domenica 29 settembre 2013

Florenskij: il Pascal delle steppe (Aleksandr Men’)


Florenskij era legato all’Univer­sità di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di Storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista  Bogoslovskij vestnik. La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano « il Leonardo da Vinci russo». Ma quando diciamo Leonardo da Vinci ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni. Florenskij, invece, è morto giovane. Era scomparso. Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignoraro­no per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza. Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: «Questa donna sta portando un’enorme croce». E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito. Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire. In realtà, a quell’epoca Florenskij ormai era già morto. Ai tempi di Chrušcëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna. Infatti nel 1933 gli avevano dato 10 anni, come a un pericoloso delinquente.

Sì, quando io e la mamma parlava­mo della sua sorte, lui ormai non c’e­ra già più. Il certificato di morte i familiari l’hanno ricevuto solo nel no­vembre 1989. «Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovic è deceduto 1’8 dicembre 1937... Età: 55 anni (non è vero, ne aveva 56). Causa del decesso: fucilazione.
Luogo del decesso: regione di Leningrado». Un uomo che, alcuni mesi prima, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze. Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare. Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e i popoli.
Fra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico. Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica. Era innocente e il Paese aveva bisogno di lui: come in­gegnere, come scienziato, come lavoratore disinteressato. Eppure, preferirono fucilarlo. Assieme al certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della sentenza. C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato. Ecco in che e­poca siamo vissuti.
Padre Pavel viveva come in un mondo a sé. Comprendeva più la natura che le persone. Aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia. Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia. Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente. Un certo dottor Bochgol’c, ortodosso fervente, aveva incominciato a compilare con Florenskij un vocabolario dei simboli, e qualcuno gli aveva chiesto che cosa avesse in comune con quell’uomo, e Bochgol’c  aveva risposto che nessuno dei due amava gli uomini. Certo, lui parlava per sé, di Florenskij è difficile poter dire una cosa del genere. Oggi, leggendo le lettere di padre Pavel ai propri cari, alla moglie, ai figli, possiamo constatare quale enorme tesoro di tenerezza, di attenzione, di amore autentico e meraviglioso custodisse il suo cuore. E tuttavia, non era un cure spalancato ma, al contrario, piuttosto chiuso, nel quale più di una vo­ta si erano aperte delle spaccature dolorose.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel. La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita. Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita. Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso. Un suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie. Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato, un teorico. Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando... Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, quando Florenskij stava scrivendo uno studio critico in cui avanzava una serie di tesi che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi. La critica lo aveva messo così in subbuglio, che padre Pavel aveva detto: «Non scriverò più niente di teologia». Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel. Si era laureato brillantemente in matematica all’Università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra. La matematica era per lui come il fonda­mento dell’universo. Alla fine, era ar­rivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ridotta a punti d’appoggio invisibili. Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile. Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv. Bisogna dire che entrambi erano platonici, che a entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina. Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e – se lo cita – lo fa in modo critico. Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
La matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita. Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica. Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano «il naso coi riccioli », perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati. Era basso di statura e di costituzione esile. Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico. Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’, quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: «Ma questo è Pavlik!». In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
Lo scrittore religioso Sergej Fudel’, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij. Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita. Raccontava che poteva ascoltarlo a lun­o quando parlava con suo padre a voce sommessa. Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti ar­omenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle i­cone; i significati profondi delle parole. Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
Sergej Fudel’ mi raccontava che quando, nel 1914, aveva letto La colonna e il fondamento della verità, era ritornato nella Chiesa, interiormente. Perché nello spirito viveva in una sorta di bohème simbolica, e il mondo della Chiesa gli sembrava antiquato, fossilizzato, quasi uscito da una commedia di Ostrovskij. Ma improvvisamente si era accorto che della Chiesa si poteva scrivere in modo raffinato, come faceano i simbolisti, come faceva An­drej Belyj. Posso confermarlo sul mio esempio personale. Ero studente del primo anno, quando lessi per la prima volta La colonna (era l’anno del­la morte di Stalin). Il libro mi colpì, e mi colpì proprio perché, esattamente come Solov’ëv, Florenskij si pre­entava come uno che si trova ai vertici della cultura, e non come uno che ci era arrivato per vie traverse e ne usava i frutti per i propri scopi. Come uno che era lui stesso cultura. Florenskij e Solov’ëv erano la cultura stessa fatta persona. E la cultura rende testimonianza alla Chiesa, a Cristo, al cristianesimo.

Aleksandr Men’

(da Avvenire, 9.6.09)



Una delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il prete ortodosso russo assassinato nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel 1937.

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