domenica 1 settembre 2013

Maria Santissima della Vena

 Alle falde dell’Etna a pochi metri di altitudine sul livello del mare sorgeva la bizantina Maschalas (attuale Mascali), ipotesi confermata sia dal ritrovamento nella zona dell’attuale Nunziata di monete bizantine, sia dalla presenza di strutture sacre d’epoca bizantina come la chiesa della Nunziatella, con buonissima probabilità sorta sui resti di un più antico monastero basiliano.
Gregorio della gens romana degli Anici era un grande estimatore di san Benedetto, al punto da farsi monaco egli stesso e da trasformare i suoi possedimenti in altrettanti monasteri benedettini. Uomo di grande levatura, (salito al soglio pontificio diventerà Gregorio I, alla morte sarà canonizzato come San Gregorio Magno) era stato inviato a Bisanzio da papa Pelagio II come ambasciatore presso l’imperatore Tiberio II, per chiedere sostegno militare contro i longobardi che avevano invaso l’Italia. Per i suoi grandi meriti, Gregorio si fece subito ben volere dall’imperatore fino a tenere a battesimo Teodosio, l’erede al trono. Prima della sua partenza da Bisanzio Gregorio ricevette in dono la preziosissima icona della Theotokos Glicofilusa. L’icona raffigurava, a grandezza naturale, su di un’unica tavola lavorata ad ascia alta cm. 170, larga cm. 67, spessa cm. 3, Maria (Theotokos) con Gesù Bambino in braccio, stretti l’uno all’altra, guancia a guancia (Glicofilusa) amorevolmente.
La tradizione ci narra che in un’estate tra il 580 ed il 590 Gregorio diede l’ordine ad un gruppo di confratelli di fondare un centro di culto romano nei possedimenti etnei della madre Silvia (Santa Silvia) in modo da creare una presenza romana in una zona a prevalenza bizantina. Datasi la vicinanza del nuovo centro alla capitale bizantina della Sicilia, Gregorio affidò ai suoi confratelli il suo bene più prezioso: la sacra icona ricevuta da Tiberio II. 
Lasciata Maschalas, i monaci con i loro asini carichi delle masserizie ma ancora di più della voluminosa icona, cominciarono ad inerpicarsi verso la terza balza dell’Etna. La difficoltà del percorso, l’aridità delle sciare, assieme alla forte calura estiva accentuavano i morsi della sete. Pur non conoscendo la loro destinazione finale, i monaci proseguivano nella ripida salita malgrado non trovassero alcuna sorgente, condizione necessaria per la costruzione di un insediamento. Scoraggiati dalla siccità delle sciare, decisero di confidare totalmente nell’aiuto della Beata Vergine, iniziarono così, strada facendo a pregare. Poco dopo l’asino sul cui dorso era stata caricata la voluminosa tavola dell’icona sacra si fermò di colpo, rifiutandosi di andare oltre. Mentre i monaci ne tiravano le briglia l’animale batteva con insistenza lo zoccolo sul suolo, fin tanto che ne usci per miracolo una freschissima e limpidissima vena d’acqua, che schizzando bagnò lievemente l’icona. Superato il primo momento di stupore i monaci si inginocchiarono subito ed intonarono canti e preghiere alla Santissima Madre di Dio. Il luogo del monastero e del santuario era stato finalmente trovato, era stata la Theotokos stessa ad indicarlo! Iniziò con questo miracolo l’edificazione del monastero di Sant’Andrea. E’ curioso notare come il luogo prescelto dalla Vergine non fosse mai stato toccato dalle eruzioni laviche, lo dimostrano le ricche vene d’argilla del posto, che assieme alle attività di produzione del carbone  e la sacralità del luogo costituirono il volano del rapido sviluppo del monastero. La fama del miracolo si diffuse rapidamente portando grandi frotte di fedeli, che a loro volta ricevevano per intercessione della Santissima Vergine grazie su grazie. Il monastero divenne ben presto un importantissimo centro, al punto che nel 590 il cardinale Anici eletto al soglio papale con il nome di Gregorio I, per ben due volte, l’ultima nel 593 con l’Epistola LIX, dovette intervenire per dirimere le controversie in atto tra il vescovo di Taormina, Gregorio Secundino ed i monaci del monastero di Sant’Andrea, sancendo definitivamente il diritto di quest’ultimi a celebrare i sacri misteri nello stesso luogo dove erano state rinvenute le fonti. 
Nel IX secolo Teofane Cerameo, arcivescovo di Taormina, con i suoi sermoni ci rende più volte testimonianza del culto della Santa Icona dicendo:

…lo Spirito Santo e la nostra Signora – la Madre di Dio – ci ha di nuovo raccolti nello stesso luogo: volendo che ancora una volta venerassimo la sua Immagine acheropita (non manufatta), ridando la gioia che il padre trova in mezzo ai figli e cancellando i segni della tristezza…(Omelia II, col.292-293). 

Giunti gli arabi, ormai islamizzati, la Theotokos Glicofilusa rimase sempre a Vena, probabilmente nascosta presso la casa di un fedele, o forse riscattata dal pagamento di qualche forte somma di denaro da parte dei fedeli. Intorno all’anno mille (1040 circa) venne organizzata una spedizione Bizantina con a capo Giorgio Maniace con lo scopo di recuperare i territori persi, ma anche forse di portare al sicuro la sacra immagine, che doveva essere molto nota in oriente. Ci si ricordi che era stata il dono di un imperatore e che come Cerameo riporta, aveva fama di essere acheropita, cioè non dipinta da mani d’uomo. Pur vincendo più volte gli arabi, Giorgio Maniace si fermerà solo a Randazzo, da dove rapidamente ritornerà in patria. Pressappoco in quel periodo l’icona sparisce, non sapremo mai se sottratta dal Maniace per recuperarla da un territorio islamizzato, oppure se il capolavoro andò perso durante il terribile terremoto che nel 1090 devastò tutta la Sicilia Orientale. Un icona così importante, per i miracoli ottenuti attraverso la sua venerazione, non poteva però non avere i suoi testimoni oculari ne tanto meno delle copie più o meno fedeli. 
Dopo l’arrivo dei Normanni, qualche pittore, forse incaricato dal gran Conte Ruggero, che aveva tutto l’interesse di ristabilire il cattolicesimo romano a discapito di quello ortdosso (sarà per questo nominato, lui assieme a tutta la sua discendenza legato papale) eseguì una copia dell’icona originale, interpretandola secondo i gusti e lo stile dell’arte medievale e rifacendosi alle testimonianze a sua disposizione. Questa ipotesi ci viene confermata dalla datazione al carbonio effettuata sull’icona attualmente presente presso il santuario. Come era più che prevedibile la Santissima Madre di Dio non lesinò per niente le sue Grazie malgrado le differenze rispetto all’originale del VI secolo. Numerosissimi furono i miracoli ottenuti per intercessione della Santa Vergine. Ci narra il Falzello che il duca Giovanni d’Aragona nel 1348 si rifugiò presso il monastero ormai ricostruito, confidando nella protezione della santa Vergine, per sfuggire alla grande epidemia di peste che flagellò in quegli anni la Sicilia. 
Una lunghissima scia di miracoli ci porta fino al 6 Febbraio 1865, quando una possente colata lavica arrivò a minacciare la borgata e la chiesa stessa; la colata si spinse fino ad un chilometro dal luogo sacro.
Scendeva sulla terra, scrive don Michele Cantone, delegato dell’abate Zappalà, il crepuscolo serale e i riflessi rossastri di quel fiume immenso e incandescente formavano in quel tratto di cielo, come un lago di sangue.
I fedeli uscirono in processione con la sacra immagine della Vergine Maria, il rev. Cantone, che precedeva i fedeli, salì con un balzo su un grosso masso che serviva da pulpito e da li, ancora una volta incitò i fedeli, fra singhiozzi e lacrime, al pentimento ed al totale affidamento a Maria. 

Improvvisamente si sollevò un vento furioso, che a vortici spaventosi striscia sulle lave brucianti sino ad investire l'immagine della Madonna, arroventandone il viso. Un grido di pietà e di misericordia si innalza spontaneo dalla folla presente! Trascorsi pochi secondi torna la calma e la lava, come fermata da una mano onnipotente e invisibile, si arresta sul momento. Il prodigio, grande ed innegabile prodigio, era stato ottenuto
.

Numerosissime sono le testimonianze di uomini e donne guariti dai loro mali o aiutati a trovare la pace nel loro spirito. Molti i bambini nati per intercessione della Vergine, in casi assai difficili, spesso ove era veramente difficile averne e chi scrive può testimoniarlo con la propria esperienza. 



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