ALCUNE COSTANTI SPIRITUALI
NELLE TRADIZIONI
ESICASTE D'ORIENTE E OCCIDENTE
André Louf
André Louf
Quando all'inizio del V secolo alcuni reclusi appartenenti al celebre monastero dell' abate Serido, situato in quella che diventerà la famosa "striscia di Gaza", si rivolsero al loro padre spirituale, il non meno celebre "Grande Anziano" di nome Barsanufio, chiedendogli d'intercedere presso Dio affinché allontanasse la spada della sua collera, pronta a colpire un mondo resosi colpevole, l'Anziano svelò loro i nomi dei tre uomini di Dio, ancora in vita, la cui preghiera sosteneva il mondo intero ed era capace di allontanare il flagello della collera divina:
Ci sono tre uomini perfetti davanti a
Dio che hanno superato la misura umana ... E stanno ritti sulla
breccia ... grazie alle loro preghiere Dio castigherà con
misericordia ... Sono Giovanni a Roma, Elia a Corinto e un altro
nell'eparchia di Gerusalemme.
Roma, Corinto, Gerusalemme, tre grandi
centri cristiani che a quell'epoca dominavano la totalità
dell'oikouméne di
lingua greca. La chiesa universale, così come appariva a quel tempo
ai cristiani palestinesi, si reggeva in piedi grazie
alla preghiera dei tre giganti dell'esicasmo, che non erano ancora
separati da alcuna barriera ecclesiastica.
Da oriente a occidente, passando per Gerusalemme - da sempre la culla
e il cuore della cristianità - questi uomini di Dio si conoscevano e
si riconoscevano. Erano
coscienti di esser figli di una stessa tradizione spirituale,
i loro itinerari erano simili, e il loro ministero nella chiesa
identico.
La presente relazione vorrebbe
rapidamente evocare alcune costanti di tale tradizione che a quel
tempo era comune, ma che presto si scinderà in due tronconi, ognuno
dei quali evolverà per suo conto parallelamente all'altro, spesso
ignorandolo completamente, e nondimeno entrambi rimarranno
straordinariamente simili fino ai nostri giorni. Meraviglia
della chiesa di Cristo, che a un certo livello di profondità è
sempre rimasta indivisa, nonostante le apparenze,
e che lo è ancora certamente anche oggi! Sta
a noi prenderne coscienza.
L'esposizione verterà soprattutto su
un confronto tra il linguaggio e tra le modalità con le quali dalle
due parti è stata organizzata la vita pratica per favorire
l'esperienza interiore, e tutto questo in una prospettiva in qualche
modo sincronica. Nell'ultima parte, le conclusioni saranno illustrate
dalla presentazione simmetrica di due illustri figure.
Precisiamo anzitutto che
cosa intenderemo qui per esicasmo". Non il celebre movimento
'esicasta" difeso da Gregorio Palamas, che ha animato la
teologia e il monachesimo di Bisanzio nel XIV secolo
e che con la complicità di un monaco greco disperso in occidente fu
all'origine di un lungo malinteso, ma
quell'insieme di tradizioni spirituali, costituito da insegnamenti
nel contempo teorici e pratici, la cui origine risale ai primi
monaci, e che non ha altro scopo che di condurre il credente a un
unione intima con Dio, nel deserto o nel mondo.
Scopo che ricevette spesso il nome di "preghiera continua o
ininterrotta", come riflesso dell'imperativo di Paolo: "Pregate
incessantemente" (1Ts 5,17).
La tradizione esicasta
Cominciamo con il delineare i tratti
più importanti di questa tradizione, la sua fisionomia. Eccone
dunque alcuni - scelti tra molti altri sui quali una breve
esposizione non può soffermarsi - che ci serviranno da filo
conduttore. Li enumero in ordine sparso: un
luogo solitario; in questo
luogo solitario, la ricerca
della hesychia,
bezmolvie in slavo
ecclesiastico, in latino quies
oppure otium,
cioè il riposo, la quiete
o l'ozio; poi la krypté
melète", o érgon
noeròn, per gli slavi
umnoe delanie, in
latino meditatio o
ruminatio, cioè
il lavoro o fatica interiore, o anche meditazione; quest'ultima
sfocia nella preghiera chiamata monològhistos,
in latino iaculatoria,
che si può tradurre con
preghiera semplice o preghiera di una sola parola, o anche
giaculatoria; e questa ben presto diventa l'equivalente della
preghiera adiàleipte, in
latino indisrupta, cioè
della preghiera incessante.
Emerge chiaramente che se la vita
detta esicasta è costituita anzitutto da un'intensa attività
interiore, che in qualche modo sfugge a ogni riferimento visibile,
ciò non significa che non richieda, specie per i principianti, un
quadro esteriore preciso e perfettamente riconoscibile, i cui
elementi si ritrovano ovunque identici, anche se da una tradizione
all'altra può variare il peso che ciascuno di essi ha singolarmente.
E' questo quadro esteriore l'elemento che permette di riconoscerle
uno status particolare all'interno della variegata gamma delle
vocazioni monastiche. Accanto ai monaci esicasti che si ritiravano
nel deserto, ci sono sempre stati anche monaci urbani che abitavano
nelle città, monaci eruditi particolarmente dediti allo studio delle
scienze sacre, monaci più specificamente legati alla persona di un
vescovo - si potrebbero chiamare "monaci da cattedrale",
più tardi saranno i canonici, in occidente - senza dimenticare
l'impressionante schiera di monaci missionari, in occidente come in
oriente. Si può dunque constatare come il ventaglio monastico sia
ampio, e gli esicasti non ne rappresentino che una parte,
probabilmente minoritaria, ma che è sempre esistita e sussiste
ancora oggi: in oriente vengono
chiamati esicasti, in occidente contemplativi.
E di loro che d'ora in poi parleremo.
Sia gli esicasti sia i contemplativi
affondano le radici nei deserti dell'Egitto, della Palestina e
dell'Asia Minore del IV secolo, come in una terra nutrice. Sono i
"santi padri, nostri predecessori", ai quali si farà
ovunque appello con un'unanimità impressionante. Ancora nel IV
secolo Benedetto,
per citare solo lui, sostenendo che la sua Regola
costituiva soltanto un
modesto manuale per principianti, rimanda i suoi monaci alle
doctrinae sanctorum Patrum
che possono servire loro da
segnavia per il cammino successivo, se aspirano a raggiungere "le
più alte vette di dottrina e di virtù". Egli
è pienamente cosciente che questi segnavia e la loro fonte si
trovano in oriente. Del resto
come dimenticare che nel XII secolo Guglielmo
di Saint-Thierry saluterà la
ricomparsa in occidente di una formula anacoretica di tipo lauriota
come l'orientale lumen, "la
luce dell'oriente"?
"L'antico fervore dell'Egitto nella vita religiosa" -
spiega - i fratelli certosini si apprestano a portarlo "nelle
tenebre dell'occidente e nei freddi delle Gallie, cioè l'esempio
della vita solitaria e il modello della vita celeste",
in altri termini la vita
"esicasta".
La storia di questa forma di vita è
stata ripercorsa molte volte, ad esempio da
padre Hausherr per la
tradizione bizantina e
da padre Jean Leclercq
per la tradizione latina. Sarebbe inutile riprenderla qui. In un
primo momento mi limiterò a mettere in rilievo qua e là alcuni
elementi di base paralleli, prima di soffermarmi più da vicino su
due esicasti quasi contemporanei, degli anni intorno al 1500, uno in
Russia, san Nil Sorskij,
l'altro nell'Italia rinascimentale, il
beato Paolo Giustiniani.
Il primo elemento che accomuna tutti
gli esicasti è la scelta di un luogo solitario e tranquillo.
Separazione dal paese, dai parenti,
dalla comunità cristiana, ritiro nel deserto, in un sepolcro abitato
dai demoni, o in un luogo solitario ancor più distante, chiamato
"deserto interiore", sono le tappe dell'itinerario di
solitudine di Antonio,
che la Vita scritta
da Atanasio autentifica a nome dell'episcopato e propone come
esemplari per tutti i suoi discepoli. Semplice contadino copto,
Antonio viene raggiunto nel deserto da un esponente della cultura
bizantino-romana, un frequentatore abituale della corte imperiale,
Arsenio.
Pur riconoscendosi un esperto di letteratura sia latina sia greca,
quest'ultimo confessa d'ignorare persino l'alfabeto della vita
solitaria, che è venuto a imparare da questi rozzi monaci d'Egitto.
Di lui Gregorio Magno
avrebbe potuto ripetere ciò che scrive di Benedetto quando abbandona
gli studi per ritirarsi nel deserto:
che era scienter
nescius et sapienter indoctus, "consapevolmente
ignaro e sapientemente sprovvisto della scienza del mondo". La
formula esprime il paradosso di ogni vocazione esicasta: le forze
contrastanti che in essa si affrontano, le scelte che impone, la
nuova sintesi instancabilmente ricercata.
Dunque è proprio una scienza
nuova quella che Arsenio viene ad apprendere nella solitudine. Nessun
altro monaco si spingerà, nel rigore della separazione dal mondo e
dai fratelli, fino al punto in cui si spinge Arsenio, cosa che lo fa
diventare, a tutte le latitudini, la figura emblematica della vita
esicasta. Ma è meglio rivolgersi a lui per conoscere le motivazioni
di una simile scelta, che verrà ripresa da tutta la tradizione. Un
apoftegma ne riassume l'essenziale. A un fratello che si meravigliava
di vederlo fuggire gli altri e correre verso la sua cella dopo ogni
sinassi, Arsenio replicò: "Dio sa che vi amo, ma non posso
essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere
celesti (gli angeli) non hanno che un desiderio, mentre gli uomini ne
hanno molti. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini"
Arsenio è l'uomo che ha un solo
desiderio, quello di essere incessantemente con Dio. E' il desiderio
dell'amore spinto all'estremo: non lasciare mai la presenza del
Prediletto. E' anche l'unico criterio veramente convincente che
Giovanni Climaco
ricorderà a proposito di coloro che "assetati dell'amore di
Dio, e trovando in questo amore delizie e dolcezze ineffabili,
sposano, se così si può dire, quella santa solitudine".
Per loro sposare la solitudine è sposare Dio. In occidente gli
autori ripeteranno innumerevoli volte una sentenza che Ambrogio
aveva preso da Cicerone: "Non sono mai meno solo di quando
sembra che io sia solo". Il solitario vive in compagnia di Dio,
e Dio gli tiene compagnia incessantemente.
Questa solitudine può assumere
svariate forme. Essa presuppone un luogo lontano dal mondo abitato,
spesso un vero e proprio deserto. Antonio aveva in un primo tempo
optato per un sepolcro, che aveva fama di essere un covo di demoni,
ma l'immagine del sepolcro attraverserà le epoche in una forma
spiritualizzata, e la solitudine dell'eremita finirà per essere
paragonata al sepolcro pasquale di Cristo in attesa della
resurrezione
Se l'ambiente circostante è adatto,
una grotta sul fianco della montagna può offrire tutta la solitudine
desiderata. In tutta la cristianità non si contano le grotte - dagli
eremi rupestri della Cappadocia, fino a quella che secondo la
leggenda Maria Maddalena avrebbe scoperto sul fianco della
Sainte-Baume, in Provenza, nelle quali si custodisce il ricordo di
qualche celebre solitario.
Nel XV secolo Paolo Giustiniani, sul quale ritorneremo, abbandona il grande monastero che aveva accolto la sua professione monastica, per rifugiarsi con alcuni compagni in un gruppo di grotte e qui iniziare la sua riforma esicasta. Ma sarà soprattutto la cella individuale, isolata all'interno di un edificio, o un insieme di celle disperse attorno a un oratorio, ad assicurare l'intimità ricercata dal solitario. Per gli eremiti occidentali la parola latina cella permette un facile gioco di parole, cella-caelum, al quale molti si abbandonano. Ricordiamo soltanto Guglielmo di Saint-Thierry che, nella sua Lettera d'oro, indirizzata ai certosini, scrive:
Nel XV secolo Paolo Giustiniani, sul quale ritorneremo, abbandona il grande monastero che aveva accolto la sua professione monastica, per rifugiarsi con alcuni compagni in un gruppo di grotte e qui iniziare la sua riforma esicasta. Ma sarà soprattutto la cella individuale, isolata all'interno di un edificio, o un insieme di celle disperse attorno a un oratorio, ad assicurare l'intimità ricercata dal solitario. Per gli eremiti occidentali la parola latina cella permette un facile gioco di parole, cella-caelum, al quale molti si abbandonano. Ricordiamo soltanto Guglielmo di Saint-Thierry che, nella sua Lettera d'oro, indirizzata ai certosini, scrive:
Dato che nella cella si ha un continuo
dedicarsi ad azioni celesti, il cielo le diventa vicino, non solo
perché la loro somiglianza fa dell'una il sacramento dell'altro, ma
anche a causa del tenero amore che regna nell'una come nell'altro, e
per il simile effetto dell'opera dei due; né ormai lo spirito che
prega o anche l'anima che esce dal corpo trova lunga e difficile la
via dalla cella al cielo. Dalla cella infatti si sale sovente al
cielo.
Il culto della cella sarà all'origine
della "reclusione", fenomeno che si ritrova in tutta la
cristianità ma che in occidente riceve uno statuto quasi ufficiale
tra il XIII e il XVI secolo, momento in cui è straordinariamente
fiorente, tanto da divenire quasi di moda. La reclusione è già
menzionata nella Regola dei
Solitari, documento
che con tutta probabilità risale alIa fine del IX secolo e che è
opera di un certo Grimlaico.
I reclusi si chiudono "come in una prigione" per piangere i
propri peccati ma soprattutto per essere vicini a Dio: "Più
sono lontani dal mondo - dice la Regola
- "più sono vicini a
Dio" e possono quindi tendere verso le gioie alle quali
aspirano: "Essi tendano incessantemente la parte più elevata
del loro spirito (acies
mentis) alle realtà che
desiderano raggiungere, la beatitudine della vita eterna".
A partire da quel momento le
testimonianze si moltiplicano. Nel XII secolo, quando la lingua
inglese è ancora balbettante abbiamo già una Ancren
Riwle, una "Regola per
recluse". Un contemporaneo e compatriota, Aelredo
di Rievaulx, abate cistercense
e più favorevole alla vita cenobitica, deve tuttavia una parte della
sua celebrità alla sua Lettera
a una reclusa che
espone dettagliatamente le diverse occupazioni, di giorno e di notte,
e lo spirito che deve animarle. Stessa preoccupazione in un
contemporaneo, il certosino
Bernardo di Portes, nella
lettera che indirizza a un recluso. Ma è nell'ambito dell'eredità
di Romualdo,
e in particolare dei monasteri che formano la congregazione nata dal
deserto di Camaldoli, che la prassi della reclusione viene
istituzionalizzata. Uno dei più antichi consuetudinari, opera del
beato Rodolfo
e approvato nel 1085, prescrive la reclusione a tutti i fratelli per
tutto il tempo di Quaresima e dl Avvento. Non dovranno uscire dal
loro eremo, eccetto tre o quattro, ma rimanere presso l'oratorio per
adempiere il dovere dell'ufficio. La prassi viene ulteriormente
precisata e si apre una possibilità per la reclusione perpetua con
la riforma del beato Paolo
Giustiniani, alla fine del XV
secolo. Ecco come quest'ultimo presenta tale decisione:
Se qualcuno è incline a più alta
contemplazione, e desideroso di un luogo di più grande e più sicura
solitudine si impegna con ogni cura ... a non frequentare la gente
del mondo, ma addirittura si astiene dalla stessa convivenza solita
con gli altri fratelli eremiti. Solo chi si ritira così può dire di
aver abbandonata ogni terrena preoccupazione. Costui non sarà mai
preoccupato sul modo di avviare e condurre la sua vita ... Si concede
a chi desidera vivere da recluso, in disparte da tutti gli altri, una
determinata cella con un piccolo orto. Qui egli può rimanere per un
tempo prestabilito o, se vuole, anche per sempre senza mai più
uscirne. Gli sarà portato con diligente sollecitudine dai fratelli
eremiti tutto ciò che è necessario sia per il corpo sia per lo
spirito; gli saranno offerti opportuni aiuti e sollievi, in modo che,
sciolto e libero da qualsiasi altra preoccupazione, possa in tutta
comodità (comodissime)
attendere soltanto a Dio.
Come si può constatare, il deserto
camaldolese è costituito da due specie di eremiti: gli uni che si
dicono aperti, in
latino, si spostano e sono visibili; gli altri, reclusi,
restano fissi stabilmente
nella propria cella, dalla quale escono solo una volta l'anno,
durante la settimana santa e per il giorno di Pasqua. Il
consuetudinario del deserto precisa il compito specifico di queste
due categorie:
- Per
chi è eremita aperto: essere ben disposto a servire gli eremiti
reclusi.
- Per gli eremiti reclusi:
pregare per quelli aperti.
- Per chi non è recluso: avere in
venerazione la perfezione della reclusione e, nei limiti del
possibile, imitarla.
- Per chi vi sia una volta
arrivato: custodirla diligentemente ed esser fedele in tutto.
Di questa pratica straordinaria è
Bernardo quello che dà l'unica motivazione accettabile, quando parla
di un recluso che quadam se
cella pro amore Dei ex proposito incluserat.
Qualunque forma essa assuma in
concreto, il fine della solitudine è indicato dal termine greco
hesychia, in
siriaco selyo, in
latino quies. Il
termine greco significa piuttosto "calma", il termine
siriaco "interruzione del lavoro" - a rigore vorrebbe dire
"disoccupazione" -, il termine latino "riposo".
L'italiano, come il francese, deve
affrontare qui un piccolo problema di traduzione. Da un lato, volendo
tradurre i participi presenti hesychàzontes
in greco e quiescentes
in latino, si ha qualche
imbarazzo a chiamare i monaci di oggi dei "riposanti";
dall'altro il termine che sarebbe più confacente, "quiete",
quiétude in
francese, malauguratamente si è trovato coinvolto nel XVIII secolo
in una controversia le cui tracce non sono ancora completamente
scomparse dal vocabolario spirituale moderno. Quanto al termine
"quietismo", che sarebbe l'esatto corrispondente di
"esicasmo", esso sembra, almeno per il momento, inadeguato;
di fatto è un termine che viene usato solo in senso peggiorativo,
riferito a correnti più o meno eretiche e condannate al loro tempo.
Tuttavia pare sia venuto il momento di utilizzare di nuovo, senza
timore di malintesi, come traduzione della parola quies,
il bel vocabolo quiete
che fu così a lungo il
termine preferito dagli autori monastici. Quanto al movimento cui si
riferisce, utilizzeremo il termine greco "esicasmo",
oggi abbastanza conosciuto nei nostri ambienti, o "vita
contemplativa": due
espressioni quasi equivalenti.
L'esicasta è dunque alla ricerca di
calma, di pace, di quiete. Una quiete che è anzitutto esteriore:
quella dell'ambiente in cui vive. Benché gli antichi ignorassero i
disturbi sonori di tutti i tipi di cui sono teatro le città moderne,
non per questo erano meno sensibili al benché minimo rumore che
potesse turbare il raccoglimento. Viene in mente il grande Arsenio,
disturbato dal fruscio delle canne agitate dal vento, e che aveva
confessato come persino il canto di un passerotto gli togliesse la
pace durante la preghiera: una reazione che molti eremiti sicuramente
non condividerebbero. Oltre all'allontanamento dai rumori, la
solitudine assicura anche l'assenza di preoccupazioni e di notizie,
così come dell'andirivieni di visitatori, che non farebbero che
alimentare la curiosità dell'esicasta.
Infatti l'importante non è tanto il
fatto di poter usufruire di un ambiente tranquillo, ma di possedere
la quiete interiore in un quadro di vita che non le sia di ostacolo.
Traendo le conclusioni di una lunga citazione di Isacco
il Siro, Nil
Sorskij nella sua Regola
porta il contributo della
propria esperienza circa il danno che può causare all'anima del
contemplativo la conversazione, anche se viene avviata per motivi
lodevoli. Egli confessa:
Conosciamo per esperienza quanto
Isacco ci dice. Al termine di queste conversazioni, anche se ci
sembrano buone, ci ritroviamo con l'animo turbato e queste cose si
agitano involontariamente dentro di noi. Le parole superflue, anche
se brevissime, con i parenti e le persone che amiamo, ci emozionano e
impediscono la custodia dello spirito e la rappacificazione interiore
La custodia dello spirito, o del
cuore, e la rappacificazione interiore, sono due espressioni, qui in
slavone, che individuano la stessa operazione interiore, nel profondo
del cuore dell'uomo, che normalmente coinvolge tutta l'attività del
solitario: krypté meléte,
umnoe delanie, l'opus absconditum, l'opera,
o la meditazione, o l'occupazione nascosta - le denominazioni sono
molteplici - che ha luogo invisibilmente nell'intimo del cuore, e che
è appannaggio dell'esicasta. Rivolgendosi ai suoi fratelli
certosini, Guglielmo di
Saint-Thierry l'aveva descritta
in questi termini:
"Agli altri spetta credere,
sapere, amare e riverire Dio, ma a voi assaporare, comprendere,
conoscere, gustare".
E in modo ancora più esplicito:
Questo il santo commercio delle celle
ben ordinate, la venerabile cura, l'ozio solerte, il riposo (quies)
operoso, la carità
ordinata, il conversare in mutuo silenzio, e, nell'assenza
dell'altro, il godere reciprocamente ancor più di lui, ... vedere
nell'altro ciò che è da imitare, e in se stessi nient'altro che da
piangere.
Perciò non sorprende che l'edificio
nel quale si pratica la ricerca di tale quiete da essa riceva il
nome. Presso i bizantini il monastero più strettamente votato alla
sola hesychia
si chiamerà
hesychastérion,
letteralmente "casa
del riposo". Ma l'occidente latino non è da meno. Diverse
abbazie ricevono nomi come "Buon riposo" o "Nostra
Signora del riposo". Una certosa nel Delfinato adotta,
probabilmente senza saperlo, l'esatto equivalente del termine
bizantino, e ha conservato fino a oggi - attualmente vi risiede una
comunità carmelitana - il bel nome di Domus
Repausatorii, "Il
Riposorio". Così ci sarà anche un eremo francescano in Umbria
che sarà battezzato "del Buon Riposo". Siamo in un'epoca
nella quale si può constatare una vera e propria invasione esicasta,
perché va davvero chiamata con questo nome nel mondo religioso
latino.
Un culmine di questa aspirazione alla
quiete si presenta ai nostri occhi nell'occidente dei secoli XI e
XII. Bernardo
parla di amica quies, che
noi potremmo tradurre con "Donna Quiete". Essa è infatti
per i monaci di quell'epoca ciò che Donna Povertà rappresenterà
ben presto per i figli di san
Francesco. Per giustificare
questo amore di predilezione essi si affrettano a cercare la quies
nelle Scritture. Così
compilano liste di citazioni scritturistiche che, con l'aiuto della
traduzione latina della Bibbia, serviranno a fare l'elogio della
quiete e di coloro che la amano.
Una prima citazione è quella di un
versetto dell'Ecclesiastico (24,11):
In omnibus requiem quaesivi,
"In ogni cosa ho
cercato il riposo". Da essa partirà un cistercense del XII
secolo, Guerrico d'Igny,
per l'elaborazione di un piccolo trattato sulla quiete, esteriore e
interiore, e sui suoi frutti, che non dispensano comunque il monaco
dal restare disponibile per il lavoro, qualora glielo si richieda,
giacché si può trovare la quiete etiam
in labore, anche lavorando.
Un altro versetto della Bibbia citato
molto di frequente è Isaia 66,2 secondo la traduzione della
VetursLatina, il
che farebbe pensare che gli autori non l'abbiano ricordato in seguito
alla loro lectio personale,
ma che l'abbiano copiato dopo averlo letto dall'uno o dall'altro: "Su
chi mi riposerò (requiescam)
- è Dio che parla - se non
sull'uomo umile, in quiete (quietus),
e che trema davanti alle
mie parole?". Già Origene, conosciuto in occidente nella
traduzione di Rufino, aveva applicato questo versetto al riposo dello
Sposo nel suo Commento al
Cantico dei cantici. Lo
si ritrova un po' ovunque
nei principali padri latini: Ambrogio, Agostino, Gerolamo, ma sembra
sia stato Cassiano
il primo a collegarlo espressamente all' esperienza monastica,
applicandolo alla stabilità esteriore del monaco necessaria a quella
tranquillità senza la quale il suo cuore non può divenire dimora
dello Spirito santo. Lo stesso versetto di Isaia viene spesso
associato a una parola di Cristo quando è il momento di ricordare
quella che tutti gli autori considerano come la principale virtù del
solitario, l'umiltà: "Imparate da me, che sono mite e umile di
cuore, e troverete riposo (requies)
per le vostre anime"
(Mt 11,29).
Altro testo biblico: spesso le
biografie mettono in bocca al solitario che si rallegra per la
scoperta di un luogo in disparte, adatto al suo ritiro, il versetto
14 del
Salmo 131: Haec
requies mea!,
"Questo è il mio
riposo per sempre; qui abiterò, perché l'ho desiderato" sono,
ad esempio, le parole che pronuncia una monaca nell'atto di entrare
in reclusione, secondo un rito di cui possediamo un resoconto
dettagliato in una lettera di un certo Guiberto,
priore benedettino a Gembloux, nel X secolo. Lo stesso versetto di
salmo appare sulla bocca di santa
Valdetrude, in una circostanza
simile, all'inizio dell'XI secolo.
C'è un altro testo biblico,
continuamente citato, che associa solitudine
e silenzio.
E' un passo delle Lamentazioni (3,28):
Sedebit solitarius et tacebit quia levabit se super se, "il
solitario siederà [si noti il
vocabolo tipicamente esicasta: essere seduti],
custodirà il silenzio, e s'innalzerà al di sopra di se stesso".
Già Cassiano l'aveva ricordato per descrivere la via degli eremiti
contrapponendola a quella dei cenobiti, e lo si ritroverà nei primi
autori della fondazione
eremitica di Grandmont.
Questo ideale del riposo non si
riferisce soltanto all'ambiente circostante, esso mira a far dimorare
l'anima nel riposo interiore, presso Dio. E' nel cuore del monaco che
si deve edificare una cella,
una casa, un tempio, un Santo dei santi, un altare, dal quale la
preghiera finirà per innalzarsi ininterrottamente.
A quell'epoca si sviluppa in occidente tutta una letteratura, i cui
titoli parlano da soli: De
domo interiori, De eruditione hominis interioris (La
formazione dell'uomo interiore), De
atrio interiori, che
esaltano l'interna
consolatio, il "silenzio
della quiete interiore", la "tranquillità del cuore e
l'assenza di occupazioni di uno spirito che riposa in quiete", e
il cui fine è quello d'insegnare all'anima a "riposarsi
interamente in se stessa attraverso l'amore", tota
per amorem intus requiescit. Già
da soli questi trattati avrebbero potuto fornire ampio materiale per
la costituzione di una Filocalia
latina.
Ma l'amore per la quiete si spinge
ancor più lontano. Tra l'XI e il XIII secolo imperversa tra le
diverse osservanze e famiglie monastiche una specie di "santa
rivalità", che si può qualificare esicasta, nel senso che
ciascuno rivendica per sé quello che sembra essere diventato il
marchio dell'autenticità monastica. E' monaco colui che si vota alla
quiete. E non soltanto i solitari o i reclusi. Certo, questi ultimi
sono gli specialisti, ma i cenobiti non vogliono essere lasciati
indietro. Già da tempo l'ideale della quiete ha oltrepassato le mura
degli eremi per irrompere nelle abbazie cenobitiche più celebri
dell'epoca. Ci si mette a gareggiare in esicasmo. La competizione
verte su chi può presentare i titoli migliori per meritare tale
aggettivo.
Si pensi, ad esempio, a Pietro
il Venerabile che sottopone
fraternamente a Bernardo
la sua perplessità nei confronti del lavoro dei campi che i
fondatori di Citeaux
hanno nuovamente introdotto tra le prassi monastiche. A tale scopo
Pietro invoca, forse con una punta di malizia, l'autorità spirituale
di uno dei passi più esicasti" di Giovanni
Cassiano, in cui quest'ultimo
critica apertamente i monaci agricoltori che durante la mietitura
dissipano all'aria aperta tutti i vantaggi che avrebbe dovuto
procurare loro la grandissima lontananza da ogni abitazione.
Allusione che non mancava di arguzia e la replica cistercense non si
farà attendere. Guerrico
d'Igny, in un testo che abbiamo
già citato, cerca di dimostrare che il cistercense può praticare la
quiete anche quando lavora: Etiam
cum laborat quiescit.
Alcuni anni più tardi, un altro
monaco di Cluny, Pietro di
Celle, farà onorevole ammenda:
Vera quies, scrive,
est in Ordine cisterciensi.
La vera quiete si trova dai
cistercensi. E commenta: "Dove trovare più silenzio, digiuno,
meno preoccupazioni mondane, e dunque più contemplazione e santa
quiete?" Sancta
quies! C'è già
tutto in queste due parole. Bernardo probabilmente non se la
prende tanto con Pietro il Venerabile come talora si è preteso. Egli
è pienamente disposto a congratularsi con i monaci benedettini per
una quiete che egli giudica ammirevole, e perfino con i monaci di
Saint Denis, qualche anno dopo aver loro aspramente rimproverato un
clima dissipato: "Ora invece il silenzio è ininterrotto e il
perenne riposo da ogni chiasso di faccende mondane obbliga a meditare
sulle cose del cielo", al punto che ormai gli angeli stessi si
uniscono a questi quiescentes,
a questi monaci "nel
riposo", a questi esicasti in fondo, e aleggiano su di loro.
Emerge bene da questi testi che la
rivalità a proposito delle osservanze tra monaci neri e monaci
bianchi, nel XII secolo, non costituiva che la parte meno gloriosa, e
talora la più meschina, di una disputa che si potrebbe quasi
chiamare "disputa esicasta", ma in questo caso in un senso
diverso da quello che prevarrà un po' di tempo dopo in Grecia.
Perché qui nessuno mette in dubbio il primato della quiete, e ognuno
pretende di esserne il discepolo più fervente.
Di tale quiete nella mia esposizione
posso toccare solo gli aspetti più esteriori: la solitudine, la
tranquillità, la cella, la reclusione, la clausura. Ma bisognerebbe
anche parlare del frutto che essa dà interiormente: la
quiete del cuore. Anche e
soprattutto qui, noi potremmo scoprire un parallelismo straordinario
tra i padri dell'oriente e quelli dell'occidente: l'umiltà
e la frantumazione del cuore, condizioni assolute per affrontare la
quiete senza rischi; una preghiera che sgorga dalla ruminazione
della parola di Dio, e che si
semplifica a poco a poco fino a diventare la ripetizione di un solo
versetto biblico o di una sola parola, il
Nome di Gesù; le
lacrime, segno che una soglia
interiore è stata varcata; tutto questo sfocia in una libertà
spirituale che si affranca dai
regolamenti provvisori, e in una conoscenza - una sapida
scientia, un sapere che sa
gustare, attinto nel liber
experientiae, nel libro
dell'esperienza - che conosce e sente al di là delle parole e delle
sensazioni, e infine in un'intercessione che abbraccia l'intero
universo.
Il beato
Rodolfo, legislatore dei
solitari di Camaldoli, si chiede:
Chi potrebbe raccontare adeguatamente
le opere che i fratelli di questo deserto sono soliti praticare senza
tregua? I colpi della disciplina, le lacrime abbondanti, le
innumerevoli metanie [metanea
in latino: sic],
i gemiti che vengono dal
cuore, la recitazione ininterrotta dei salmi, le frequenti preghiere,
le sante veglie e le lotte che i fratelli ingaggiano con il diavolo,
senza parlare di altre virtù che Dio solo conosce?
E tutto questo a lungo termine -
se Dio lo vuole, come scrive un altro solitario - per giungere alla
vera contemplazione, ove
essi si trovano immersi nell'abisso
della santa divinità e dell'eterna verità, e sono in grado di
fissare le verità soprannaturali della fede, l'ordine delle cose da
credere e la disposizione della gerarchia celeste, ben più
chiaramente e con più certezza di quanto non potrebbero fare per
mezzo della scienza scolastica.
Chi parla così? Pensate di aver
sentito una replica di Gregorio
Palamas alle argomentazioni di
Barlaam? No, si tratta di Dionigi
il Certosino, un autore
particolarmente fecondo del XV secolo. Con tutta probabilità Palamas
avrebbe detto la stessa cosa di lui. Che peccato che questi due
autentici esicasti non abbiano potuto incontrarsi al momento
opportuno!
Due riformatori della vita
anacoretica:
Nil Sorskij e Paolo Giustiniani
Per completare il nostro giro di
esplorazione dei tesori esicasti delle nostre due tradizioni ci
soffermeremo per un breve istante sull'opera e l'insegnamento di due
riformatori della vita anacoretica, che furono quasi contemporanei,
intorno al 1500: san Nil
Sorskij nella Russia del nord e
il beato Paolo Giustiniani
nell'Italia del rinascimento.
La figura del santo solitario della
Sora è oggi più
conosciuta grazie ai lavori del professor Gelian Prochorov
e di Fairy von
Lilienfeld.
Non è stato Nil a introdurre in
Russia la tradizione esicasta: com'è stato dimostrato dalle ricerche
di Prochorov sul contenuto delle biblioteche dei monasteri russi,
intorno al 1400 gli
autori classici dell'esicasmo - Giovanni
Climaco, Isacco
il Siro, Simeone il Nuovo Teologo e
Gregorio il Sinaita - vi erano
già ben rappresentati. E' nel monastero di Kirill di Beloozero, dove
Nil fa i suoi primi passi nella vita monastica, che deve averli
conosciuti. Alcuni anni dopo, quando questa corrente sembra
indebolirsi, Nil e i suoi discepoli tentano di modificare il corso
degli eventi, dapprima con un pellegrinaggio a Costantinopoli e al
Monte Athos, forse anche in Palestina.
Nonostante le controversie
politico-ecclesiastiche nelle quali Nil viene coinvolto suo malgrado,
e dalle quali prende sempre più le distanze, la sua principale e
unica preoccupazione, in fondo, come ha mostrato bene Fairy von
Lilienfeld, è la restaurazione della spiritualità esicasta, e non
tanto della dottrina in sé, quanto delle prassi che la determinano:
"Una forma di vita, un modo di essere al cospetto del Dio
vivente". Dalla sua fondazione Nil vuole accuratamente eliminare
tutte le occupazioni che nei grandi monasteri finiscono per
ostacolare l'unica attività importante, l'opera
interiore del cuore, e
ristabilire tutti gli elementi dei quali sa per esperienza che le
sono propizi. Come Giovanni Climaco, Nil Sorskij opta per la formula
lauriota - che chiama la "via regale" - cioè un piccolo
gruppo di eremiti che vivono in celle separate attorno a un anziano.
Queste celle devono essere costruite a una certa distanza l'una
dall'altra, affinché gli abitanti non possano sentire i loro vicini.
Solo l'eremo più vicino deve essere visibile, gli altri restare
nascosti "a causa della foresta molto alta e degli arbusti tra
una cella e l'altra".
D'altronde è severamente vietato
abbattere alberi nei dintorni dello skit,
per rispettare la
separazione dal mondo esterno e dagli altri fratelli. Gli eremiti
lavorano con le loro mani per assicurarsi il sostentamento, evitando
il lavoro dei campi, giudicato fonte di eccessiva dissipazione per il
raccoglimento interiore. Si deve evitare di incrementare le attività
di tipo economico, anche qualora siano svolte per poter distribuire
elemosine: un punto che doveva essere molto delicato e non
immediatamente evidente per tutti, perché Nil si sente in dovere di
moltiplicare le testimonianze patristiche in questo senso. Si deve
allontanare dallo skit tutto
quello che provoca rumore e schiamazzo; non ci saranno quindi "né
bestiame, ne asini, nè servitù, ne persone a carico, né parenti".
Allo stesso modo gli edifici, compreso l'oratorio, devono essere
spogli. Viene tolto tutto ciò che è superfluo. Si stabilisce di
acquistare ciò che si deve comprare all'esterno senza ricercatezze e
al prezzo più conveniente. Per contro si attribuisce grande
importanza al lavoro dello spirito. Non si devono accogliere
candidati che non sappiano leggere e scrivere. La copiatura dei
manoscritti e anche la loro correzione per comparazione occupano i
fratelli che ne sono capaci, e vengono praticate anche da Nil in
persona. Il contenuto della biblioteca dello skit si arricchisce
d'altronde rapidamente: i maestri dell'esicasmo, Giovanni
Climaco, Efrem
e Isacco
il Siro vi figurano
evidentemente in buona posizione, mentre non c'è nulla di Gregorio
Palamas, assente anche dall'opera di Nil.
Il ritmo della preghiera di ogni
fratello deve essere improntato a una grande libertà spirituale. Le
pannychìdes
o vsenòscnye,
veglie che durano tutta la notte, celebrate in comune, non devono
superare due notti alla settimana, e in esse il canto viene ridotto
alla sua espressione più sobria, dal momento che la pesantezza di un
certo apparato liturgico, inevitabile in una grande assemblea, non si
adatta all'opera della preghiera che si compie nel segreto.
Nel resto della settimana l'anacoreta
prega da solo, alternando lettura dei salmi e della Scrittura,
preghiera di Gesù e momenti di raccoglimento silenzioso, a seconda
delle inclinazioni che sente e che con attenzione discerne nel
proprio cuore. Il secondo capitolo della Regola di Nil costituisce a
questo proposito un importante direttorio della preghiera esicasta,
che si evolve dall'umile ripetizione di determinate formule fino a
quella preghiera che non è più preghiera perché è al di là di
ogni preghiera, secondo l'insegnamento di Isacco il Siro,
abbondantemente citato in tutto questo passo.
Nil Sorskij rappresenta uno dei
culmini della tradizione esicasta bizantino-slava. La sua iniziativa
sarà uguagliata soltanto da Paisij Velickovskij e dai suoi
discepoli, due secoli dopo.
Rimanendo sempre alla fine del XV
secolo, lasciamo ora le foreste della Russia del nord e ci spostiamo
sulle cime degli Appennini, nel cuore della Toscana, in Italia. Paolo
Giustiniani nasce a Venezia in
una famiglia patrizia, nel 1476. Molto tempo della sua giovinezza
viene dedicato agli studi, dapprima nella stessa Venezia, e poi nella
celebre Università di Padova, dove egli si appassiona allo stoicismo
di Seneca e Cicerone, prima di diventare uno degli esponenti più
maturi dell'umanesimo italiano. A poco a poco, dopo molti studi e
letture, e anche soggiorni nell'isola di Murano la cui solitudine e
tranquillità già lo attiravano, egli scopre Cristo e vorrebbe
consacrargli la propria vita. Da quel momento la Bibbia e i padri
occupano la sua attenzione. La sua perfetta conoscenza del greco gli
permette di leggere Basilio e Gregorio di Nazianzo sui testi
originali. Nel 1507, sulla soglia della trentina, la scelta è fatta:
sarà monaco ed eremita. Per individuare un luogo dove stabilirsi
egli decide - dettaglio importante - d'intraprendere un viaggio in
oriente. Percorre Creta, Rodi, la Grecia, la Siria e la Palestina e
soggiorna per qualche tempo a Gerusalemme, prima di rientrare a
Venezia a fine anno. Ma è in Italia che concretizzerà le sue
aspirazioni. Nel 1510 si
presenta come novizio nella famiglia camaldolese, che conosciamo già
per la sua prassi della reclusione, la cui ispirazione risale a quel
gran fondatore di eremi che fu Romualdo
nell'XI secolo. Il luogo, situato a 1100
metri di altitudine, è ancora
oggi uno dei paesaggi monastici più impressionanti, predestinato
dalla natura, si direbbe, per il raccoglimento esicasta.
Gli inizi sono ricchi di consolazioni.
Giustiniani ha finalmente trovato quello che la sua Regola
chiamerà "la
soavissima pace della vita solitaria". Ne
decanta le delizie con accenti lirici. Si rivolge alla solitudine
come a una persona, le scrive delle lettere: essa è la sua sposa, la
sua Donna, ed egli supplica Dio che gli conservi i suoi abbracci:
Oh solitudine, che apporti all'uomo
vivente in questa carne una partecipazione delle ebbrezze divine! ...
Oh solitudine che non sei abbastanza conosciuta se non da quelli che
ti conoscono per esperienza! ... Tu unisci per sempre l'anima a Dio
creatore ... come tra gli abbracci di una sposa amatissima, e la fai
deliziare delle parole divine come dei baci di un tenero sposo.
Fin dal noviziato Giustiniani tuttavia
nota i punti deboli dell'istituzione così come si era allora
sviluppata. In particolare, l'incomprensione e le tensioni che erano
frequenti fra l'eremo e il monastero cenobitico, situato duecento
metri più in basso, incaricato di accogliere nei primi tempi i
candidati alla vita eremitica. Non appena emessi i voti, Giustiniani,
la cui cultura umanistica e patristica superava di gran lunga quella
dei suoi confratelli, fu posto a capo dell'eremo e si trovò immerso
in difficoltà continuamente insorgenti, che derivavano da uno
statuto inficiato da una serie di ambiguità. Cominciò allora a
migliorare le condizioni materiali necessarie alla vita di
solitudine. Fu costruito un muro di cinta che doveva delimitare la
clausura, ed egli stesso dichiarò guerra a un amministratore del
terreno che non si faceva scrupolo di disboscare e tagliare quegli
alberi che avrebbero dovuto garantire la solitudine. A questo scopo
furono presi molti provvedimenti. Da quel momento ci vorrà un
permesso esplicito del capitolo anche solo per abbattere un pino.
Ogni anno ne verranno piantati quattro o cinquemila, e si vigilerà
affinché né uomini né animali arrechino danno alla foresta. Spiega
Giustiniani:
L'aria del bosco, le sue ombre, la
varietà di fiori che ricoprono il suolo, le sorgenti e i ruscelletti
che sorgono e scorrono dappertutto, il lieto canto di tanti uccelli,
niente di tutto questo può turbare un'anima tranquilla e, se essa
fosse triste, ritroverebbe la gioia.
I rapporti con i secolari vengono
ridotti allo stretto necessario. Non si deve esercitare nessun
mestiere che richieda l'aiuto di persone esterne. Non si
distribuiscono elemosine e non si accolgono ospiti, due opere di
misericordia di cui s'incaricano a nome degli eremiti i cenobiti
insediati più a valle. Nessun secolare può penetrare all'interno
dell'eremo, e persino gli animali - i mezzi di locomozione dell'epoca
- non possono dimorarvi stabilmente. Le costruzioni devono essere
povere e semplici, spoglie di ogni superfluo. Si devono sempre
rifiutare lasciti o eredità, per evitare l'ansia che spesso
provocano simili donazioni.
Purtroppo le energie che Giustiniani
dispiega per riformare le condizioni esterne della quiete non faranno
che inasprire i rapporti con i fratelli cenobiti e il loro superiore.
Otto anni dopo aver accettato il priorato, egli ritiene di dover
rinunciare alla sua carica e lasciare Camaldoli, con grandissimo
rammarico suo e dei suoi fratelli. Si ritira quindi in un piccolo
eremo, composto di grotte scavate e sistemate sul fianco della
montagna, nelle Marche di Ancona. Là egli passa gli ultimi otto anni
della sua vita, esaudito nelle sue aspirazioni; è allora che può
esultare: Dio lo ha richiamato a negotiis
ad otium, dagli affari del
mondo all'assenza di occupazioni.
Da quel momento vengono assicurate le
condizioni esteriori dell'hesychia,
ciò che Giustiniani chiama
l'exterior conversatio, le
osservanze; ma queste ultime hanno un senso solo se favoriscono
l'interior cultus, che
è una delle traduzioni latine possibili della krypté
meléte, del lavoro
interiore o condotto nel nascondimento. D'altronde Giustiniani sa, in
sintonia su questo punto con tutta la tradizione, che questo lavoro è
di gran lunga il più importante. Nei primi documenti di Camaldoli
egli aveva potuto leggere nella Regola
del beato
Rodolfo che talora accade che
coloro che minus agunt in
corpore, plus operantur intentione, "quelli
che praticano meno ascesi corporale sono più attivi per la
contemplazione".
La povertà, soprattutto dei luoghi,
non lascia più a desiderare. Giustiniani è persino obbligato a
tendere discretamente la mano presso gli amici benestanti, pur
dicendo di essere "tanto contento di questa ricca povertà e
povera ricchezza, come se io avessi un mondo di ricchezze".
Se il nostro beato è ormai
adeguatamente munito del necessario per consacrarsi al lavoro
interiore del cuore, resta tuttavia da menzionare l'esistenza di un
altro pilastro di quella quiete interiore, sul quale egli ritorna di
frequente. Non basta che un alto bosco ceduo di pini e un muro di
clausura impediscano al solitario di vagabondare all'esterno, è
necessario anche che egli si sforzi di restare tranquillo e in pace
all'interno del suo eremo. Gli
anziani insistevano sulla posizione seduta del solitario, applicando
così il versetto già citato di Lamentazioni 3,28: Sedebit
solitariur et tacebit. È
importante che il solitario non si metta a vagabondare da una stanza
all'altra, né da un'occupazione all'altra quando si trova nel suo
eremo. Al contrario "si sforzi di rimanere anche in cella fermo
allo stesso posto, di darsi per quanto è possibile a una stessa
attività". Giustiniani si ricorda di certi eremiti che "stando
in cella tutto il giorno sono come agitati da un certo impulso del
demonio e da uno spirito di evasione, allora vanno in diversi luoghi
di lavoro e in una stessa ora incominciano e lasciano vari lavori".
A solitari di tal genere la cella ben presto appare come un carcere e
offre numerosi motivi di afflizione. "E come il mare spinge
presto alla riva un cadavere, così l'eremo respinge, come un morto,
l'eremita inquieto, presto lo vomita come un cibo inutile".
Giustiniani confessa di aver spesso imparato questo per esperienza,
perché "un cadavere
- aggiunge - cioè un uomo morto nel
cuore, in un luogo santo e in una terra santa non può durare".
Il laborioso ozio della cella consiste
anzitutto nella frequentazione assidua della Bibbia e dei padri,
alla quale l'ampia cultura umanistica che gli è propria lo ha
preparato. Giustiniani rivela di avere ormai cinque ospiti che
condividono con lui la solitudine: sono Basilio,
Cipriano,
Atanasio,
Gregorio di Nazianzo
e Gregorio di Nissa.
Altrove confida di essere occupato nella lettura di sant'Efrem
in greco. Desidera che quelli che si candidano a vivere con lui,
nessuno dei quali può essere accolto se non sa leggere, abbiano una
preparazione analoga. Vuole
anche che alcuni, se possono, imparino le lingue antiche ancora in
uso al suo tempo in certe chiese cristiane che ha conosciuto in
oriente, e tra queste menziona le chiese degli abissini (l'etiopico),
dei georgiani, dei maroniti (il siriaco) e degli armeni.
Tutti gli studi non proibiti dalla chiesa possono essere praticati
nell'eremo, fermo restando il criterio che le lettere profane devono
servire a una migliore conoscenza delle lettere sacre, e che a un
certo punto il solitario potrà farne a meno e trovare la sua gioia
solo nella Bibbia e nei padri.
L'organizzazione della biblioteca è
oggetto di una cura particolare. Si deve fare attenzione a comprare
ogni anno nuovi libri, per una somma di almeno dieci scudi d'oro.
Giustiniani stesso paga di persona. Egli si annota passi di Origene,
Rufino,
Eusebio di Cesarea,
Cassiano,
e dello Pseudo-Dionigi.
Traduce persino in italiano un opuscolo attribuito a Basilio.
L'unico scopo di tutto questo è sempre la preghiera che, in una
forma o nell'altra, dovrà occupare tutto il tempo del solitario,
dato che propria est
eremitarum institutio ut orationi incumbant.
Tuttavia non vuole prescrivere momenti
prefissati per l'orazione, abitudine che si era affermata negli
ordini latini più recenti, in quanto, secondo Giustiniani, non era
questo il modo di procedere degli antiquiores
patres. E perché? In
questo modo "volevano far capire abbastanza chiaramente - spiega
- che, come l'uomo materiale ha bisogno di respirare per vivere, così
l'uomo nel suo spirito ha continuamente l'opportunità, anzi il
bisogno della preghiera". Essa tende dunque a diventare
ininterrotta. Quando sono
liberi, gli eremiti sono in preghiera, ma secondo modalità che
ciascuno può scegliere sulla base delle proprie inclinazioni:
Anche se ha la mente occupata in altri
pensieri e ha tante distrazioni, non tralasci di recarsi al luogo di
preghiera e, in ginocchio davanti a un'icona di Cristo, ... a seconda
della propria devozione si fermi là per la durata dello stesso
tempo, pienamente convinto che tale perseveranza gli verrà
accreditata come preghiera.
La liturgia viene notevolmente
modificata in confronto alle celebrazioni dei grandi monasteri. Fin
dall'inizio della sua fondazione le eucaristie sono rare, soltanto
nelle domeniche e nelle solennità.
Quanto a Giustiniani, non vuole diventare prete. Le processioni,
frequenti nei monasteri di allora, vengono soppresse. Quando di
domenica e nei giorni di festa gli eremiti che non sono reclusi si
radunano per celebrare l'ufficio
canteranno i salmi scandendoli e
lentamente, con gran cura, senza mai affrettarsi, ma trattenendosi un
poco e meditandoli rispettando i punti e gli intervalli, come dice il
Profeta:"Cantate i salmi con sapienza", o anche:
"Salmeggerò con il mio spirito e il mio intendimento".
Sarà severamente proibito cantare in falsetto o facendo vocalizzi, .
.. ma si eseguirà recto
tono la melodia della voce
intermedia ... Più che cantare gli eremiti devono piangere.
Lo scopo è evidente: la preghiera
comune non deve sconfinare nel tempo destinato alla preghiera
personale. Giustiniani si rifiuta esplicitamente di tratteggiare un
metodo di preghiera a uso dei discepoli. Ogni
metodo sarebbe destinato a restare esteriore ai gemiti che lo Spirito
già proferisce nel cuore dell'orante.
Inoltre con un metodo la preghiera rischierebbe di snaturarsi, di
diventare una semplice lettura, una meditazione o anche uno studio. E
l'impulso divino stesso "che mentre all'inizio sembrava aver
qualcosa di violento, ora diventa in certo modo connaturale, e il
piacere spesso provato ... attira sempre più fortemente, diminuendo
alquanto la pena che si prova ad arrivarvi". Abbiamo visto
sopra come il fervore di certi fratelli per questa preghiera
solitaria li autorizzasse a chiedere con insistenza la grazia di una
reclusione temporanea o perpetua.
Ma una vita di questo tipo, a prima
vista orientata esclusivamente all'unione con Dio, non può meritare
l'accusa di disinteresse nei confronti dei fratelli che sono nel
mondo? Nelle diverse tappe della sua vita, quando gli eventi lo
portarono a scegliere nuovamente la sua strada o a precisarne
l'orientamento, questo umanista illuminato si pose spesso tale
problema. E si rendeva perfettamente conto che lo stesso
interrogativo era presente nel cuore di quelli che vivevano con lui,
e a volte saliva fino alle loro labbra. A esso egli rispose in
diversi modi. Anzitutto personalmente, dedicandosi in maniera
particolare all'intercessione, non solo per amici e parenti, ma per
tutte le grandi intenzioni della chiesa. Egli le enumera in uno dei
soliloqui che ci ha lasciato: tutte le miserie materiali e spirituali
del mondo intero, tutte le grandi cause della chiesa, e in
particolare la conversione dei turchi musulmani e l'unione
delle chiese. Queste ultime
intenzioni erano probabilmente legate al ricordo del suo viaggio in
oriente, e forse al concilio di Firenze, del quale Giustiniani deve
aver sentito parlare. Ma c'è anche un altro argomento che gli sta a
cuore. Se Cristo ha chiesto ai suoi discepoli di annunciare il regno,
allora condurre vita eremitica è un modo di farlo, e forse, egli
pensa, uno dei più efficaci:
Lasciare la patria, abbandonare le
ricchezze, gli onori e le dignità, abitare poveri e disprezzati
nelle solitudini, praticare le austerità dell'eremo, ... che cosa è
altro questo se non gridare ai mondani con tutte le nostre azioni:
quanto siete pazzi, quanto siete ciechi voi! ... Dico che nell'epoca
nostra non vi è modo più vero e più efficace, per annunciare il
regno di Dio, di quello di farsi religioso ... Malgrado il silenzio
della tua lingua, tutta la tua vita e tutte le tue azioni, tutta la
tua persona annunzia il regno di Dio.
Un' eredità comune?
Spero che questo confronto per sommi
capi delle nostre due tradizioni sia stato sufficiente a metterne in
rilievo lo straordinario parallelismo: sia
l'oriente sia l'occidente conoscono un proprio "esicasmo",
dotato di tratti specifici, ma che mettono a maggior ragione in luce
la comune ispirazione.
Ci sono diverse spiegazioni di questo
fatto. La prima è da ricercarsi a livello delle fonti
comuni. Abbiamo potuto spesso
rilevare fino a che punto i monaci occidentali e orientali
intendessero dipendere dagli antiqui
Patres, dai padri antichi.
In particolare, per quanto riguarda l'occidente non andrebbe mai
sottovalutata la lettura quotidiana e pubblica, voluta da Benedetto,
di alcune pagine di Giovanni
Cassiano o degli apoftegmi.
Tutto il monachesimo latino è stato così plasmato sul modello dei
padri del deserto, i cui racconti e le cui gesta hanno finito per
costituire gli archetipi dell'inconscio monastico collettivo. Ora,
questo inconscio era chiaramente di tipo esicasta.
Man mano che i testi greci saranno
tradotti in latino, verranno adottati senza problemi, e anzi con vivo
desiderio, dai monaci d'occidente. Da questo punto di vista, la
diffusione degli scritti di un Giovanni Cassiano o delle Vitae
Patrum lo conferma.
E' stato studiato di recente un altro
caso, forse ancor più sorprendente: si tratta dell'opera di Isacco
il Siro, questo "Principe
dell'esicasmo", se mai ce ne fu uno! Un fratello del monastero
di Bose, Sabino Chialà, si è dedicato alla ricerca di tutte le
citazioni di un'antica traduzione latina delle opere di Isacco,
soprattutto nella letteratura dei movimenti di riforma della vita
religiosa, nella penisola italiana dal XIII al XV secolo. Il
risultato è particolarmente interessante. Gli
spirituali francescani si rifanno a Isacco il Siro per dare
fondamento alla povertà di san Francesco.
Ha un ruolo importante in autori come Bonaventura
e Angelo Clareno.
Quest'ultimo pare l'abbia letto
in greco. Le opere
di Isacco si trovano nell'abbazia di Santa Giustina di Padova, centro
importante di riforma benedettina. Stranamente, ingannati da un testo
di Gregorio Magno che conosce un certo monaco di nome Isacco, del
quale dice che è di origine siriaca - e che fondò una
comunità eremitica presso Spoleto, o Monteluco, verso la fine del V
secolo - quelli che citano Isacco il Siro attribuiscono la sua
opera a quest'ultimo, chiamato Isacco di Spoleto, evidentemente in
modo erroneo. Ma l'importante qui è che i lettori di Isacco il Siro
appaiono così poco disorientati dai contenuti della sua opera che un
Ambrogio Traversari,
generale dei camaldolesi e celebre teologo e patrologo, mettendo le
mani per puro caso su una versione greca dei suoi scritti nella
Biblioteca Vaticana, in una lettera esprime meraviglia di apprendere
così che il famoso Isacco, che lui credeva di Spoleto, sapesse
scrivere anche in greco! Si può trovare divertente il candore
scientifico del grande Traversari. Esso prova comunque che a
quell'epoca l'occidente latino aveva perfettamente assimilato la
dottrina di Isacco il Siro, consentendo, se così si può dire, di
naturalizzarlo "latino".
Della notorietà, che conobbe a quel
tempo l'opera di Isacco, sussiste una testimonianza pittorica
toccante. Nell'abbazia di Monte Oliveto Maggiore, altro celebre
centro di riforma monastica, e precisamente nel luogo dove
anticamente si trovava il capitolo e ogni sera si leggeva una pagina
di Cassiano
o delle Vite dei
padri del deserto, oggi si può
ancora contemplare un affresco che risale al 1440,
che rappresenta un'imponente
galleria di quegli antichi padri, tra i quali compare il nostro
Isacco in mezzo ad altri celebri monaci dell'oriente: Pacomio,
Paolo di Tebe,
Onufrio,
Giovanni Climaco.
Ritornando un istante al nostro beato
Paolo Giustiniani, va notato che la biblioteca di Camaldoli possedeva
anch'essa due esemplari delle opere di questo abba Isacco. Per chi
conosce la fame insaziabile con la quale il nostro beato divorava
tutto ciò che gli capitava sotto mano di letteratura ascetica
antica, non c'è alcun dubbio che si sia precipitato su quegli
scritti, tanto più che portavano un titolo per lui allettante: De'
contemptu mundi, "Il
disprezzo del mondo".
Conclusione
Ascoltando la presentazione in
parallelo della forma dello skit
di Nil Sorskij e dell'eremo
di Camaldoli, non si può non esser rimasti colpiti da alcune
somiglianze non soltanto nei principi di fondo della loro impresa, ma
anche in certi aspetti concreti della sua realizzazione: insistenza
sull'assenza di secolari; amore per la sobrietà liturgica che arriva
fino a una certa diffidenza per i canti troppo complicati;
disposizione delle celle, lontane le une dalle altre per non essere
uditi dal vicino; assenza di lavoro dei campi; cura che si dedica
alla copiatura delle fonti letterarie dell'esicasmo, e anche alla
loro correzione o traduzione, e preoccupazione di incrementare la
biblioteca; preminenza dell'ascesi interiore sulla mortificazione
corporale; e perfino amore per gli alberi e i boschi ad alto fusto,
nei quali entrambe le tradizioni vedono una protezione provvidenziale
per la loro solitudine.
Di fronte a questo straordinario
parallelismo, al di là della somiglianza delle architetture, e di
prassi, testi e spiritualità così concordanti, più in profondità
rispetto alle strutture sacramentali - la cui comunione resta sempre
dolorosamente ferita -, abbiamo forse potuto percepire uno spessore
di vita e di verità: la vita dello Spirito che soffia dove vuole, e
la verità al di là di tutte le nostre verità parziali, che è la
Verità stessa, il Cristo ieri, oggi e a venire, il Cristo in oriente
e il Cristo in occidente, il Cristo che è anche nel più profondo
del nostro cuore.
"Giovanni a Roma, Elia a Corinto,
e un terzo nell'eparchia di Gerusalemme", diceva Barsanufio
indicando le tre colonne che a quel tempo sostenevano la chiesa
universale. Permettetemi un ultimo parallelismo, che prendo da
Bernardo di Chiaravalle.
Questi si chiede - in un testo poco conosciuto, perché scoperto solo
di recente - quale sia il posto dei monaci nel corpo di Cristo, la
chiesa, e assegna loro il ventre, spiegandone così il motivo:
Il ventre è considerato vile ... I
monaci e gli eremiti, che il mondo disprezza, sono il ventre della
chiesa. Essi ricevono Il cibo spirituale della dottrina. Sono
sostegno della chiesa, e loro simbolo è Mosè che prega sul monte,
Samuele che dorme nel tempio, Elia che dimora nel deserto. Essi
somministrano i succhi spirituali ai superiori e agli inferiori. Ad
essi conviene quanto è stato detto: "L'umanità vive grazie a
pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe o per un fulmine
o per lo spalancarsi della terra".
Dagli Atti del IX Convegno ecumenico
internazionale di spiritualità ortodossa - sezione russa - Bose,
20-22 settembre 2001
ed. QIQAJON Comunità di Bose
(traduzione dal francese di Laura Marino), a cui si rimanda vivamente
per gli approfondimenti sul monachesimo russo e sull'esicasmo.
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