurge a vero e proprio
manifesto teologico.
La Madonna è rappresentata seduta ed
ammantata come una matrona romana, mentre sostiene tra le braccia
il neonato, che si volge verso l’osservatore, come attratto da un richiamo.
Dinanzi a loro è dipinto un personaggio stante, in tunica e pallio, che addita
una stella, nel quale è stata riconosciuta, nel passato, la figura di S.
Giuseppe il quale, però, non viene mai rappresentato in queste antiche
figurazioni.
Nell’enigmatico personaggio si è, in
seguito, riconosciuto Balaam, Isaia o Michea, che esercitano il loro ruolo di
profeti, indicando, appunto, la stella della profezia messianica. Secondo
questa interpretazione, la semplice scena di natività acquisisce un significato
profondo e speciale, nel senso che il Bambino assume il ruolo di anello di
congiunzione tra le due economie testamentarie, rappresentate dalla profezia e
dalla realizzazione della profezia stessa, come per significare una naturale
coesione tra i due Testamenti, messa in discussione dalle controversie
cristologiche di quei secoli.
Proprio in quel tempo, e cioè nella
prima metà del III secolo, fu rappresentata un’altra singolare scena in un
affresco del cubicolo della coronatio nelle catacombe di
Pretestato. Questo cubicolo è interessato interamente da scene
a carattere cristologico e, segnatamente, la resurrezione di Lazzaro, la guarigione
dell’emorroissa e la samaritana al pozzo. Una quarta scena è stata oggetto di
un acceso dibattito critico sin dall’800, in quanto fu variamente interpretata,
anche a causa di inattendibili assemblaggi dei singoli frammenti che la
compongono.
Alla luce di un recente restauro, si
è potuto meglio comprendere la dinamica della situazione figurativa, che oggi
può essere agevolmente riferita all’episodio della coronazione di spine del
Cristo. Due militari, infatti, colpiscono con rami di canna il capo coronato
del Cristo, in tunica bianca, in un contesto bucolico animato da piante ed
uccelli in volo. Questi ultimi particolari e specialmente la presenza di un
volatile, in corrispondenza del capo del Cristo indussero alcuni studiosi a
pensare ad una situazione di battesimo, ma la ricomposizione più organica dei
frammenti pittorici non lascia più alcun dubbio circa un riferimento alla
“coronazione” del re dei Giudei.
Appare, comunque, singolare che in un
periodo così antico si rievochi un momento tanto prossimo alla fine drammatica
del Salvatore. Nella più antica arte paleocristiana, infatti, si evita
accuratamente di rappresentare situazioni drammatiche o negative, a favore di
una civiltà figurativa all’insegna dell’ottimismo, come dimostra l’assoluta
cautela nel rappresentare la cruciale scena della crocefissione, che appare
solamente nel secolo V.
Nel corso del IV secolo, tuttavia, si
inizia a rappresentare la cattività dei principi degli apostoli, in ragione del
largo e diffuso culto che si propagò a Roma piuttosto
precocemente, specialmente nei confronti di Pietro. Attorno alla figura di
quest’ultimo si venne a creare un immaginario iconografico estremamente ricco
che comportò l’articolazione di una trilogia di scene, ossia, la negazione,
l’arresto, il miracolo della fonte, a cui si aggiunse, talora, una generica
scena di insegnamento.
Anche la figura di Paolo godette di
una certa fortuna, non solo nell’ambito delle cosiddette scene di passione e,
segnatamente, in quella della cosiddetta decollatio Pauli, ma anche
nel contesto dei collegi apostolici, che nascono proprio in ambito funerario,
prima di interessare i catini absidali degli edifici di culto. In queste
rappresentazioni, i principi degli apostoli si sistemano ai lati del Cristo,
come due eccezionali dignitari della corte celeste. Proprio in questi contesti
aulici, nascono i ritratti ideali del Cristo, di Pietro e di Paolo, che
denunciano una coerente attinenza con le caratteristiche psicologiche dei tre
personaggi.
A questo ultimo riguardo, dobbiamo
ricordare che nell’arte cristiana antica si evitò di rappresentare i santi,
i martiri e, più in generale, le figure divine per il timore,
proveniente dal divieto giudaico, di raffigurare le icone, in funzione di una
devozione di tipo idolatrico. Questa forma di aniconismo comportò, in primo
luogo, un rallentamento nelle origini stesse dell’arte cristiana che – come si
e detto – si verificarono soltanto alla fine del III secolo; in secondo luogo,
provocò una cautela nella rappresentazione delle immagini religiose, quando
queste potevano essere considerate delle vere e proprie icone.
Nonostante questi timori, alla fine
del III secolo, nacque – come si diceva – un’iconografia apostolica,
sia quando si rievocavano gli ultimi atti della storia terrena del Cristo e dei
principi degli apostoli, sia quando si rappresentano i solenni collegi
apostolici. In questi ultimi contesti, sorti proprio nelle catacombe,
si puntualizzano le fisionomie del Cristo, di Pietro e di Paolo, in riferimento
ai loro caratteri. Così il Cristo presenta ora un volto giovanile, fuori dal
tempo, quasi per proiettare in un empireo virtuale la sua persona e la sua
effige; così Pietro assume le sembianze concrete dell’apostolo calato
nell’entroterra culturale dei circoncisi; così Paolo propone l’esangue
fisionomia del filosofo, pronto ad evangelizzare le genti.
Questi ritratti nascono nella
pittura, ma trovano le espressioni più definite nella plastica e specialmente
nei sarcofagi romani rinvenuti sia nelle necropoli del sopratterra, sia nei
contesti catacombali. Proprio dalle catacombe
di S. Callisto e, segnatamente, dalla tricora
orientale proviene un esiguo frammento di sarcofago di estrema importanza per
lo studio della ritrattistica cristiana. In questo rilievo,
riferibile agli anni centrali del secolo IV, restano il volto del Cristo,
rappresentato come un giovinetto attonito ed ispirato e quello di S. Paolo, che
presenta i severi caratteri del filosofo.
Queste particolarità rimandano
all’attività di officine molto sofisticate che operavano a Roma negli
anni ’50-’60 del secolo IV, quando la plastica funeraria romana visse un grande revival formale,
che ricondusse l’arte verso le esperienze classiche del passato. Da queste
officine uscirono esemplari celebri, come quello di Giunio Basso, il prefetto
di Roma, deceduto nel 359.
I sarcofagi paleocristiani furono
sistemati nei ricchi mausolei delle necropoli sub divo, ma talvolta
furono collocati anche nelle catacombe, occupando interi cubicoli, nicchioni o,
quando erano ridotti a lastre scolpite, anche i semplici loculi. In qualche
caso, le sontuose arche marmoree furono accuratamente interrate, come succede
con il famoso sarcofago di Lot, nel complesso di S.
Sebastiano sulla via Appia.
Questo monumentale sepolcro marmoreo,
sempre riferibile al secolo IV, presenta alcune singolarità, che ci fanno
comprendere la dinamica dei riti funerari nella matura età cristiana e
la tecnica della scultura tardoantica. Per il primo punto, va rilevato che il
sarcofago di Lot – come abbiamo anticipato – era stato completamente ricoperto
di terra, sacrificando, così, la splendida decorazione, mentre un tubo di
piombo permetteva di inserire i pasti funebri all’interno del sepolcro. Per il
secondo punto, possiamo osservare come la decorazione a rilievo mostri fasi di
lavorazione più o meno avanzate, segno che, in un medesimo atelier,
operavano diverse maestranze specializzate; mentre, infatti, alcune scene sono
rifinite sino alla colorazione finale, altre sono solo levigate ed altre ancora
solo sbozzate.
Il sarcofago di Lot, così
definito per la presenza dell’episodio che vede il patriarca fuggire da Sodoma,
insieme alle due figlie, mentre la moglie diviene statua di sale, presenta la
tipica organizzazione decorativa del “doppio registro”, entro cui si sviluppa
un fregio continuo, nel senso che le scene del Vecchio e del Nuovo Testamento
si svolgono in sequenza continua, come per dimostrare l’unità indissolubile dei
due Testamenti.
Le catacombe romane hanno
restituito un discreto numero di sarcofagi relativi all’intera produzione
paleocristiana: dai più antichi, definiti eloquentemente “del paradiso” per le
esplicite allegorie della beata vita oltremondana popolata di pastori,
pescatori, filosofi e oranti, a quelli dell’età costantiniana che – come si è
detto – accolgono nella fronte, nell’alzata del coperchio e, talora, nei lati
minori un numero imprecisato di scene bibliche, avvicinate senza un preciso
filo logico.
Nella seconda metà del secolo IV i
sarcofagi cristiani di Roma, propongono caratteristiche
tettoniche sempre più complesse. Nascono, così, i cosiddetti sarcofagi a
colonne, che recuperano il vecchio espediente della divisione della fronte
attraverso veri e propri colonnati; nascono i sarcofagi “ad alberi”, dove le
consuete scene bibliche vengono collocate in una sorta di frutteto; nascono i
sarcofagi con il “passaggio del mar Rosso”, la cui fronte è interamente
interessata da un’epica rappresentazione dell’Esodo.
Alla fine del secolo si cerca di
rinnovare la plastica funeraria con un tipo di scultura classicheggiante e con
classi di sarcofagi completamente nuove, come quella “a porte di città”, il cui
sfondo rievoca suggestivamente la “Gerusalemme celeste”; come quella di
“Bethesda”, che raccoglie esclusivamente scene neotestamentarie; come quella “a
stelle e corone” che proietta in un firmamento stellato le teorie dei santi e
degli apostoli in paradiso.
L’uso dei sarcofagi in catacomba rappresenta
una utilizzazione riservata ad una elevata e ristretta elite di
ecclesiastici e di possidenti, mentre le classi meno abbienti dovevano
accontentarsi delle semplici sepolture nei loculi o nelle forme pavimentali.
Questi poveri sepolcri rispondevano alle leggi della sobrietà e
dell’eguaglianza che regolavano gli usi delle prime comunità cristiane, le
quali basavano la nuova concezione sociale proprio sulla fratellanza che poteva
manifestarsi attraverso una profonda visione egualitaria.
Questi umili sepolcri erano chiusi da
tegole e marmi, con il semplice nome del defunto graffito o dipinto, talora
arricchito da un semplice augurio di pace o dal giorno della deposizione.
Nessun elemento decorativo – nei primi tempi – disturba questa assoluta visione
di sobrietà e povertà, fatta eccezione per qualche elemento di arredo, che
proviene dal corredo del defunto o dall’iniziativa dei parenti e dei fossores.
Si tratta di piccoli recipienti fittili, bamboline in osso o in avorio, monete,
conchiglie, tessere di mosaico e fondi di vetro dorato.
Tutti questi elementi, per la loro
luminescenza, sottolineata dalla luce delle lucerne, serviva ad attirare
l’attenzione dei visitatori, ma potevano forse servire, come è stato ritenuto
in passato, a riconoscere i diversi sepolcri, altrimenti anonimi. Tra gli
oggetti del corredo – come si diceva – emergono i vetri decorati, che altro non
sono che i fondi di tazze preziose donate in occasione di anniversari, nozze e
compleanni.
Questi recipienti dovevano
accompagnare i fedeli per tutta la vita e, al momento della morte, venivano
privati delle pareti, per salvare il fondo, che rappresentava la porzione
decorata, con scene di ogni genere, ma spesso con episodi biblici o con
immagini di santi e martiri. Quest’ultima particolarità ci assicura
che questi fondi vitrei assolvevano anche alla funzione di ex-voto, o meglio di
oggetti protettivi, come possiamo osservare in un vetro dorato ancora in
situ nel cimitero di Panfilo, con l’immagine della martire
fanciulla Agnese,
molto amata daicristiani di Roma del IV secolo.
I vetri dorati e gli altri oggetti
luminescenti affissi nella malta di chiusura dei loculi contribuiscono a
sconfiggere quel mondo della morte, avvolto nel buio, che gli allestitori delle
catacombe cercano di combattere con mille espedienti, come le torce, le
lucerne, i fastosi dipinti e i lucernari.
Un altro espediente, particolarmente
raro e costoso, è costituito dall’uso del mosaico, poco fortunato in catacomba,
perché difficile da conservare, per l’alto tasso di umidità che non permetteva
la perfetta adesione del tessellato al supporto tufaceo.
Tra i rari mosaici catacombali emerge
per complessità ed organicità formale l’arcosolio mosaicato nelle catacombe di
Domitilla, dove è rappresentata una splendida maiestas Domini, con
il Cristo seduto su un globo di luce tra i principi degli apostoli, mentre una
iscrizione allude al dogma della trinità che, durante il IV secolo, veniva
messo in discussione dall’eresia ariana.
Nei primi tempi è difficile
individuare, nei programmi decorativi dei cubicoli, un filo logico
che colleghi una scena all’altra. Tutto sembra essere assemblato in maniera
estemporanea e casuale, ma in alcuni monumenti questa coerenza del programma
sembra improvvisamente emergere, come, ad esempio, nella celebre cappella greca
delle catacombe
di Priscilla.
Il cubicolo, organizzato
in due ambienti e situato nell’antica regione del criptoportico, viene riferito
agli anni centrali del III secolo e assume le caratteristiche di un ambiente
particolare, utilizzato non solo per i consueti scopi funerari, ma frequentato,
probabilmente, anche per i riti che si svolgevano in catacomba,
primo fra tutti il refrigerium. Il pasto funebre viene infatti
dipinto nel soprarco di fondo, su un vivace rosso cinabro. Da questa scena di
banchetto, che, in passato, è stata anche interpretata come una situazione
eucaristica, si dipartono varie coordinate significative, come quella relativa
alla resurrezione della carne, a cui alludono la resurrezione di Lazzaro e
l’immagine della fenice; quella battesimale, a cui si riferiscono Noè nell’arca
e Mosè che batte la rupe; quella genericamente salvifica, a cui si collegano le
scene bibliche, e cioè il ciclo di Susanna, l’episodio dei tre fanciulli nella
fornace, il sacrificio di Abramo, la condanna di Daniele nella fossa dei leoni
e l’adorazione dei Magi.
Alcun monumenti propongono programmi
figurativi ancora più complessi, come nel caso, ormai celebre, dell’ipogeo di
via Dino Compagni, che rappresenta sicuramente la galleria di affreschi più
ricca, per quanto attiene la pittura del tardo IV secolo.
L’ipogeo ha il carattere del monumento funebre di diritto privato, con
caratteristiche di grande libertà decorativa, sia per quanto riguarda l’attività
dei pittori, sia per quanto riguarda le esigenze della committenza. Ma tale
libertà si riflette anche nell’architettura negativa estremamente audace, che
tradisce l’attività di scavatori molto esperti ed una committenza dal
potenziale economico molto elevato.
Tale committenza va ricercata in un
gruppo di famiglie molto agiate ed estremamente tolleranti per quanto attiene
alla professione religiosa, nel senso che, mentre alcuni componenti del gruppo
sembrano aver aderito tranquillamente al cristianesimo, altri sembrano
sensibili al “paganesimo di ritorno” in grande voga negli anni ’60 del secolo
IV, in corrispondenza dell’impero di Giuliano l’Apostata. La decorazione dei
diversi cubicoli, infatti, comporta talora una perfetta ispirazione
ai temi biblici, anche se talora espressi attraverso scene molto rare, e talora
una vera e propria memoria mitologica, con ritorni verso l’epopea delle fatiche
di Ercole. Non mancano, poi, scene singolari che sono state interpretate con
certa difficoltà o che ancora attendono una attendibile spiegazione, come la
cosiddetta lezione di medicina, ora meglio giudicata come una riunione
filosofica, o come l’immagine personificata della Tellus, un tempo
interpretata come Cleopatra suicida.
Negli ultimi anni del secolo IV, con
la diffusione del culto per i martiri si propaga anche un’iconografia
agiografica, non solo attraverso i vetri dorati, di cui abbiamo già detto, ma
anche attraverso gli affreschi e la scultura architettonica. Per quanto
riguarda la produzione pittorica possiamo ricordare il
monumentale cubicolo commissionato dall’ufficiale dell’Annona
Leone nelle catacombe di Commodilla. Qui, a fianco di scene bibliche, zoomorfe
e accanto ad un ieratico busto del Cristo appaiono le solenni immagini di
Felice ed Adautto, sepolti e venerati nella catacomba.
Al tempo di papa Damaso, che, come è
noto, intensificò e rese organico il culto per i martiri romani,
possiamo forse riferire la colonnina di ciborio scoperta nella basilica dei Ss.
Nereo ed Achilleo nella catacomba di Domitilla. Questo
particolare elemento architettonico, che doveva far parte di un ciborio o di
qualche altro organismo posto a segnalare la tomba dei martiri, conserva, nel
fusto, una scena di martirio relativa al martire Achilleo, come spiega la
didascalia incisa. Il martire è rappresentato mentre è condotto verso il luogo
dell’esecuzione, con le mani legate dietro la schiena, spinto dal carnefice che
sta per vibrare il colpo mortale. Alle loro spalle, si riconosce il singolare
simbolo della croce sormontata dalla corona del trionfo, del tipo che appare al
centro dei cosiddetti sarcofagi di passione, che accolgono i cicli relativi
agli ultimi atti della vita del Cristo e degli apostoli.
Questo simbolo allude, dunque, alla
resurrezione e al trionfo finale sulla morte, immettendoci in quel clima
festoso e positivo, che aveva animato i primi esperimenti dell’arte cristiana e
che alla fine del IV secolo si rinnova e potenzia, grazie alla politica religiosa
del papa Damaso, che pone alla base del suo pensiero una profonda devozione nei
confronti dei martiri di Roma.
Tale devozione interessa
particolarmente i principi degli apostoli, che, rappresentando le due compagini
della Chiesa ed anche le due parti dell’Impero, vengono sempre più spesso
rappresentati congiuntamente, tanto da essere venerati nello stesso giorno, il
29 giugno, al III miglio della via Appia, dove, almeno dalla metà del III
secolo, si era innescato un forte culto intitolato alla memoria
apostolorum, che, in epoca costantiniana, ispirò la costruzione di una
delle monumentali basiliche circiformi.
Come riflesso di questo culto
congiunto a Pietro e Paolo, venne affrescato, alla fine del secolo IV, in una
regione del cimitero di S. Sebastiano, nota come cimitero dell’ex Vigna
Chiaraviglio, una singolare scena che vede i due apostoli abbracciarsi, dando
luogo ad una delle immagini più esplicite del concetto politico-religioso
della concordia apostolorum, che trova anche ragione negli scritti
apocrifi, dove si narra di un commovente incontro di Pietro e Paolo alle porte
di Roma, prima del martirio.
Proprio in quegli anni, o meglio,
agli inizi del V secolo, come è noto, le catacombe cessano il
loro originario uso funerario e cominciano ad essere abbandonate, fatta
eccezione per alcune aree che, conservando i resti dei martiri,
continuarono ad essere frequentate dai pellegrini. Questi ultimi divennero
particolarmente numerosi tra il VI e il VII secolo e il raggio di provenienza
di questi devoti si allargò, sino ad interessare le regioni del nord-Europa.
Lungo gli itinerari dei pellegrini –
come è noto – restano alcuni chiari segni del loro passaggio, come le mense per
posare i lumi, i suggestivi graffiti di intercessione e alcuni affreschi che
rappresentano, nella forma di icone, i martiri venerati. Tali immagini restano
ancora nei cimiteri di Ponziano, di S. Callisto, di
S. Valentino, di S. Ermete, di Calepodio, del cimitero Maggiore, ma è diventato
famoso un grande quadro conservato nella basilichetta di Commodilla.
Tale quadro, che viene riferito al
VII secolo, fu commissionato dal figlio della vedova Turtura, che
viene rappresentata al cospetto della Vergine Regina, seduta su un trono
tempestato di gemme con il Bambino nelle braccia. Turtura è
introdotta da due martiri eponimi della catacomba, Felice ed
Adautto, che si pongono ai lati della Vergine come due guardie angeliche.
Questo affresco, così compromesso con
la cultura figurativa d’area bizantina, rappresenta un documento fondamentale,
che si situa al confine estremo della produzione artistica delle catacombe
romane. Ormai l’attenzione della comunità cristiana sale al
sopratterra e una nuova stagione figurativa si inaugura nei più prestigiosi
edifici di culto della capitale.
4. Il pellegrinaggio
nelle catacombe romane
La devozione per le tombe dei martiri
romani sembra iniziare al III miglio della via Appia,
quando nella necropoli ad catacumbas, poi definita di S.
Sebastiano, comincia ad affluire un cospicuo numero di pellegrini provenienti
dalla città di Roma, dal suo hinterland e da tutto il mondo
antico, sino all’Africa, sino all’Oriente.
Quel pellegrinaggio, iniziato in
tempi non precisati, si puntualizza nel 258, in corrispondenza della grave
persecuzione di Valeriano, che decimò la gerarchia della Chiesa romana, nei
primi giorni di agosto. Le tragiche esecuzioni, che interessarono anche il papa
Sisto II con i suoi diaconi che celebravano nel cimitero di S. Callisto, ma che
di lí ad un mese vedrà anche la fine drammatica e gloriosa di Cipriano di
Cartagine, provocarono cautele e precauzioni da parte della comunità romana,
per non incorrere nei provvedimenti imperiali.
Per questo, i resti mortali di Pietro
e di Paolo, che riposavano al Vaticano e sulla via Ostiense, furono
temporaneamente sistemati nel cimitero della via Appia e qui,
proprio ad catacumbas, fu costruito un curioso
organismo, definito dagli archeologi del secolo scorso triclia,
dove i cristiani si raccoglievano per festeggiare uno die, il 29
giugno, la memoria apostolorum, ovvero il ricordo congiunto dei
principi degli apostoli.
Sulle pareti della triclia,
che si presenta come una sorta di cortile, sono rimasti i graffiti di
questi cristiani, forse tracciati da alcuni presbiteri o diaconi
alfabetizzati preposti al santuario. Queste scritte, tanto rapide quanto
suggestive, ricordano i sobri pasti funebri, i cosiddetti refrigeria che
si consumavano in onore dei Ss. Pietro e Paolo.
Molto si è discusso sull’origine di
questo culto, se, cioè, questo fosse sorto unicamente per la sistemazione
temporanea e precauzionale delle reliquie degli apostoli o se qui si venerasse
un’abitazione dei due principi della Chiesa romana. Al di là delle polemiche, è
innegabile l’esistenza di un culto forte e inarrestabile che fu reso
“monumentale” con la costruzione della basilica circiforme dedicata da
Costantino alla memoria apostolorum.
Questi recipienti dovevano
accompagnare i fedeli per tutta la vita e, al momento della morte, venivano
privati delle pareti, per salvare il fondo, che rappresentava la porzione
decorata, con scene di ogni genere, ma spesso con episodi biblici o con
immagini di santi e martiri. Quest’ultima particolarità ci assicura
che questi fondi vitrei assolvevano anche alla funzione di ex-voto, o meglio di
oggetti protettivi, come possiamo osservare in un vetro dorato ancora in
situ nel cimitero di Panfilo, con l’immagine della martire
fanciulla Agnese,
molto amata daicristiani di Roma del IV secolo.
I vetri dorati e gli altri oggetti
luminescenti affissi nella malta di chiusura dei loculi contribuiscono a
sconfiggere quel mondo della morte, avvolto nel buio, che gli allestitori delle
catacombe cercano di combattere con mille espedienti, come le torce, le
lucerne, i fastosi dipinti e i lucernari.
Un altro espediente, particolarmente
raro e costoso, è costituito dall’uso del mosaico, poco fortunato in catacomba,
perché difficile da conservare, per l’alto tasso di umidità che non permetteva
la perfetta adesione del tessellato al supporto tufaceo.
Tra i rari mosaici catacombali emerge
per complessità ed organicità formale l’arcosolio mosaicato nelle catacombe di
Domitilla, dove è rappresentata una splendida maiestas Domini, con
il Cristo seduto su un globo di luce tra i principi degli apostoli, mentre una
iscrizione allude al dogma della trinità che, durante il IV secolo, veniva
messo in discussione dall’eresia ariana.
Nei primi tempi è difficile
individuare, nei programmi decorativi dei cubicoli, un filo logico
che colleghi una scena all’altra. Tutto sembra essere assemblato in maniera
estemporanea e casuale, ma in alcuni monumenti questa coerenza del programma
sembra improvvisamente emergere, come, ad esempio, nella celebre cappella greca
delle catacombe
di Priscilla.
Il cubicolo, organizzato
in due ambienti e situato nell’antica regione del criptoportico, viene riferito
agli anni centrali del III secolo e assume le caratteristiche di un ambiente
particolare, utilizzato non solo per i consueti scopi funerari, ma frequentato,
probabilmente, anche per i riti che si svolgevano in catacomba,
primo fra tutti il refrigerium. Il pasto funebre viene infatti
dipinto nel soprarco di fondo, su un vivace rosso cinabro. Da questa scena di
banchetto, che, in passato, è stata anche interpretata come una situazione
eucaristica, si dipartono varie coordinate significative, come quella relativa
alla resurrezione della carne, a cui alludono la resurrezione di Lazzaro e
l’immagine della fenice; quella battesimale, a cui si riferiscono Noè nell’arca
e Mosè che batte la rupe; quella genericamente salvifica, a cui si collegano le
scene bibliche, e cioè il ciclo di Susanna, l’episodio dei tre fanciulli nella
fornace, il sacrificio di Abramo, la condanna di Daniele nella fossa dei leoni
e l’adorazione dei Magi.
Alcun monumenti propongono programmi
figurativi ancora più complessi, come nel caso, ormai celebre, dell’ipogeo di
via Dino Compagni, che rappresenta sicuramente la galleria di affreschi più ricca,
per quanto attiene la pittura del tardo IV secolo. L’ipogeo ha
il carattere del monumento funebre di diritto privato, con caratteristiche di
grande libertà decorativa, sia per quanto riguarda l’attività dei pittori, sia
per quanto riguarda le esigenze della committenza. Ma tale libertà si riflette
anche nell’architettura negativa estremamente audace, che tradisce l’attività
di scavatori molto esperti ed una committenza dal potenziale economico molto
elevato.
Tale committenza va ricercata in un
gruppo di famiglie molto agiate ed estremamente tolleranti per quanto attiene
alla professione religiosa, nel senso che, mentre alcuni componenti del gruppo
sembrano aver aderito tranquillamente al cristianesimo, altri sembrano
sensibili al “paganesimo di ritorno” in grande voga negli anni ’60 del secolo
IV, in corrispondenza dell’impero di Giuliano l’Apostata. La decorazione dei
diversi cubicoli, infatti, comporta talora una perfetta ispirazione
ai temi biblici, anche se talora espressi attraverso scene molto rare, e talora
una vera e propria memoria mitologica, con ritorni verso l’epopea delle fatiche
di Ercole. Non mancano, poi, scene singolari che sono state interpretate con
certa difficoltà o che ancora attendono una attendibile spiegazione, come la
cosiddetta lezione di medicina, ora meglio giudicata come una riunione
filosofica, o come l’immagine personificata della Tellus, un tempo
interpretata come Cleopatra suicida.
Negli ultimi anni del secolo IV, con
la diffusione del culto per i martiri si propaga anche un’iconografia
agiografica, non solo attraverso i vetri dorati, di cui abbiamo già detto, ma
anche attraverso gli affreschi e la scultura architettonica. Per quanto
riguarda la produzione pittorica possiamo ricordare il
monumentale cubicolo commissionato dall’ufficiale dell’Annona
Leone nelle catacombe di Commodilla. Qui, a fianco di scene bibliche, zoomorfe
e accanto ad un ieratico busto del Cristo appaiono le solenni immagini di
Felice ed Adautto, sepolti e venerati nella catacomba.
Al tempo di papa Damaso, che, come è
noto, intensificò e rese organico il culto per i martiri romani,
possiamo forse riferire la colonnina di ciborio scoperta nella basilica dei Ss.
Nereo ed Achilleo nella catacomba di Domitilla. Questo
particolare elemento architettonico, che doveva far parte di un ciborio o di
qualche altro organismo posto a segnalare la tomba dei martiri, conserva, nel
fusto, una scena di martirio relativa al martire Achilleo, come spiega la didascalia
incisa. Il martire è rappresentato mentre è condotto verso il luogo
dell’esecuzione, con le mani legate dietro la schiena, spinto dal carnefice che
sta per vibrare il colpo mortale. Alle loro spalle, si riconosce il singolare
simbolo della croce sormontata dalla corona del trionfo, del tipo che appare al
centro dei cosiddetti sarcofagi di passione, che accolgono i cicli relativi
agli ultimi atti della vita del Cristo e degli apostoli.
Questo simbolo allude, dunque, alla
resurrezione e al trionfo finale sulla morte, immettendoci in quel clima
festoso e positivo, che aveva animato i primi esperimenti dell’arte cristiana e
che alla fine del IV secolo si rinnova e potenzia, grazie alla politica
religiosa del papa Damaso, che pone alla base del suo pensiero una profonda
devozione nei confronti dei martiri di Roma.
Tale devozione interessa
particolarmente i principi degli apostoli, che, rappresentando le due compagini
della Chiesa ed anche le due parti dell’Impero, vengono sempre più spesso
rappresentati congiuntamente, tanto da essere venerati nello stesso giorno, il
29 giugno, al III miglio della via Appia, dove, almeno dalla metà del III
secolo, si era innescato un forte culto intitolato alla memoria
apostolorum, che, in epoca costantiniana, ispirò la costruzione di una
delle monumentali basiliche circiformi.
Come riflesso di questo culto
congiunto a Pietro e Paolo, venne affrescato, alla fine del secolo IV, in una
regione del cimitero di S. Sebastiano, nota come cimitero dell’ex Vigna
Chiaraviglio, una singolare scena che vede i due apostoli abbracciarsi, dando
luogo ad una delle immagini più esplicite del concetto politico-religioso
della concordia apostolorum, che trova anche ragione negli scritti
apocrifi, dove si narra di un commovente incontro di Pietro e Paolo alle porte
di Roma, prima del martirio.
Proprio in quegli anni, o meglio,
agli inizi del V secolo, come è noto, le catacombe cessano il
loro originario uso funerario e cominciano ad essere abbandonate, fatta
eccezione per alcune aree che, conservando i resti dei martiri,
continuarono ad essere frequentate dai pellegrini. Questi ultimi divennero
particolarmente numerosi tra il VI e il VII secolo e il raggio di provenienza
di questi devoti si allargò, sino ad interessare le regioni del nord-Europa.
Lungo gli itinerari dei pellegrini –
come è noto – restano alcuni chiari segni del loro passaggio, come le mense per
posare i lumi, i suggestivi graffiti di intercessione e alcuni affreschi che
rappresentano, nella forma di icone, i martiri venerati. Tali immagini restano
ancora nei cimiteri di Ponziano, di S. Callisto, di
S. Valentino, di S. Ermete, di Calepodio, del cimitero Maggiore, ma è diventato
famoso un grande quadro conservato nella basilichetta di Commodilla.
Tale quadro, che viene riferito al
VII secolo, fu commissionato dal figlio della vedova Turtura, che
viene rappresentata al cospetto della Vergine Regina, seduta su un trono
tempestato di gemme con il Bambino nelle braccia. Turtura è
introdotta da due martiri eponimi della catacomba, Felice ed
Adautto, che si pongono ai lati della Vergine come due guardie angeliche.
Questo affresco, così compromesso con
la cultura figurativa d’area bizantina, rappresenta un documento fondamentale,
che si situa al confine estremo della produzione artistica delle catacombe
romane. Ormai l’attenzione della comunità cristiana sale al
sopratterra e una nuova stagione figurativa si inaugura nei più prestigiosi
edifici di culto della capitale.
4. Il pellegrinaggio
nelle catacombe romane
La devozione per le tombe dei martiri
romani sembra iniziare al III miglio della via Appia,
quando nella necropoli ad catacumbas, poi definita di S.
Sebastiano, comincia ad affluire un cospicuo numero di pellegrini provenienti
dalla città di Roma, dal suo hinterland e da tutto il mondo
antico, sino all’Africa, sino all’Oriente.
Quel pellegrinaggio, iniziato in
tempi non precisati, si puntualizza nel 258, in corrispondenza della grave
persecuzione di Valeriano, che decimò la gerarchia della Chiesa romana, nei
primi giorni di agosto. Le tragiche esecuzioni, che interessarono anche il papa
Sisto II con i suoi diaconi che celebravano nel cimitero di S. Callisto, ma che
di lí ad un mese vedrà anche la fine drammatica e gloriosa di Cipriano di
Cartagine, provocarono cautele e precauzioni da parte della comunità romana,
per non incorrere nei provvedimenti imperiali.
Per questo, i resti mortali di Pietro
e di Paolo, che riposavano al Vaticano e sulla via Ostiense, furono
temporaneamente sistemati nel cimitero della via Appia e qui,
proprio ad catacumbas, fu costruito un curioso
organismo, definito dagli archeologi del secolo scorso triclia,
dove i cristiani si raccoglievano per festeggiare uno die, il 29
giugno, la memoria apostolorum, ovvero il ricordo congiunto dei
principi degli apostoli.
Sulle pareti della triclia,
che si presenta come una sorta di cortile, sono rimasti i graffiti di
questi cristiani, forse tracciati da alcuni presbiteri o diaconi
alfabetizzati preposti al santuario. Queste scritte, tanto rapide quanto
suggestive, ricordano i sobri pasti funebri, i cosiddetti refrigeria che
si consumavano in onore dei Ss. Pietro e Paolo.
Molto si è discusso sull’origine di
questo culto, se, cioè, questo fosse sorto unicamente per la sistemazione
temporanea e precauzionale delle reliquie degli apostoli o se qui si venerasse
un’abitazione dei due principi della Chiesa romana. Al di là delle polemiche, è
innegabile l’esistenza di un culto forte e inarrestabile che fu reso
“monumentale” con la costruzione della basilica circiforme dedicata da
Costantino alla memoria apostolorum.
Nella seconda metà del IV secolo, il
papa Damaso rilanciò il culto per Pietro e Paolo, con la preparazione di uno
degli epigrammi più celebri, tra quelli che egli fece incidere a Furio Dionisio
Filocalo in onore dei più conosciuti martiri romani. L’opera di
papa Damaso si muove tra la sfera devozionale e quella politico - religiosa,
nel senso che ricercando i sepolcri dei campioni della fede, il pontefice crea
una mappa agiografica nel suburbio romano, convogliando la tensione religiosa
di quei tempi verso un culto semplice e suggestivo, che riconduceva l’attenzione
dei cristiani verso la fede immediata ed urgente della prima ora.
Il papa Damaso si preoccupò di
ricercare quelle tombe eccezionali, di decorarle, di illuminarle
con nuovi lucernari, di creare degli itinerari all’interno delle catacombe, che
fungevano da percorsi obbligati, da “corsie preferenziali” di un
pellegrinaggio, che diveniva sempre più consistente e che si allargava verso
aree geografiche sempre più ampie e distanti dall’Urbe. Le iscrizioni damasiane
erano sistemate nei pressi della tomba dei martiri, quasi per autenticare, con
lo scritto pontificio, quelle sante vestigia.
Agli esordi del secolo V le catacombe
romane interrompono il loro ruolo funerario, nel senso che i cristiani di Roma,
in seguito alle invasioni barbariche e al restringimento dell’area urbana,
preferiscono seppellire i loro defunti all’interno della cinta muraria. Ma
le catacombe mantengono il loro ruolo di sedi privilegiate del
culto ed, anzi, lungo i percorsi delle catacombe, appaiono le
immagini dipinte dei martiri, come per rendere concrete le figure di uomini
santi, ricordati nelle preghiere di intercessione, ma mai raffigurati, sino a
quel momento.
Non è escluso che alcune
rappresentazioni di martirio siano andate perdute, se Prudenzio, nel suo Peristephanon,
ricorda una megalografia, dove veniva rievocata la fine del martire Ippolito,
sepolto nelle omonime catacombe della via Tiburtina. Per il resto, i martiri
romani vennero raffigurati su monumenti plastici, come nella colonnina di Domitilla,
dove è rappresentato il martire Achilleo mentre è condotto al
supplizio, o nelle arti minori e, segnatamente, sui vetri dorati, dove vengono
impresse le immagini diAgnese,
Lorenzo, Ippolito, Timoteo, Pietro e Paolo.
Questa iconografia può
essere definita patronale, nel senso che i cristiani del tempo
scelgono, per la decorazione dei loro oggetti personali, le effigi di santi a
cui erano particolarmente devoti. Per lo stesso motivo, i defunti vengono
sepolti presso le tombe dei martiri, nel desiderio di creare un
“patronato” anche fisico, che, nella semplice mentalità popolare del tempo,
pare riflettere una “vicinanza spirituale” che si manifesterà nell’oltremondo.
Tra il VI e il VII secolo, il
pellegrinaggio nelle catacombe romane tocca le punte di
maggiore afflusso e vede sfilare dinanzi ai sepolcri dei martiri gente
d’ogni paese, persino da quelli del nordeuropa, come si può desumere dagli
antroponimi che possiamo leggere lungo le pareti degli itinera ad
sanctos.
L’atteggiamento devozionale di questi
pellegrini dell’alto medioevo è molto semplice e ridotto alla pratica mistica
dell’ex contactu, che comporta l’uso di piccole pezze di stoffa (palliola o brandea),
che si introducevano nelle tombe martiriali per santificarle.
La dinamica di questo “andirivieni”
dei pellegrini che, nelle catacombe romane, prosegue sino al IX
secolo, quando i resti dei martiri vengono traslati nelle
basiliche urbane, si può desumere dagli itinerari lasciati dai devoti. Queste
particolari "guide religiose”, tra le quali possiamo ricordare il De
locis e la Notitia Ecclesiarum, ci parlano di itinerari
multipli e circostanziati, che percorrevano tutto il suburbio romano,
costellato di decine di santuari che, nel frattempo, i pontefici del tempo si
preoccuparono di restaurare, per mantenere il decoro di quegli eccezionali
sepolcri, che ancora parlavano eloquentemente delle prime testimonianze della
fede genuina della più antica comunità romana.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.