venerdì 20 settembre 2013

Il tema della morte, della risurrezione e del giudizio in chiave ortodossa (Vladimir Zelinskij)

Quando parliamo dell’ortodossia – ogni volta bisogna ricordare le cose più evidenti, ma spesso dimenticate – è una fede antica che, forse, si ringiovanisce, secondo le parole di Sant’Ireneo, ma che vuole rimanere fedele alle sue radici, alla sua eredità apostolica e patristica. La fedeltà significa non soltanto il seguire lo spirito, ma anche la lettera del cristianesimo antico nella sua dottrina, ma anche nel suo stato d’animo. L’anima del cristiano dei primi secoli era piena di attesa del Giudizio Finale, dell’incontro imminente esaltante e definitivo con Cristo. “Sì, verrò presto” – questa promessa di Gesù alla fine dell’Apocalisse (22, 20) suona nell’udito ortodosso in modo più forte che nelle altre confessioni cristiane. L’anima ortodossa, se possiamo parlare nei termini generali, è piuttosto apocalittica che missionaria o sociale. In ogni liturgia o la celebrazione vespertina o mattinale il diacono o il prete recita la preghiera per “una fine cristiana della nostra vita, indolore, irriprovata, pacifica, e (per) una buona difesa innanzi al tremendo tribunale di Cristo”. “Il tremendo tribunale di Cristo” non è un giro di parole e nessun ortodosso serio non è mai sicuro che egli sarebbe giustificato in questo tribunale, che la sua salvezza possa essere una cosa quasi garantita. Perciò la fede, la vita e la pratica religiosa sono vissute maggiormente come propedeutica al giudizio di Dio, come preparazione alla propria difesa dall’attacco dei demoni che aspettano la loro ora per assalire l’anima del defunto dopo la sua partenza. I cristiani non-ortodossi, per quanto io sappia, di solito non sono preoccupati di simili cose per la fine della loro vita. La misericordia di Dio, da un oggetto di speranza e di fede, piano piano è diventata un’azione quasi assicurata, almeno in Occidente, come un premio garantito, attribuito a ciascun essere vivente per il fatto di essere concepito.
Forse, esagero un po’, ma questo contrasto serve non solo per rilevare la differenza tra l’Oriente apocalittico e l’Occidente diventato ottimistico; prima di tutto per introdurre un lettore occidentale in un mondo, se non nuovo per lui, bensì un po’ dimenticato, in cui l’escatologia non è soltanto un ultimo capitolo nel manuale di dogmatica, ma un’esperienza viva e quotidiana che in sostanza ogni ortodosso conosce nella propria dimensione liturgica, spirituale ed esistenziale. Il Credo nella sua parte “cristologica” proclama l’inevitabile ritorno di Cristo: E di nuovo verrà con gloria a giudicare i vivi e i morti; il cui regno non avrà fine. Il tempo del giudizio, però, è già anticipato su questa terra, tutta la vita del cristiano nella sua integrità può e deve essere vissuta come un giudizio su se stesso che s’esprime nella purificazione della propria anima. Nei testi spirituali ortodossi sono spesso citate le parole di Gesù: “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora, il regno di cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). 
Questo brano è sempre interpretato, nella teologia ortodossa, come incitazione a fare uno sforzo interiore per vincere il peccato – non soltanto nelle azioni, ma anche nelle parole e soprattutto nei pensieri. Tutti sanno che il peccato in pensiero sia più accessibile e frequente del peccato commesso davanti agli altri o con gli altri, perciò l’occupazione principale dei monaci e degli asceti in Oriente è il combattimento interiore, vale a dire, la lotta contro questi demoni che vogliono impadronirsi di noi con i pensieri nascosti. Proprio per questo motivo la vita monastica, con il suo ascetismo, è considerata come il modello per ogni cristiano ortodosso, anche per coloro che non sono monaci. In Oriente non esistono i vari tipi di spiritualità, ma solo la vita spirituale “a tempo pieno”, che rappresenta la strada diretta alla salvezza o la strada più lunga, più tortuosa, quella della vita nel mondo –  per coloro che cercano la salvezza nel “monastero invisibile”. Ma la direzione rimane la stessa – la vittoria sul peccato, la ricerca della giustificazione davanti al giudizio imminente. Il peccato si compie, secondo la dottrina ortodossa, sotto il suggerimento dei demoni, ma accettato liberamente dalla decaduta volontà umana. La Chiesa crede che ogni peccato, commesso sulla terra, andrebbe ricordato nell’aldilà dagli stessi demoni che ci attaccano durante la nostra vita. E la loro battaglia, dopo la separazione dell’anima dal corpo, sarà con gli angeli per la sorte dell’anima. Nella vita dopo la morte, nella sua versione ortodossa e secondo l’insegnamento dei Padri, ma anche nelle testimonianze di coloro che sono riusciti a tornare da questa esperienza, vediamo sempre questo momento molto drammatico della lotta tra gli spiriti malvagi e gli spiriti buoni, che contestano l’anima del defunto.
La morte è un grande mistero", – afferma il santo russo del secolo XIX Ignazio Brianchianinov -. "Essa è la nascita nell’eternità dalla vita temporanea”. Come ogni parto, la nascita nell’eternità può essere difficile. “La donna quando partorisce è afflitta”, dice Gesù (Gv 16,21). Anche l’anima umana è afflitta dalla separazione dal corpo, ma i primi due giorni dopo la morte, secondo la Tradizione ortodossa, rimane ancora nell’ambiente da lei conosciuto e può visitare i suoi luoghi cari, anche assistere alla propria celebrazione funebre in chiesa. Al terzo giorno, però, essa va nelle sfere lontane. Per questo motivo l’Ortodossia non ha una fiducia cieca nei racconti di chi sopravvive alla morte clinica. Anche se sono autentici, la loro sorte – beatitudine o tormento -, verrà decisa dopo. Ma pure questa decisione, che si compie nell’arco dei primi 40 giorni dopo la morte, non può essere definitiva per le anime dei giusti e dei santi, come anche per le anime dei peccatori e degli “uomini ribelli” (Ef 2,2). Tutti devono aspettare il giorno del Giudizio Finale che dirà l’ultima parola sul destino di ciascuno. La Chiesa insiste però sull’utilità e sulla necessità della preghiera per i defunti, soprattutto della preghiera liturgica che fa parte del sacramento dell’Eucarestia, perché la preghiera può cambiare il destino anche di coloro che possono essere destinati alla punizione eterna. La Divina liturgia è la celebrazione del sacrificio offerto per la vita del mondo, per tutti i fedeli, viventi e morti. Ma oltre alla preghiera pronunciata durante la preparazione dell’Eucarestia, la cosiddetta proscomidia, considerata come la più importante, esistono anche delle celebrazioni speciali per i defunti. Di solito sono celebrate dal sacerdote su richiesta dei familiari o degli amici del defunto, ma esistono alcuni giorni speciali (di regola il sabato) in cui vengono commemorati tutti membri della comunità. Ecco una di queste preghiere che fanno parte delle celebrazioni funebri (panichide). 
«Dio degli spiriti e di ogni carne, che, calpestata la morte, hai vinto il Demonio e hai donato la vita al mondo: Tu, o Signore, concedi il riposo anche all’anima del tuo servo (segue il nome), e ponila nel luogo della luce, della letizia e del refrigerio, dove non c’è dolore, né affanno, né gemito.  Perdonagli ogni peccato commesso con parole, opere o con il pensiero, quale Dio buono e amico del genere umano; poiché non vi è uomo che viva e non pecchi; solo Tu, infatti, o Signore, sei senza peccato: la tua giustizia è giustizia eterna, e la tua parola è verità».  
In questa preghiera troviamo una descrizione discreta, fatta con alcuni colpi del pennello spirituale, dell’immagine di ciò che Dio ha preparato per coloro che Lo amano. Il Regno di Dio si immerge nell’armonia della luce, della letizia e del refrigerio. Il luogo della condanna, invece, non è designato con alcuna immagine. La comunità credente non lascia i suoi addormentati; l’oblio e la trascuranza nei confronti dei morti sono considerato come peccato. Si pone, però, la domanda: è possibile pregare per i non-battezzati o per gli apostati? Nei nostri giorni la Chiesa dice di sì, ma solo con la preghiera domestica o personale, non con la preghiera liturgica. In ogni modo, tutti gli esseri umani aspettano la risurrezione dei morti in Cristo, primogenito dei risorti. La risurrezione di Cristo preannuncia la risurrezione generale che sarà per alcuni “risurrezione di vita”, per gli altri “la risurrezione di condanna” (Gv 5,29). Ma per i primi, come anche per i secondi, la risurrezione sarà non soltanto spirituale, ma anche corporale. I primi s’uniranno definitivamente con Dio, gli altri saranno separati da Dio per sempre. La separazione irrevocabile con Dio è proprio ciò che chiamiamo inferno.
Tormentati nella geenna sono colpiti dal flagello d’amore – dice sant’Isacco il Siro… Il tormento di coloro che hanno peccato contro l’amore è più forte di ogni altro dolore… L’amore agisce in due modi: esso tormenta i peccatori e fa gioire coloro che hanno fatto il suo dovere davanti a Dio”.
La separazione dall’amore di Dio è una punizione più pesante che rende insopportabili le sofferenze. Ma chi sarà separato in modo irrevocabile?  A volte nella Chiesa ortodossa sentiamo due voci che non si oppongono direttamente, ma rimangono comunque distinte. La Tradizione più severa, che si appoggia sui canoni antichi, può rifiutare l’apertura delle porte del Regno di Dio a tutti coloro che si trovano fuori dal recinto dell’Ortodossia nella sua espressione dogmatica, storica e confessionale. La posizione ufficiale dal passato fino ai nostri giorni rimane invariabile: l’Ortodossia rimane unica strada alla salvezza, nessun ecumenismo mondano non può cambiare nulla  rispetto a questa posizione. Invece i testi liturgici respirano una speranza spassionata della risurrezione luminosa per tutti. Le celebrazioni della Settimana Santa parlano della discesa di Cristo agli inferi e della liberazione di tutti i morti. Questa discesa, d’altronde, ha una sua analogia con il battesimo: come Cristo ha santificato le acque del Giordano, vale a dire la materia di questo mondo, così discendo agli inferi Cristo le sopprime. La Risurrezione del Signore si festeggia nella Chiesa ortodossa come vittoria definitiva sull’inferno per ogni essere defunto; come la festa dei cieli spalancati. Questa speranza parla nel modo più eloquente nel discorso di San Giovanni Crisostomo che da secoli ogni anno si legge in tutte le chiese ortodosse nella notte di Pasqua. In questo discorso sembra esserci una confessione di fede diversa da quella dei manuali della dogmatica: la fede come perdono, la fede come gioia infinita, la fede come trionfo della vita:

Nessuno pianga di peccati:

perdono, infatti, è sorto dalla tomba.
Nessuno tema la morte:
ce ne ha infatti affrancato la morte del Signore;
l'ha spenta Lui, che ne è stato trattenuto;
ha depredato l'Inferno, Lui che è sceso all'Inferno;
Egli l'ha amareggiato, quando quello gustò della sua carne.
Lo previde Isaia, ed esclamò: 
L'Inferno fu amareggiato, incontrandoti là sotto.
Amareggiato, e infatti fu annientato.
Amareggiato, e infatti fu imbrogliato.
Amareggiato, e infatti fu ucciso.
Amareggiato, e infatti fu distrutto.
Amareggiato, e infatti fu incatenato.
Prese un corpo, e si trovò davanti Dio.
Prese terra, e incontrò cielo.
Prese quel che vedeva, e cadde per quel che non vedeva.
Dov'è, o Morte, il tuo aculeo?
dov'è, o Inferno, la tua vittoria?
È risorto Cristo, e sei precipitato!
È risorto Cristo, e sono caduti i demoni!
È risorto Cristo, e gioiscono gli Angeli!
È risorto Cristo, e la vita trionfa!
È risorto Cristo, e non c'è un più un sol morto nel sepolcro!

Vladimir Zelinskij




La misericordia di Dio, da un oggetto di speranza e di fede, piano piano è diventata un’azione quasi assicurata, almeno in Occidente, come un premio garantito, attribuito a ciascun essere vivente per il fatto di essere concepito.

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