Tratto dal libro di Gregorio Penco O.S.B.
IL MONACHESIMO FRA SPIRITUALITA’ E CULTURA
Ed. Jaca Book
Un’esposizione della
dottrina dei padri del monachesimo medievale d’Occidente relativa alla persona
e all’opera dello Spirito Santo non è stata finora tentata, nel suo insieme,
forse perché gli storici della teologia hanno pensato che i monaci medievali
non abbiano detto nulla d’importante su questo argomento, difficile e
complesso, mentre per gli storici della spiritualità tale argomento è apparso forse
troppo carico di implicazioni dogmatiche. In realtà, gli autori monastici
occidentali, cosi fedeli alla Bibbia di cui avevano assimilato profondamente la mens e
il linguaggio, non hanno ignorato—e come, del resto, sarebbe stato
possibile?—l’importanza e la funzione dello Spirito Santo. Il monachesimo
occidentale produceva, poi, i suoi autori più importanti, riscoperti e
rivalutati da una benemerita corrente di studi dei nostri tempi, proprio nei
secoli XI-XII, allorché lo sviluppo dottrinale attraversava, a questo riguardo,
una fase determinante. Non che gli ambienti monastici fossero particolarmente
sensibili a questo genere di dibattiti e di speculazioni, giacché—cessate le
grandi controversie dottrinali dell’epoca patristica—il monachesimo prolungava il
pensiero dei Padri in forma per lo più irenica e oggettiva, ma in tale epoca i
monaci, in Occidente, erano i più autorevoli rappresentanti del pensiero
teologico, prima che il ben noto «divorzio» fra teologia e spiritualità—tipico
del mondo occidentale—facesse sorgere, con la Scolastica, tutt'altro genere di
approfondimento del dogma. Alla fede, alla S. Scrittura, alla dottrina della
Chiesa i monaci medievali chiedevano (e a loro volta offrivano) non un sistema,
ma un'esperienza spirituale e questa esperienza appariva inseparabile dalla
preghiera, dalla contemplazione, dalla compunzione del cuore.
I doni dello Spirito
Santo, in particolare, anteriormente ad ogni sistematizzazione della scuola,
erano ciò che in maniera più naturale veniva da loro richiamato allorché il
loro animo si innalzava alla considerazione delle realtà dello Spirito in tutta
la sua ricchezza e multiformità. Vivere nello Spirito, camminare secondo lo
Spirito, essere sostenuti dalla sua forza vivificante e trasformante, tutto
questo contava ai loro occhi molto più di ogni discussione o distinzione. Ciò
non toglie ovviamente che, specialmente nei secoli XI-XII, allorché la teologia
monastica giunge alla sua stagione più ricca, i singoli autori assumano,
sull’argomento, posizioni diverse, diversità dovute, in gran parte, alla loro
formazione, ai loro scopi, al loro uditorio. In base al differente uso delle
fonti—specialmente di sant’Agostino—e alla differente considerazione degli
aspetti antropologici o teologici ne risultava una riflessione che presentava
accentuazioni diverse. Ma questa varietà di atteggiamenti va collocata in un
contesto altrettanto vario per quanto riguarda la dottrina della vita
contemplativa e della vita apostolica, della soteriologia e della cristologia,
per non parlare dei diversi orientamenti spirituali e delle diverse osservanze
monastiche facenti capo ai diversi ordines (Cluniacensi,
Cisterciensi, Canonici Regolari) ormai nettamente differenziati ed autonomi.
Tali diversificazioni rimanevano ed erano considerate pienamente legittime,
tanto più che anche uno stesso aurore ha potuto conoscere, al riguardo,
sfumature diverse a seconda degli scritti in cui trattava di tale argomento,
con accenni per lo più occasionali ed incompleti e con finalità per lo più
ascetiche e parenetiche. L'importante era, per la maggioranza di tali autori,
porre l’accento sullo Spirito quale principio di vita nuova, contrapposta alla
vita del mondo e alle opere della carne, in una prospettiva quindi
eminentemente pratica e spirituale.
Certo, i monaci
dell’Occidente medievale hanno scritto—in maniera esplicita—relativamente poco
sullo Spirito Santo, ma questo fatto non è di per sé molto indicativo, dato che
un analogo rilievo sarebbe possibile a riguardo della liturgia che costituì
invece, come è ben noto, l’elemento unificatore di tutta la loro vita
spirituale. Senza dubbio l’aspetto cristologico rimaneva in loro prevalente,
anche per la netta preponderanza del genere agiografico, in cui il tema della
«imitazione di Cristo» offriva larghe possibilità di applicazione alla figura
del vir Dei. Ma, a parte il fatto che anche nella tradizione
agiografica la persona dello Spirito Santo veniva talvolta esplicitamente
ricordata, proprio questa prevalenza dell’aspetto cristologico determinava, nei
grandi del monachesimo, il ben noto sviluppo della mistica
nuziale che trovava la sua espressione più significativa nel tema del «bacio».
Ora, questo è un’effusione dello Spirito, dato appunto che nella Trinità lo
Spirito è il bacio e la Sposa lo chiede non alle altre Persone divine ma
direttamente allo Spirito: «osculum ab osculo oris». Di conseguenza la Sposa
«petit ergo audenter dari sibi osculum, hoc est Spiritum illum, in quo sibi et
Filius revelabatur et Pater. Alter enim sine altero nequaquam innotescit». E
questa concezione verrà ulteriormente sviluppata, pur con notevoli modifiche,
da un altro insigne rappresentante della scuola cisterciense, Guglielmo di
Saint Thierry, di cui è ben nota l’accentuazione trinitaria assegnata al
processo dell’ascensione mistica. Così pure, se non è molto frequente, nella
letteratura monastica occidentale, l’esplicito riferimento all’abbate come
padre spirituale, si può tuttavia ricordare il caso in cui san Benedetto Biscop
consiglia di eleggere come suo successore un monaco che sia dotato di più
abbondante grazia dello Spirito Santo», pensiero in cui è ravvisabile un'eco
della dottrina dei padri del deserto.
Il richiamo allo Spirito
Santo è già implicito, da parte della tradizione monastica, nel fatto che essa
ha amato riferirsi, specialmente per opera dei suoi grandi legislatori, alla
Chiesa gerosolimitana nata dalla Pentecoste, in cui, in forza appunto dello
Spirito Santo, v’era perfetta comunione di beni e di cuori. Per tale motivo i
padri del monachesimo occidentale—primi fra tutti sant’Agostino e san
Benedetto—hanno considerato quella comunità come il prototipo di ogni forma di
vita religiosa associata sorta nella Chiesa. Di fatto, la tradizione monastica
ci mostra i monaci come creature docili allo Spirito, intenti alle opere, ai
colloqui, agli esercizi spirituali, mentre non pochi erano i monasteri di ogni
regione intitolati allo Spirito Santo.
Dall’imitazione di
Cristo che si ritira nel deserto condottovi dallo Spirito (Mc
1,12-13) fino ai gradi supremi delle ascensioni spirituali, l’azione dello
Spirito Santo è come sempre presente, anche se più supposta che descritta, più
vissuta che analizzata. Dallo Spirito provengono i diversi carismi di cui è
dotato l’«uomo di Dio» e soprattutto quel discernimento (discretio) che ne
costituisce il legame reciproco e condizione essenziale. In base a
tali doni non solo è possibile giungere ad una vera esperienza «in Spiritu»
delle Sacre Scritture le quali prolungano nel fedele tutta la loro forza di
testi «ispirati»—tale è infatti il senso dell’esegesi monastica medievale e
della stessa teologia da san Gregorio a san Bernardo —ma il più profondo
contatto con la realtà si stabilisce mediante quei «sensi spirituali» (udito,
vista, odorato, gusto, tatto) che permettono di percepire in qualche modo i
beni celesti. Specialmente l’ebbrezza spirituale, la sobria ebrietas,
ha anche nella tradizione occidentale una storia assai lunga che, pure in
questo caso, trova in san Bernardo il suo esponente più rappresentativo e il
suo culmine ne più elevato. La stessa conoscenza di Cristo è ormai, per l’anima
ascesa spiritualmente, una conoscenza nello Spirito. Anche la lotta con i sette
vizi capitali è vista come possibile perché sostenuta da doni dello Spirito
Santo.
Un appello all’opera
dello Spirito Santo è presente in maniera del tutto particolare nella
conclusione del capitolo VII della Regola di san Benedetto
dedicato all’umiltà, in cui si afferma che tutto il progresso nelle virtù sarà
manifestato dal Signore nel suo operaio (il monaco), ormai purificato dai
suoi vizi e dai suoi peccati, per opera dello Spirito Santo. Si
potrà in tal modo passare da un’esecuzione ispirata al timore ad un’altra
ispirata unicamente all’amore. La tradizione benedettina ha compreso assai bene
un simile principio come è attestato dai più antichi commentatori della Regola.
Uno di essi, Smaragdo, che scriveva intorno all’820, illustra in questo modo il
testo sopra citato: «Avendo ricevuto il dono dello Spirito Santo, essi trovano
la loro gioia in ciò che è giusto, santo e retto; e, ciò fa la loro gioia, essi
si impegnano a compierlo con gioia per meritare di diventare il
tempio santo di Colui a cui in seguito alla loro conversione si sono consacrati
come monaci; in tal modo adempiono in se stessi la parola dell’Apostolo:
"Voi siete il tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in voi”. Istruiti da
questo Spirito essi compiono ciò che Egli fa compiere; con il suo aiuto lo
attuano perfettamente; trascinati da Lui percorrono con lo slancio del
desiderio lo stadio delle azioni virtuose e nella loro corsa procedono di virtù
in virtù, cercando di raggiungere il termine definitivo in cui saranno colmati
da tutti i beni e dalla gioia eterna. Amen». Del resto, già alle origini della
tradizione benedettina san Gregorio Magno aveva insistito sulla tranquillità e
la pace che devono regnare nell’anima come espressione della docilità allo
Spirito Santo. Rifacendosi poi all’antico mito della caverna formulato per la
prima volta da Platone, Republ, 7, 1-2 e ripreso da alcuni
Padri, secondo cui l’uomo in questa vita è simile al fanciullo nato in un
carcere e al quale è difficile far credere che esistano astri e montagne, san
Gregorio dichiara che la Chiesa può testimoniare dell’esistenza delle cose
invisibili perché ha l’esperienza dello Spirito Santo.
A questo riguardo
rimane; sempre un compito difficile e delicato un confronto troppo stretto con
la parallela dottrina spirituale del monachesimo d’Oriente, dato che la
pneumatologia ha conosciuto, nei due diversi ambiti, sviluppi differenti ed ha
variamente risentito dei diversi condizionamenti teologici e culturali. D’altra
parte, se c’è un mondo spirituale in cui gli influssi dell’Oriente potevano
agire in larga misura questo è proprio il mondo monastico dato che, fin dagli
inizi, era avvenuto un significativo apporto di testi, temi e dottrine sul
nascente monachesimo occidentale che ne conserverà sempre un vivo ricordo; ed è
ancora da precisare quanto lo stesso maestro di tutto il Medio Evo monastico
d’Occidente, san Gregorio Magno, abbia attinto dal patrimonio spirituale
dell’Oriente anche in conseguenza del suo soggiorno a Costantinopoli. È
significativo, ad esempio, il fatto che per Guglielmo di Saint Thierry la
debolezza dell’intelligenza umana di fronte al mistero divino provochi
un’ignoranza che lo Spirito Sanno rende «dotta». In tal modo v’è nell’uomo
«quaedam docta ignorantia, docta a Spiritu Dei», ove l’espressione «docta
ignorantia» è di origine agostiniana, ma il contenuto è nettamente dionisiano:
e si sa quale lungo cammino percorrerà questa dottrina fino all’aurora del
Rinascimento.
Certamente anche i
monaci, per i motivi già esposti, ebbero occasione, nei secoli XI·XII, di
occuparsi delle importanti questioni dottrinali che si dibattevano in Occidente
a riguardo dello Spirito Santo, questioni delle quali—come tutti sanno—quella
più scottante era costituita dal dibattito sul Filioque. A
proposito di tale questione san Pier Damiano, rispondendo alla lettera inviata
dal patriarca di Costantinopoli Costantino III Lichoudés a papa Alessandro II
intorno al 1061-63—dunque a pochi anni dalla rottura del 1054—componeva un
apposito scritto, l’Opuscolo XXXVIII, dedicato a simile argomento. Egli,
naturalmente, assumeva la difesa della posizione sostenuta dal pensiero
teologico occidentale, citando testi e sviluppando considerazioni appropriate, ma
soprattutto dando prova di una grande cortesia e moderazione che, senza dubbio,
introducevano un tono nuovo negli aspri dibattiti degli anni precedenti. Veniva
poi sant’Anselmo d’Aosta e qualche decennio più tardi, fra il 1127 e il 1128,
Ruperto di Deutz componeva il De glorificatione Trinitatis et processione
Spiritus Sancti.
Ma, a ben guardare, non
stava qui l’interesse vero e proprio dei monaci medievali verso la persona
dello Spirito Santo. Nel quadro di una vita contemplativa, il loro sguardo si
rivolgeva innanzi tutto agli aspetti mistici e spirituali di una simile realtà.
Cosi, nel dibattito sul problema dell’immagine e della somiglianza, mentre
quest’ultima era considerata dalla tradizione patristica essenzialmente come
una partecipazione dello Spirito Santo, la tradizione monastica medievale
proseguiva sulla medesima linea con una posizione nettamente condivisa, ad
esempio, proprio da Ruperto di Deutz. Questi afferma, al proposito, che
«Spiritus Sanctus venit ad facturam hominis perificiendam, ut perduceret
hominem ad similitudinem Dei, ad quam non pervenit homo nisi partecipatione
Eius, id est Spiritus Sancti». Lo Spirito Santo è infatti il comune amore del
Padre e del Figlio e la loro comune somiglianza, perfezionando l’opera del
Figlio delle creature e trasfigurandone le menti con la luce divina. Di
conseguenza, l'uomo che, in quanto creatura non può essere simile a Dio,
diviene tale mediante la grazia delle Spirito Santo. Per Guglielmo
di Saint Thierry, poi, lo Spirito Santo, conoscenza e amore del Padre e del
Figlio, con la sua unione alla creatura rende quest’ultima «un solo spirito con
Dio», inserendola nel ciclo trinitario della vita divina. Lo Spirito Santo non
è quindi soltanto l’agente, ma il vincolo stesso di una simile unione
trasformante al cui vertice si attua la più alta somiglianza dell’uomo con Dio.
Diverso è poi l’atteggiamento di Guglielmo e di Ruperto, come del resto di san
Bernardo, nei confronti della dottrina agostiniana.
Ma Ruperto aveva
sviluppato pure una vasta teologia della storia, nella quale l'operatore
principale è Cristo, presente nel suo popolo, e l’età della Chiesa è l’età
dello Spirito Santo e, anzi, aveva spinto tanto oltre questa concezione da
comporre uno schema in cui le sette età della Chiesa sarebbero state
subordinate ai singoli doni dello Spirito. In realtà, una simile concezione non
andava molto al di là di un semplice schema, ma esprimeva, a modo suo, un’ansia
di interpretazione di tutta la storia di cui, in quel medesimo periodo, si
sarebbero fatti più numerosi e significativi gli esperimenti, con Ottone di
Frisinga e con Gerhoh di Reichersberg. Quest’ultimo († 1169) avrebbe ripetuto abbastanza fedelmente lo
schema di Ruperto considerando la storia della Chiesa come caratterizzata dai
sette doni dello Spirito Santo: cosi nel Libellus de Ordine donorum
Spiritus Sancti. Ma tutto questo sforzo avrebbe trovato la sua espressione
più grandiosa e sconcertante nel messaggio storico e spirituale dell’abbate
Gioacchino da Fiore († 1202), sul quale ritorneremo tra
breve.
Nell'ambito della
tradizione monastica occidentale non si può certo dimenticare una personalità
come Aelredo di Rievaulx. Secondo questo abbate cisterciense Dio solo, mediante
il suo Santo Spirito, può unificare le sue creature unendole in carità perfetta
e congiungendo la volontà divina con quella umana. Questa unione si opera
allorché lo Spirito Santo, che è precisamente la volontà e l'amore di Dio, e
che è Dio, si porta e s'infonde nella volontà umana, la solleva dal basso in
alto, la trasforma secondo il modo e la qualità del suo essere, dimodoché,
aderendogli col cemento di una indissolubile unità, diviene un solo Spirito con
lui, secondo l’affermazione nettissima dell’Apostolo: «Chi aderisce al Signore,
diviene un solo spirito con Lui» (1 Cor 6,17).
Specialmente Guglielmo
di Saint Thierry, confidente e biografo di san Bernardo, deve essere ricordato
per il suo approfondimento della funzione dello Spirito Santo nell’ascesa
dell’anima. L’ultima tappa del cammino spirituale consiste, secondo
Guglielmo, proprio nel passaggio dalla scienza alla sapienza delle cose divine,
sentite e conosciute come Cristo conosce il Padre, nell’amore, e in un amore
sostanziale che è interamente lo Spirito Santo. Questa conoscenza d’amore
suppone quindi l’intervento dello Spirito Santo ed è informata ed alimentata da
Lui. «Il nostro amore a riguardo di Dio è lo Spirito Santo che ci è stato
donato e mediante il quale la carità è stata effusa nei nostri cuori». È
mediante questo dono costituito dallo Spirito Santo stesso che ci è possibile
«gustare e vedere come è buono il Signore», superando tutte le incapacità e i
limiti della natura umana. Di grado in grado l’anima può così salire ascendendo
fino all’unione mistica e alla visione, allorché si trova presa come in questa
stretta e in questo bacio del Padre e del Figlio che è appunto lo Spirito
Santo. L’anima in tal modo non è più sola con se stessa, ma è con Dio e in Dio,
perché è lo Spirito Santo che la trasforma e la compenetra; né è più soltanto
amica di Dio ma sua sposa. Dal punto di vista strettamente dottrinale il
pensiero trinitario di Guglielmo è tributario di Origene e, insieme, di
Agostino, benché in quest’ultimo trascuri completamente la prospettiva
psicologica. Questo vale specialmente per la dottrina relativa allo Spirito
Santo concepito come l’unità del Padre e del Figlio, l’amore di entrambi e
quindi la radice della somiglianza tra l’uomo e Dio. Da ciò deriva tutto lo sviluppo
di quella che si può chiamare la mistica trinitaria di Guglielmo e la sua
teologia dello Spirito Santo, amore di Dio per gli uomini e amore degli uomini
per Dio. Lo Spirito Santo diviene quindi come un termine del cammino
trinitario, iniziatosi mediante il contatto con Cristo, un cammino che culmina
nel raggiungimento della condizione spirituale.
L’interesse verso una
simile tematica ben si accordava con l’importanza che la corrente cisterciense
assegnava al processo di interiorizzazione di tutta quanta la vita spirituale
e, quindi, ad un suo incontro con le questioni strettamente antropologiche,
come suggeriscono i numerosi trattati De anima usciti da tale
corrente monastica. Quanto al campo liturgico, il cui sviluppo è cosi
strettamente legato alla tradizione monastica, la persona dello Spirito Santo
acquistava gradualmente maggior rilievo nella liturgia del tempo pasquale a
mano a mano che ci si avvicinava a Pentecoste. Va da sé, inoltre, che una
«devozione allo Spirito Santo» come sarebbe stata praticata in Occidente nei
secoli XVII-XVIII con numerose istituzioni religiose intitolate a tale Persona
divina, sarebbe parsa inconcepibile ai padri medievali, i quali continuavano a
vivere nel clima teologico e spirituale dell’età patristica. Ciò non impedisce
che si vada formando, al riguardo, una nuova sensibilità e che, come nel campo
cristologico, così anche per ciò che riguarda lo Spirito Santo si faccia strada
un nuovo stile di devozione. Nel Libellus Trecensis del secolo
IX, espressione della pietà del monachesimo carolingio, è contenuta, tra
l’altro, una Oratio sancti Efrem ad personam Spiritus Sancti che,
dopo averne ricordato le mirabili opere, supplica «Depelle a me quaeso tenebras
totius iniquitatis et perfidiae, et accende in me lumen tuae misericordiae et
ignem sanctissimi ac suavissimi amoris tui». Nel Libellus
Turonensis, proveniente dalla abbazia di Corbie, una Oratio pro
lacrimis, dopo aver supplicato Gesù affinché attiri il fedele a sé come la
peccatrice, chiede «Sicque me per infusionem Sancti Spiritus fletuum ubertate
et lacrimarum infusione exubera». ·
Accanto a queste
preghiere allo Spirito Santo che compaiono nei Libelli precum altomedievali,
è soprattutto la ricerca e l’affermazione di una connaturalità tra lo spirito
dell’uomo e lo Spirito di Dio che costituisce un po' il sottofondo di tutta la
mistica del pieno Medio Evo. Non per nulla l’espressi0ne paolina più
frequentemente citata da san Bernardo è: «Qui adhaeret Domino unus Spiritus
est». Lo Spirito Santo è infatti considerato come il principio operativo della
crescita spirituale, dalla teologia dell’immagine (il cui recupero riconduce
l’uomo alla dignità originaria) all’assimilazione allo stato angelico e alla
vera e propria deificazione, tema per altro—quest’ultimo—assai meno frequente
che presso i padri orientali. Lo Spirito Santo è, secondo Aelredo di Rievaulx,
il segno dei tre gradi di progresso dell’anima che comprendono la
purificazione, la prova, la glorificazione, in parallelo con le manifestazioni
dello Spirito Santo al Battesimo, alla Trasfigurazione, alla Pentecoste.
Quest’ultimo evento consiste in una «vacatio quaedam et requies» simbolo della
«tranquillità» e del «sabbatum», mediante cui l’anima vince il timore, giunge
alla sicurezza e si dispone alle opere proprie dello stato monastico da
compiersi «nel gemito, nelle lacrime, nella compunzione, nel timore, nella
rinuncia al mondo, nel rigetto delle cose proprie e nell’accettazione della
vita comune, nella consolazione, nell’illuminazione».
San Bernardo, dal canto
suo, sviluppa il tema dell’esperienza cristiana divenuta perfetta e radicata
nell’interiorità allorché Gesù è scomparso dagli sguardi degli uomini. Ciò è
avvenuto con l’Ascensione e la Pentecoste, allorché il dono dello
Spirito Santo ha diffuso nei cuori la carità comunicandosi alle anime: e in ciò
sono state riconosciute non due esperienze, ma due aspetti inseparabili
dell’unica esperienza cristiana. Ne deriva una crescita dell’amore filiale—che
elimina il timore servile—e della libertà spirituale, perché «là dove è lo
Spirito, ivi è la libertà» (2 Cor 3, 17), rendendo possibile l’esperienza
soprannaturale e personale della Parola di Dio, in modo particolare di quel
libro, il Cantico dei Cantici, che era stato fin dai tempi di Origene il testo
privilegiato per le anime contemplative. Non la carne né il sangue, ma solo
Colui che scruta le profondità di Dio, lo Spirito Santo, può rivelare il gran
segreto del bacio chiesto dalla Sposa; e questa rivelazione, opera propria
dello Spirito, non può essere conosciuta se non da chi la attua, la Chiesa e
l’anima santa. L’esperienza dello Spirito è insieme conoscenza e amore,
manifestazione e invocazione, dono dello Spirito che vivifica al di là della
lettera che uccide, illuminazione del cuore e preghiera confidente.
Riassumendo fedelmente
il pensiero del grande abate di Chiaravalle, uno studioso ha potuto affermare a
questo riguardo: «Tale è dunque l’esperienza dello Spirito. Essa è tutta
l’esperienza cristiana: quella dello spirito filiale in cui diveniamo figli di
Dio e quella della forza divina di cui abbiamo un bisogno quotidiano affinché
il peccato non regni in noi; quella, infine, della fede mediante cui Cristo
vive nei nostri cuori. E’ l’esperienza di tutti coloro che Cristo ha riscattato
a prezzo del suo Sangue. Lo scopo dei Sermoni sul Cantico consiste precisamente
nel mostrare come in noi si realizza la salvezza mediante lo Spirito Santo che
ci è stato donato dal Padre in seguito alla glorificazione di Gesù; mostrare
come, mediante questa azione divina, noi ci avviciniamo a Dio. Lo Spirito Santo
stesso non disdegna di mostrarci nella sua luce il lavoro assiduo che compie in
noi. Quest'opera divina, tuttavia, esige da parte nostra una grande vigilanza.
Non sappiamo né l’ora in cui lo Spirito verrà né quella in cui si ritirerà.
Dobbiamo essere come dei servi che attendono il loro padrone quando tornerà
dalle nozze. Lo Spirito, quando viene, non deve mai trovarci impreparati, ma
con lo sguardo in alto nell’attesa della sua venuta e con tutti i sensi aperti
per ricevere la generosa benedizione divina». Nulla esprime meglio tale
pensiero di san Bernardo che questo testo dei Sermones super Cantica:
«Lo Spirito va e ritorna... e non cessa di sottomettere alle sue alternative di
presenza e di assenza quelli che sono spirituali o, per meglio dire, quelli che
mediante queste stesse alternative, Egli vuole rendere spirituali». È la vicissitudo,
l’alternanza di parola e di silenzio, ben nota alle anime contemplative. E se
lo Spirito Santo, che ispira la S. Scrittura, è anche Colui che
santifica l’anima, ciò significa che l’anima e la S. Scrittura sono come due
libri scritti dalla stessa mano divina, e che solo la santità può darci la
piena intelligenza dei testi sacri .
È stato notato che,
mentre in Oriente al «ciclo cristologico» segue in maniera sempre più decisa, a
partire dal secolo IX, lo sviluppo dell’aspetto pneumatologico, in Occidente
«con Rabbano Mauro, con Pascasio Radberto appaiono gli ultimi barlumi di una
pneumatologia nella linea dei Padri greci. La teologia del medioevo monastico
susseguente, malgrado il suo sforzo per continuare la linea patristica e per
rinnovarla, ha perso di vista l’importanza di una teologia dello Spirito Santo
approfondita, e la scolastica posteriore, anche tra i suoi più eminenti
rappresentanti, non ha più saputo reintegrarla». A nostro parere, tuttavia, non
è ancora chiaro quanto, in questo processo di stasi, abbia giocato
negativamente la concezione gioachimita con la sua esasperata esaltazione del
ruolo dello Spirito Santo quale elemento determinante di un’epoca successiva a
quelle del Padre e del Figlio, nel senso che, per opporsi a pericolose
deviazioni di indole spiritualistica, la teologia occidentale si sarebbe vista
nella necessità di bloccare ogni ulteriore sviluppo della dottrina pneumatologica.
Lo stesso san Tommaso nutrirà scarsa simpatia per il pensiero di Gioacchino da
Fiore. In tal modo ne sarebbe stata accentuata la considerazione cristologica
e, soprattutto, la devozione all’umanità di Cristo, tipica del periodo
tardomedievale e ben più accessibile alla psicologia popolare.
Analogamente, ancora
poco studiate sono le eventuali fonti greche del pensiero di Gioacchino da
Fiore che tanto influsso avrebbe esercitato, anche fuori del campo monastico e
di quello teologico, nella vita ecclesiale del basso Medio Evo e del primo
Rinascimento, determinando l’attesa di quell’età nuova—l’età appunto dello
Spirito Santo—che avrebbe animato tanti movimenti di più o meno sicura
ortodossia ed alimentato tante correnti profetiche e millenaristiche. In tal
modo Gioacchino da Fiore apparirebbe non soltanto come il punto cruciale del
trapasso tra Medio Evo e Rinascimento, ma anche come l’ostacolo ad un più
normale sviluppo della pneumatologia occidentale, esposta—qualora avesse
accettato incondizionatamente il suo pensiero—al pericolo di una eccessiva
estimazione del ruolo dello Spirito Santo nello stesso sviluppo dell’economia
salvifica. Beghini, begardi, fraticelli, fratelli del Libero Spirito avrebbero
contribuito, per parte loro, ad accrescere queste diffidenze da parte
dell’autorità ecclesiastica occidentale che attraversava per giunta, in questo
periodo, una delle fasi più critiche della sua storia a causa della crisi della
religiosità medievale dovuta ai ben noti fattori storici. Per ciò che riguarda il
problema di Gioacchino si tratta di una semplice ipotesi, da approfondire e
valutare alla luce di ricerche interdisciplinari nel campo degli studi storici
e teologici e dei rapporti tra Oriente ed Occidente.
Un altro tema che i
padri monastici hanno sviluppato è quello relativo al «dito di Dio».
L’espressione «digitus paternae dexterae» dell’inno Veni Creator
Spiritus venne interpretata dai monaci medievali, proseguendo nella
linea patristica, come riferita allo Spirito Santo, giacché il Padre stende la sua
mano su di noi inviandoci il Figlio e questi ci tocca inviandoci lo Spirito
Santo. Lo Spirito Santo è quindi il «dito di Dio». I padri hanno cura di
ribadire che la distinzione nell’unità è sia la condizione delle Persone della
Trinità sia la condizione dei membri della Chiesa, giacché stessi
doni dello Spirito Santo sono diversi. Cosi, a riguardo del miracolo del
sordomuto (Mc 7, 33), san Gregorio Magno afferma che «le dita del Redentore
sono i doni dello Spirito Santo. Mettere le dita nelle orecchie significa
aprire lo spirito del sordo all’obbedienza mediante tali doni». Nel secolo VIII
san Beda sviluppa ulteriormente il simbolismo usato da san Gregorio affermando
che «lo Spirito Santo è chiamato dito a causa della distribuzione dei doni a
ciascuna delle creature, agli angeli come agli uomini, e questo permette di
esprimere nello stesso tempo la distinzione e la proprietà dei doni da esso
accordati ad ognuno: in nessun membro si osserva una distribuzione e un
adattamento tanto perfetto degli organi; tra i doni dello Spirito Santo c’è
diversità ed unità come tra le dita di una mano». Nel secolo XIII un autore
anonimo, eco fedele di tutta la tradizione precedente, innalza allo Spirito
Santo una preghiera appassionata: «vieni dolcissimo mio Signore, stendi verso
di me il tuo dito e rialzami. Si posi il tuo dito sotto di me e mi sollevi, mi
regga e mi conduca a te... Mi tocchi, o Spirito Santo, il tuo dito che stilla
il vino, l'olio e la mirra! Mi tocchi il tuo dito, o amatissimo Signore, mi
liberi e restituisca alle mie carni l’integrità, affinché io divenga una dimora
immacolata, fondata sulla verità della fede, elevata nella certezza della
speranza, edificata sul fervore dell’amore e pronta per riceverti».
Molti padri monastici
del secolo XII, tra cui Isacco della Stella e Giuliano di Vézelay, si servono
della attribuzione della Potenza alla persona del Padre, della Sapienza a
quella del Figlio, della Carità a quella dello Spirito Santo. Soprattutto i
sette doni dello Spirito Santo vengono ricordati per sviluppare ulteriormente
la dottrina dei «sette settenari» della vita umana e della milizia di
Cristo, come dice appunto Isacco della Stella: «In tal modo i carismi o grazie
o doni che appartengono allo Spirito e che hanno la loro fonte in Cristo sono
sette nel loro genere, molteplici nelle loro specie, infiniti nel loro numero.
Queste grazie producono e formano nell'anima, mediante il consenso che esse
creano, delle virtù che meritano le diverse beatitudini proprie a ciascuna di
esse». Un altro cisterciense, Adamo di Perseigne, distingue nell’anima sette
tappe che corrispondono insieme ai sette giorni della creazione e ai sette doni
dello Spirito Santo, ciò che dispone l'anima alla celebrazione delle «ferie
solenni». Si tratta di quella piena fruizione dì Dio che gli autori di quella
corrente monastica chiamano anche «sabato» perpetuo, giorno senza tramonto,
festa del santo amore. «Sono quindi sette le ferie solenni nelle quali si
cessa, per Dio, da ogni lavoro, e nelle quali, per dedicarsi più liberamente a Dio,
l'anima si astiene da ogni opera servile. La prima feria è lo spirito del
timore del Signore...». Ma non può essere dimenticato che altrettante vengono
considerate le «liquefazioni dell’anima» manifestantisi nelle lacrime di
compunzione, di devozione, di amore, di pietà, di carità, di contemplazione, di
buon odore di consolazione.
Pensiamo che la
conclusione più adatta di queste brevi note sia un celebre testo di Guglielmo
di Saint Thierry, appartenente a quella Lettera d'oro che si
apre con l'elogio dell’OrientaIe lumen: «Quando il pensiero si
intrattiene in Dio e la volontà progredisce fino a diventare amore, subito,
mediante l’amore, si effonde lo Spirito Santo, lo spirito di vita che tutto
vivifica, aiutando nella preghiera, nella meditazione o nello studio la debolezza
di colui che pensa. La memoria diviene allora sapienza e l’intelligenza di chi
pensa diviene contemplazione di chi ama, trasformando ogni cosa in esperienze e
gioie spirituali». Questo modo di pensare a proposito di Dio non è tuttavia in
arbitrio di chi pensa, ma dipende dalla grazia di chi dona, poiché lo Spirito
soffia dove vuole, quando vuole e come vuole. L’uomo deve però preparare il suo
cuore, purificando la memoria e la volontà. Il progresso dell’anima consiste
nel giungere all’unità di spirito, cosi chiamata non solo perché è lo Spirito
Santo ad attuarla e a disporvi lo spirito dell’uomo, ma perché essa è
effettivamente lo Spirito Santo, il Dio amore. Essa si produce allorché Colui
che è l’Amore del Padre e del Figlio, la loro unità e soavità, il
loro bene e il loro bacio, il loro amplesso e tutto ciò che può essere comune
all’uno e all’altro in questa unità sovrana della verità e dell'unità, diviene
per l’uomo, in qualche modo, nei confronti di Dio una partecipazione
dell’unione esistente tra Padre e Figlio. L’uomo diviene per grazia ciò che Dio
è per natura. Per questo l’Apostolo inserisce opportunamente nell’elenco degli
esercizi spirituali lo Spirito Santo dicendo: «Nella castità, nella scienza,
nella longanimità, nella soavità, nello Spirito Santo, nella carità non falsa,
nella parola di verità, nella potenza di Dio». È questo, forse, il messaggio
più alto lasciatoci dai padri monastici dell’Occidente medievale a riguardo
dello Spirito Santo.
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