lunedì 30 settembre 2013

SEI MILIONI DI MUSSULMANI SI CONVERTONO AL CRISTIANESIMO OGNI ANNO



6 milioni di musulmani abbracciano la fede cristiana ogni anno. E’ quanto riporta, in un articolo del 26 settembre 2013 di Paul Ohlott, il sito “www.dieutv.com” . In realtà la notizia è datata e risale al 2007 ma è comunque sempre attuale in quanto questo trend sembra essersi mantenuto negli anni. L’articolo riprende un’intervista rilasciata ad Al-Jazeera nel 2007, divenuta popolarissima sul web, di Sheikh Ahmad Al Katani, Presidente del  ”The Companions Lighthouse for the science of islamic law “, nella quale quest’ultimo afferma come ogni ora in Africa 667 musulmani lasciano la fede islamica per aderire a quella cristiana.
In altre parole, ogni giorno, 16.000 musulmani si convertono al Cristianesimo e sono più di 6 milioni a abbandonare l’islam per la fede cristiana ogni anno. L’intervista di Sheikh è stato rimossa dall’emittente araba, ma il video è ancora disponibile su YouTube (visualizzabile anche qui sotto), dove è stato visto da quasi un milione di utenti.

Il giornalista del “New York Times” Joel C. Rosenberg, a tale proposito, sottolinea come «ci sono stati più conversioni di musulmani alla fede in Gesù Cristo negli ultimi dieci anni che in qualsiasi momento nella storia dell’umanità. Una rivoluzione spirituale è in corso in tutto il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale».
26 settembre 2013 MondoNotizie 






LA PREGHIERA DI GESŬ NELLA TRADIZIONE (quarta parte)

SIGNIFICATO TEOLOGICO DELLA FORMULA CLASSICA
Per penetrare in profondità il mistero di questa preghiera, che ha edificato la vita spirituale di molti fratelli ortodossi attraverso i secoli, esamineremo il contenuto
teologico delle dieci parole.

SIGNORE
L’invocazione liturgica della professione di fede: kyrios Jesoùs = Gesù (è) Signore, proviene dalla chiesa paolina ed è una delle confessioni più antiche, se non la più antica della fede cristiana. Con questa invocazione la chiesa  neotestamentaria si sottomette al suo Signore, professando così anche il suo dominio sul mondo10.
Dio ha fatto risorgere dai morti Gesù, lo ha glorificato a Kyrios universale e gli “ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2, 9 ss; cfr. Is 45, 23 s), cioè il nome proprio di “Signore” e la posizione che corrisponde a questo Nome.
Il Kyrios Cristo glorificato è Signore dei vivi e dei morti11; tutte le potenze e gli esseri del cosmo devono inginocchiarsi davanti a Lui, onorando così Dio Padre12. Cristo è dunque Signore di tutti i re della terra, Signore dei signori e Re dei re13. In questo modo Gesù Cristo assume gli stessi titoli di Dio14.
In 1 Cor 12, 3 Paolo insegna a distinguere quale sia il cristiano che parla nello Spirito: può proclamare “Gesù è Signore” solo chi è pieno di Spirito Santo. Chi appartiene alla nuova alleanza confessa Gesù come Kyrios, fa parte della sfera dello Spirito, non appartiene più all’antica alleanza e all’antica legge, ma gode della vera libertà: “Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3, 17).
Il fedele che invoca il Signore nella preghiera si dispone affinché egli possa regnare sui pensieri, sulle azioni, sui sentimenti e addirittura sulle zone subcoscienti e incoscienti, affinché tutto il suo essere sia pervaso dalla sua regalità e stare sotto la sua Signoria.

GESŬ CRISTO
La formula “Gesù Cristo” è composta da un nome, Gesù e da un titolo che ne esprime la dignità, Cristo: abbinati essi formano un nome nuovo. Così è nata una formula, nella quale ha trovato espressione la fede in Gesù di Nazaret, loro maestro e signore, re, salvatore, liberatore da Dio promesso al suo popolo Israele. Col passare del tempo ha acquistato una importanza centrale e duratura per tutte le future generazioni cristiane e per gli sforzi di dare al contenuto di fede una formulazione adeguata.
Jesoùs è la forma greca al nominativo del veterotestamentario e giudaico nome Jeshua, nato dalla trascrizione e dall’aggiunta di una s, che permette la declinazione del vocabolo. Secondo Mt 1, 21 e Lc 1, 31 il nome di Gesù è deciso in base a indicazioni celesti impartite al padre Giuseppe (Matteo) o alla madre Maria (Luca). In questo contesto Matteo contiene anche una spiegazione del nome di Gesù, ne indica il compito futuro: “egli salverà il suo popolo dal peccato”. Questo significato si aggancia al significato del nome di Jehoshua (composto dal nome di Dio e da Shua), che continua anche nel greco (Jesoùs): “Jahvè è l’aiuto” oppure “Jahvè è il Salvatore”.
Christus è la forma latina del greco Christòs, che a sua volta nei LXX e nel NT è l’equivalente greco dell’aramaico meshikha. Questo a sua volta corrisponde all’ebraico mashiakh e indica una persona che è stata solennemente unta per missione. La forma grecizzata di meshika è Messìas, che come Jesoùs è stata resa declinabile con l’aggiunta della s.
Il nome di Gesù racchiude per i cristiani le promesse che Dio ha fatto ai Padri. Tutta la salvezza che Dio ha destinato e offerto al mondo è collegata a Gesù in quanto Egli è il Cristo. In Gesù, come in colui che è il Cristo “abita tutta la pienezza della divinità in forma visibile” (Col 2, 9), per la salvezza di tutti coloro che pongono in Lui tutta la loro fiducia e si lasciano accreditare i frutti della sua morte e risurrezione15. La parola “Cristo”, che di per sé è un titolo onorifico, è diventata parte del nome personale di Gesù in quanto esprime il tratto costitutivo della sua presenza nella storia e che vale come presupposto per tutta la sua opera di mediatore della salvezza, opera che si riassume nella sua obbediente sottomissione alla volontà di Dio, in stretto legame con il popolo di Dio, nella realtà storica dell’autorivelazione divina. Il fedele che invoca il nome, invoca la persona di Gesù, richiamando la sua potenza.

FIGLIO DI DIO
Questo è il titolo che può essere immediatamente associato a Gesù Cristo, il Messia, perché nella tradizione biblica il discendente davidico, re ideale,è colui che partecipa in modo particolare allo statuto dell’alleanza: “io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio” (2 Sam 7, 14: cfr. Sl 2,7; 89, 27-28; 110, 3; At 13, 33). Questo titolo esprime il contenuto essenziale del cherigma e della professione di fede primitiva16.
Dai discepoli e da quelli che sono ad essi assimilati, Gesù è riconosciuto come Figlio di Dio “gli si prostrarono davanti, esclamando:”Tu sei veramente il Figlio di Dio!”
(Mt 14, 33).
L’orante che invoca Gesù, riconoscendolo Figlio di Dio, si inserisce in quel permanere in Dio assicurato a tutti coloro che ne fanno la professione “Chi confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio” (1 Gv 4, 15).


ABBI PIETĂ DI ME PECCATORE
Con questa invocazione il fedele riconosce e confessa la propria situazione di peccato, facendosi bisognoso della grazia divina per poter superare gli ostacoli che si frappongono alla comunione con l’Amore.
La consapevolezza di essere peccatore abitua a strapparsi dalla personale sicurezza di sapersi salvare da se stessi, a sradicare l’orgoglio di essere principio di bene, a liberarsi dalla convinzione di essere in possesso di una morale orientatrice. Se i farisei furono incapaci di aderire al Vangelo del Signore, fu proprio perché si ritenevano giusti. Appunto contro di essi, “che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”, Gesù racconta le sue parabole di riprovazione
(Mt 6,1; 23, 28; Lc 16, 15; 18, 19).
Ĕ Cristo che salva per un dono gratuito del suo Spirito, è Cristo l’unico reale salvatore, in quanto le forze umane sono insufficienti a liberare dal male.
L’orante sperimentando il proprio limite, invoca pietà associandosi al grido del salmista “Corri Signore in mio aiuto, vieni presto a salvarmi” (Sl 40, 14).
L’invocazione  aiuta   ad   acquisire una  consapevolezza   mistica   del   peccato,   ad averne coscienza secondo l’insegnamento che interiormente fa percepire lo Spirito di Cristo. Quando un’anima, anche innocente, vive in partecipazione al mistero pasquale del Signore, allora essa partecipa ed esperimenta l’autentico senso del peccato. Questo si rivela unicamente all’interno della misericordia di Dio in Cristo.
Ci aiuta a capire quanto detto, l’esempio della esperienza mistica del peccato nella vita di S. Teresa di Lisieux. Pur non avendo mai compiuto un peccato mortale, attesta: “Com’è necessaria questa umiliazione! Mi sentivo, come il pubblicano, una grande peccatrice. Dio mi appariva tanto misericordioso!... Com’è straordinario aver provato tutto questo... Ma com’è davvero impossibile procurarsi da sé questi sentimenti! Ĕ lo Spirito Santo che li dà, soffia dove vuole”17.
La santa non esprime qui una pia bugia per il fatto che si dichiara una grande peccatrice, ma è profondamente cosciente che ogni persona umana, per quanto grande, è estremamente piccola, situata in una imperfezione e, in quanto tale, a cadere nel peccato.
Da qui l’invocazione costante a Colui che si è fatto peccato per noi: “Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Esaminando il contenuto teologico della formula, si evince chiaramente il carattere cristologico della Preghiera del Cuore. Essa pone l’accento sulla vita terrena del Signore incarnato “Gesù Cristo” e, contemporaneamente, sulla sua divinità di “Figlio di Dio”. Quelli che fanno uso di questa preghiera richiamano costantemente alla memoria il personaggio storico, che si trova al centro della rivelazione cristiana, ed evitano così un falso misticismo che richiederebbe di far dimenticare il valore dell’Incarnazione. Tuttavia, benché cristologia, la Preghiera di Gesù non è una forma di meditazione su episodi particolari della vita di Cristo. Anche qui, come per altre forme di preghiera, è sconsigliato l’uso di immagini mentali e di concetti intellettuali.



 9 GREGORIO SINAITA, L’esichia e i due modi della preghiera in quindici capitoli, in La Filocalia, vol. III, p.585.
10 Kosmokràtor; Fil 2, 11 “e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.
Cfr. Rm 10, 9 a; 1 Cor 12, 3.
11 Rom 14, 9 “Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi”.
12 Ef 1, 20-22 “Che egli manifestò in Cristo quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della chiesa”.
13 Ap 1, 15 “Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra”.
14 1 Tm 6, 15-16 “Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi rivelato al beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita la luce inaccessibile, che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può mai vedere. A lui onore e potenza per sempre. Amen”.
15 Rm 4,24-25 “ma anche per noi, ai quali sarà egualmente accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione”.
16 At 9, 20 “e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio”.
Cfr. At 13, 33; 1 Ts 1, 10; Gal 2, 20.
17SANTA TERESA DI GESŬ BAMBINO, Gli scritti, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1979, p.358- 359.




la Madonna Odighitria Patrona di Bari


L'icona presente a Bari, secondo la tradizione vi giunse nell'VIII secolo, durante l'eresia di Leone III l'Isaurico, quell'imperatore d'Oriente (dal 717 al 741) che comandò la distruzione delle immagini sacre.


Risale al Settecento la leggenda (redatta forse dall'abate Celafati). Narra di due monaci, che volevano trasferire l'icona da Costantinopoli a Bari, la nave che li trasportava fu per volere divino dirottata sulle coste baresi, il Vescovo dell'epoca accolse l'icona e la portò nella Chiesa Cattedrale dove è da allora venerata. La leggenda del trasporto dell'icona a Bari, è stata ritratta nel Seicento dal pittore genovese Bernardo Strozzi: Apparizione della Madonna Odighitria; si vedono i due monaci che sostengono una cassa sulla quale è la Madonna di Costantinopoli. L'opera si trova ora nella chiesa di S. Maurizio di Monti a Rapallo (GE).

L'immagine attuale risale al 1500, l'originale probabilmente era più grande e la Vergine doveva essere seduta su un trono.
Nel 1700 il quadro fu modificato sovrapponendogli una copertura metallica. La mano che sull'originale era all'altezza delle ginocchia, è stata nascosta e rifatta nel 1700 all'altezza del petto, questa modifica è venuta alla luce quando l'icona venne portata al Policlinico di Bari e sottoposta a una radiografia che rivelò il cambiamento della posizione della mano. Successivamente a questa scoperta si decise di cancellare la mano del 1700 per far apparire l'originale. Ai fedeli tuttavia è mostrata mediante un artificio tecnico l'icona tradizionale e cioè quella con la mano all'altezza del petto.

   

a sinistra prima e a destra dopo il restauro

domenica 29 settembre 2013

IN GIRO PER LE CHIESE DI ROMA TITOLATE ALLA SANTISSIMA MADRE DI DIO

Il principale luogo di culto di Trastevere, e una delle più importanti e ricche di opere d’arte tra le chiese romane, dovrà giocoforza essere descritta qui sinteticamente.

Per la tradizione la chiesa fu fondata dal pontefice San Callisto sul luogo dove nel 38 a.C sarebbe avvenuta una prodigiosa eruzione di olio dalla terra, che era probabilmente petrolio, poi interpretata come annuncio della venuta del Messia. 
Costruita in forma basilicale da Giulio I [337-352] e modificata nei secoli XIII e IX, la forma attuale risale alla ricostruzione del 1138-48 avvenuta sotto Innocenzo II. 
Nel 1702 Clemente XI commissionò la rielaborazione del portico e la modifica della facciata che venne progettata da Carlo Fontana, mentre sotto Pio IX l'architetto Virginio Vespignani eseguì un restauro stilistico [1866-77]. 
L’interno è spartito in tre navate divise da ventidue colonne antiche di granito che sostengono una trabeazione costituita da frammenti antichi che continua inoltre sulla controfacciata. Il pavimento cosmatesco, del 1200, è stato invece quasi completamente rifatto dal Vespignani. Il soffitto ligneo, a lacunari, fu disegnato dal Domenichino [1617] che nell’ottagono centrale dipinse l’Assunta. 
All’inizio della navata centrale, sulla destra, è collocato il tabernacolo marmoreo firmato da Mino del Reame. 
Accanto, nella prima cappella della navata destra, ‘S.Francesca Romana’ di Giacomo Zoboli, nella seconda ‘Natività’ di Etienne Parrocel. In cima, nella testata del transetto destro, cenotafio del cardinale Pietro Marcellino Corradini attribuibile ad Andrea del Sansovino o a Michelangelo Senese [1524]. Subito dopo, nella Cappella del Coro progettata dal Domenichino, ‘Madonna di Strada Cupa’ attribuita a Perin del Vaga e ‘Fuga in Egitto’ di Carlo Maratta. Al centro, di fronte l’abside, il ciborio, poggiante su quattro colonne di porfido, costruito dal Vespignani alla fine del 1800. 
Nell’abside gli importanti mosaici del periodo medievale [1140-43] raffiguranti sull’arco ‘Profeti Isaia e Geremia e Isaia’, ‘Simboli degli Evangelisti’, ‘I Sette Candelabri dell’Apocalisse’. 
Nella semicalotta, al centro, il mosaico con ‘Cristo incorona la Vergine’, a destra i ‘Ss.Pietro, Cornelio, Giulio, Calepodio’, a sinistra ‘Ss.Callisto, Lorenzo e papa Innocenzo II’, sopra i quali è ‘Il padiglione dell’Empireo con la mano dell’Eterno che incorona il Figlio’. Sotto è distribuita la fascia, con al centro l’agnello mistico, cui convergono dodici pecorelle, gli apostoli, dalle città sante simboleggianti la chiesa. 
All’altezza delle finestre i mosaici con Storie della Vergine di Pietro Cavallini [1291] il massimo esponente della pittura medievale romana assieme a Jacopo Torriti. 
A sinistra dell’abside è situata la Cappella Altemps, progettata da Martino Longhi il Vecchio [1584-86] che ospita sull’altare la celebre Madonna della Clemenza risalente al settimo secolo. 
Nel transetto sinistro il monumento al cardinale Pietro Stefaneschi, [m.1417] la statua del cardinale Filippo D’Alecon e una rara testimonianza romana di Palma il Giovane con ‘Il Martirio dei Ss.Filippo e Giacomo’. 
La navata sinistra inizia con la Cappella Avila, decorata nella cupola da Antonio Gherardi [1680]. 
Tra la quarta e la terza cappella la tomba di Innocenzo II eretta dal Vespignani nel 1689, nella terza cappella soffitto, lunette e pala d’altare di Ferrau Tenzone. 
Nella prima cappella, costituita dal battistero disegnato da Filippo Raguzzini nel 1741, fu rinvenuto sotto il pavimento l’ambiente di una domus romana 2
Le Origini 
Nel cuore di uno dei più caratteristici quartieri di Roma sorge la basilica di Santa Maria in 
Trastevere. Le antiche origini ci riportano alla "Taberna meritoria" costruita per soldati romani a 
riposo. 
"....Ove è hora questa chiesa vi fu la Taberna meritoria Transiberina, nella quale era dato dal Senato alli soldati Romani, che per vecchiezza no potuevano più militare, il vitto per fino della loro vita....." 
Qui, Callisto pontefice (217-222) riunì una "domus ecclesiae", in cui la comunità cristiana iniziò a celebrare il culto religioso. 
Papa Giulio I (337-352) trasformò la chiesa in una basilica dedicandola alla Vergine Maria 
La casa dei Canonici di S. Maria in Trastevere La casa dei Canonici di santa Maria in Trastevere fu fatta edificare da Gregorio IV (827-844) nell'828 per i monaci che officiavano nella chiesa omonima. 
Nella casa, come è stato dedotto da numerosi sarcofagi rinvenuti durante i lavori di scavo, esisteva anche un cimitero. L'edificio, ristrutturato nelle forme attuali nel '600, presenta tre ordini di finestre incorniciate che poggiano su cornici marcapiano. Al piano terra, decentrato verso sinistra, apre un portale sormontato da un timpano centinato con decori retto da mensole. 
Il Portico 
Il portico fu eretto da Carlo Fontana nel 1702 il quale modificò anche la zona alta della facciata che conserva i mosaici del XIII secolo raffiguranti la Madonna in trono con il bambino e due teorie di sante con una lampada in mano. Tra la facciata e la casa dei Canonici si trova il campanile romanico della prima metà del XII secolo. 
Taberna Meritoria 
Secondo alcuni studiosi una conferma del valore conferito al sito dall’antico racconto si trova in un passo della “Historia Augusta”, relativo alla biografia di Alessandro Severo (222 –235) scritta da Elio Lampridio. 
Questi alluderebbe proprio alla taverna meritoria trasteverina nel passo in cui narra di come l’imperatore, in seguito ad una disputa, avesse consegnato ai cristiani un edificio pubblico, da questi ultimi considerato sacro perché utilizzato per celebrare il culto, mentre la stessa proprietà era rivendicata da alcuni tavernieri. 
Di conseguenza, al posto della taverna sarebbe sorta una domus ecclesiae (abitazione privata con uno o più ambienti adibiti alle celebrazioni religiose) sulla quale sarebbe sorta più tardi la basilica. 
Fons Olei 
Roma beneficiò dell’intensa attività edilizia di Costantino a favore delle comunità cristiane neofite. Con la conversione dell'imperatore, il cristianesimo era, infatti, diventata religione ufficiale dello Stato. Come tramandano Dione Cassio (II-III sec. d.C.) e S. Gerolamo nella sua Cronaca, in una 
taverna meritoria, luogo di riposo per i milites emeriti (soldati in congedo), nell’anno 38 a.C. dal pavimento scaturì improvvisa una sorgente d’olio che defluì senza interruzione per un intero giorno. 
Nell'anno 38 a.C. in una taberna meritoria, sorta di foresteria per i soldati veterani, improvvisamente scaturì dal pavimento una sorgente di olio che defluì ininterrottamente per un giorno intero. 
Tale episodio fu interpretato come il presagio di un evento miracoloso così, alcuni secoli dopo, si volle iniziare la costruzione della basilica proprio nel punto in cui scaturì la polla d'olio. 
Tralasciando le possibili e fondate spiegazioni scientifiche del fenomeno, è interessante come lo straordinario evento abbia “consacrato” il luogo. 
Gli ebrei lo interpretarono come una premonizione divina dell’avvento del Messia ed i cristiani provenienti dall’ebraismo, rinsaldarono la tradizione: l’olio, segno della misericordia del Signore, annunciava la futura venuta di Gesù Cristo (Cristo in greco significa “unto”). 
La scritta “fons olei” (fonte dell’olio), a destra della base del presbiterio, indica il punto dal quale sgorgò la fonte miracolosa. Le stesse parole sono incise sullo stemma della chiesa. 
L’iscrizione è stata posta nell’ottocento sul pluteo di destra, mentre originariamente si trovava sotto l’altare maggiore. 
Apertura: 7.30-13 e 16-19 
Dove: Piazza S. Maria in Trastevere 
Come arrivare: tram 8 da Torre Argentina con fermata su Viale Trastevere dopo Piazza Mastai. Da 
qui si percorre Via di S. Francesco a Ripa che conduce a Piazza S. Callisto, situata dietro alla basilica.


L’icona della Madonna della Clemenza e della Pace in Santa Maria in Trastevere

Non si sa con sicurezza quale chiesa di Roma sia stata per prima dedicata alla Santissima Madre di Dio, comunque avvenne prima della metà del secolo V: Santa Maria in Trastevere, Santa Maria Antiqua e Santa Maria Maggiore sono tra le candidate. Quello che si sa è che già dai primi momenti, i luoghi di culto cristiano si sostituirono spesso ai templi pagani; regola valida per il culto mariano, come mostra la costruzione di S. Maria Antiqua vicino al Tempio di Vesta nel secolo V e posteriormente di S. Maria in Ara Coeli sulle rovine del Tempio di Giunone e di S. Maria in Cosmedin su quello dedicato a Cerere, dea delle messi e dei cereali.
Anche se è probabile che un buon numero delle icone mariane che si venerano a Roma siano arrivate a motivo della persecuzione iconoclasta (726-842), Roma si vanta di possedere alcune delle icone più antiche del mondo, senz'altro anteriori a questa persecuzione.



Nelle catacombe di Priscilla sulla Via Salaria, si conserva quella che è ritenuta la più antica immagine della Madonna, rappresentata in pittura. L’affresco, riferibile alla prima metà del III secolo, raffigura la Vergine con il Bambino sulle ginocchia dinanzi ad un profeta (forse Balaam, forse Isaia) che indica una stella, per alludere al vaticinio messianico. Nelle catacombe sono rappresentati altri episodi con la Madonna, come l’adorazione dei Magi e le scene di presepe, ma si ritiene che, precedentemente al concilio di Efeso, tutte queste raffigurazioni abbiamo un significato cristologico e non mariologico. 



La Vergine Salus Populi Romani in S. Maria Maggiore.
S. Maria Maggiore (sulla collina dell’Esquilino, nel cuore di Roma), forse sorge sul luogo di un più antico culto pagano, potrebbere esser stato di Cibele, la madre degli dèi. La basilica di oggi incastona una costruzione più antica: fu edificata da Sisto III (432-440), sopra una basilica costruita da papa Liberio (352-366), a sua volta sorta su di un antico edificio romano. Questa basilica è la più antica delle grandi basiliche maggiori in cui prega il pellegrino a Roma. La sua costruzione è legata al concilio di Efeso che, il 22 giugno 431, presieduto dal vescovo Cirillo di Alessandria, condannò le tesi di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (che negava che Maria fosse “genitrice di Dio” e attribuiva a Gesù due persone distinte, una umana e una divina) e confermava la divina maternità di Maria, Madre di Dio (Theotokos). Sisto III volle che l’arco trionfale - detto appunto "Arco di Efeso" - fosse decorato dai mosaicisti romani in onore del mistero della natività.
Secondo la tradizione, papa Liberio sognò la Madonna che gli ordinava di erigere una chiesa nel primo luogo in cui avesse trovato la neve: cosa che accadde inspigabilmente la notte del 5 agosto del 352 sul colle Esquilino. La basilica rinnovata venne denominata semplicemente S. Maria: forse si tratta della prima basilica di Roma e dell’Occidente, che porta questo nome. Nel VII secolo, appare un altro vocabolo S. Maria al Presepio: dipende dall'aggiunta di un oratorio sotterraneo, che rappresenta il Presepio di Betlemme, con dei frammenti di legno e di pietra che sembra siano stati portati dalla Terra Santa; la tradizione dice che vi sarebbe stata trasportata la grotta vera e propria. 
In Santa Maria Maggiore, sull'altare, è la Vergine Salus Populi Romani. Secondo la leggenda, l'icona fu iniziata da San Luca e terminata da un angelo. Non si hanno conclusioni certe sulla sua origine e l'autore. Potrebbe risalire al secolo VIII, anche se la più antica menzione storica di essa che si possa constatare con sicurezza è dal secolo XII. La Salus Populi Romani è considerata la principale patrona della città e deve il suo nome alla consuetudine di trasportarla in processione per le vie romane quando accadeva qualche disgrazia allo scopo di scongiurarla.
A Roma, in Laterano nel Sancta Sanctorum, si conserva l'immagine (acheropita) del Redentore: si diceva iniziata dall'evangelista Luca ma completata da Dio stesso; l'origine era fatta risalire al saccheggio di Tito in occasione della conquista di Gerusalemme (70 d.C.). Un'altra fonte dice della stessa immagine acheropìta che era stata dipinta dagli angeli e salvata a Costantinopoli dalla persecuzione iconoclasta. Si ricorda che nel medioevo, il giorno di Pasqua, si portava questa icona del Salvatore fino a S. Maria Maggiore: la prima visita di Gesù risorto doveva essere per la Madre; risale a questa usanza che la “stazione” della domenica di Pasqua sia rimasta in S. Maria Maggiore (seconda cattedrale di Roma). Un'altra versione dello stesso traporto si riferisce invece alla festa dell'Assunzione. Intorno al IX secolo si faceva una processione notturna: con l'immagine del Salvatore custodita Lateranense, si andava a S. Maria Maggiore per fare visita all'icona della della Madre di Dio nel giorno del suo trionfo. Questa processione si mantenne per diversi secoli, nei secoli XIV e XV vi partecipava tutta la città: il Papa e i Cardinali, il Senato, i magistrati dell'Urbe e le numerose corporazioni delle Arti.


S. Francesca Romana (gia detta Santa Maria Nova per aver rimpiazzato il ruolo di S. Maria Antiqua) si venera una icona che potrebbe risalire al V secolo (comunque non oltre il VII secolo). Soltanto nel secolo IX, dopo che un terremoto distrusse S. Maria Antiqua, il dipinto arrivò a S. Maria Nova dove si venera tuttora. E' del tipo Odighitria (Maria tiene il Bambino sul braccio destro e lo indica col sinistro) e sembra di provenienza palestinese o costantinopolitana. L'icona era venerata come una vera reliquia perché creduta di mano dell'evangelista S. Luca. E' possibile che fosse questa l'icona portata solennemente in processione ai tempi di S. Gregorio Magno (590-604) per implorare a Dio la cessazione della peste che affliggeva la città. Sotto papa Sergio I (687-701) fu rivestita di argento (Liber Pontificalis). E' chiamata Madonna del Conforto per il suo volto fiducioso.


La Madonna del Pantheon potrebbe essere del sec. VII-VIII, molto accreditata l'opinione che sia contemporanea alla dedicazione del Pantheon alla Regina dei martiri voluta da Bonifacio IV nel 609.

La mano destra della Madonna che tocca il ginocchio del bambino, gesto nel quale si sottolinea la mediazione di Maria rispetto a Cristo, è dipinta in oro: è infatti la mano che elargisce salvezza. Allo stesso modo le due mani della tavola della Madonna di S. Sisto sono dorate, com'era dorata in Grecia a Tessalonica la mano di S. Demetrio o a volte le bocche che rispondevano. In precedenza lo stesso processo si trova nell'immagine di Esculapio.


Icona di S. Sisto, da S. Maria in Tempulo al chiostro di S. Maria del Rosario a Monte Mario.
L'immagine è detta icona acheropita, mentre una guida di Roma del XII secolo afferma che è di mano di Luca. Questa icona di tratti bizantini, risalente al VI secolo, è del tipo della "madonna avvocata" ed era molto celebre all'epoca; è l'originale cui si rifanno molte repliche presenti in altre chiese di Roma.
Questa icona è passata in diversi luoghi: inizialmente in S. Maria in Tempuli, dal 1221 a S. Sisto, nel 1575 trasferita nel centro città nella chiesa dei SS. Domenico e Sisto (in cui è restata una copia), dal 1931 si trova a presso le domenicane di Monte Mario dove è visibile solo la domenica.
La chiesa di S. Maria in Tempulo (vicino alle terme di Caracalla), sconsacrata è oggi di proprietà del Comune di Roma.
Nel 905 papa Sergio III emanò una bolla in cui confermava al Monasterium Tempuli delle proprietà sulla via Laurentina, a patto che le monache recitassero cento volte al giorno il Kyrie Eleison e il Kristi Eleison. In questa bolla è citata per la prima volta l'icona acheropita di S. Maria in Tempulo.
Una leggenda (dell'XI-XII secolo), racconta che l'icona fu donata al monastero da un certo Tempulus, esule costantinopolitano e residente nei pressi dell'oratorio; essa sarebbe stata poi trafugata da papa Sergio III per collocarla in Laterano, ma miracolosamente sarebbe tornata da sola nel monastero, con conseguente pentimento del papa.
In un manoscritto del 1100 circa redatto in S.Maria Maggiore, è scritto che l'icona per ordine di Cristo, era stata portata da Costantinopoli, da tre fratelli; nella chiesa di S. Gregorio Nazianzeno si trova un'affresco del 1100 circa che riproduce quest'ultima versione (foto sotto).
Di questa Madonna si dice impallidisse nei giorni della Passione.


  

Da sinistra: Icona di S. Gregorio Nazianzeno ora nella collezione Cini, di S.Maria in via Lata, di S. Maria Aracoeli.
Altre repliche si trovano in S. Alessio sull'Aventino, S. Silvestro in Capite conserva una replica ad affresco, un'altra era a S. Ambrogio in Massima.


Le Madonne di Campo Marzio
Le suore al Campo Marzio avevano due chiese nel loro convento: una è quella di S. Gregorio Nazianzeno, la replica che era in questa chiesa si trova oggi a Venezia nella Collezione Cini (dove compare la figura di Cristo, come attestazione celeste dell'icona autentica); l'altra replica è rimasta nella chiesa poi ricostruita di S. Maria in Minerva.
Secondo un'antica tradizione, gli abitanti di Roma videro arrivare verso il 750 una comunità di monache orientali, provenienti da Costantinopoli. Erano venute per sfuggire alla persecuzione e portavano il corpo di S. Gregorio Nazianzeno e l'immagine della Madre di Dio che si diceva opera di S. Luca. Comunque sia, il papa Zaccaria (741-752) permise alle suore di stabilirsi nel Campo Marzio presso una chiesetta consacrata alla Madonna (già esistente nel luogo dove anticamente si dava culto alla dea Minerva) che prese il nome di S. Maria in Minerva o de Minerva. Non si sa dell'icona originale di cui narra la tradizione, la Madonna di Campo Marzio custodita nella chiesa sembra di epoca posteriore e dovrebbe essere una copia di quella di S. Sisto.


La chiesa di S. Maria in Via Lata risale probabilmente al VI secolo; secondo la tradizione qui si venerava un'icona mariana diventata famosa in seguito ad un miracolo. L'immagine avrebbe operato la guarigione del figlio del governatore di Ravenna, l'esarca Teofilatto. Il bambino, nato paralitico, sarebbe stato condotto davanti all'altare della Madonna di Via Lata, ottenendo la piena salute. La Madonna Avvocata che si venera attualmente nella chiesa è anch'essa molto antica, ma non è quella del miracolo, è infatti una copia del XII secolo della Madonna di S.Sisto cui si è aggiunta la corona (testimonianza della reale applicazione di tale corona e orecchini alla tavola originale, come mostrano altre copie dell'epoca).
Oscure le origini di S. Maria in Aracoeli, la prima chiesa costruita in questo luogo al posto di un precedente tempio di Giove; esisteva già nella metà del secolo X, ma la fondazione della chiesa sembra molto più antica, è dedicata a S. Maria Madre di Dio sotto il titolo di S. Maria in Campidoglio. La denominazione di Ara Coeli (altare celeste) è posteriore e si fonda su una leggenda medioevale, secondo questa, l'imperatore Augusto avrebbe avuto in questo luogo una visione della Vergine con il Bambino Gesù che gli diceva: "Ecco l'altare del cielo, ecco l'altare del Figlio di Dio".

In questa chiesa subentrarono i francescani nel 1250, e qui trovarono copia dell'icona di S. Sisto. Pare che in seguito tra francescani e domenicani s'insinuò una diatriba riguardante il possesso dell'originale dell'icona di Luca, che entrambi gli ordini rivendicavano. L'icona venerata nella chiesa, la Madonna del Aracoeli è nota per il suo sguardo dolce-amaro, si narra che piangesse (forse un legame con una sua funzione oracolare, pianto come segno di disgrazie).



in alto, l'icona di Roma in S. Maria del Popolo in basso, l'icona di Siena nella Chiesa del Carmine




S. Maria del Popolo, qui nel corso del XIII secolo fa la sua comparsa l'icona di S. Luca. La versione ufficiale attribuisce la collocazione dell'icona a papa Gregorio IX che dopo una grave peste (1231) restaurò ed ampliò l'edificio e vi pose l'icona miracolosa dipinta da Luca che prima stava nel Sancta Santorum in Laterano.

L'origine potrebbe però essere in un'altra icona (di cui questa romana sembrerebbe una copia) conservata a Siena, nella Chiesa del Carmine: un'opera bizantina di alta qualità della metà del XIII secolo. Dell'autenticità del modello di questa icona senese, erano garanti i proprietari, cioè gli eremiti dell'ordine di S. Maria del Monte Carmelo, visto che originariamente essi vivevano sulla montagna del profeta Elia in Terra Santa. 
Il papa Sisto IV Della Rovere ricostruì interamente la chiesa e, nel 1478 confermò che questa icona era immagine autentica di Luca. Questa immagine divenne di fatto più famosa del modello senese da cui derivava. Conta autorevoli copie: verso il 1470 quella di Melozzo da Forlì per incarico di Alessandro Sforza signore di Pesaro (chiostro di Montefalco), tra altre repliche si segnalano quelle del Pinturicchio.


Alla fine del XIII secolo, nell'abbazia greca di Grottaferrata (alle porte di Roma) sappiamo dell'esistenza di una grande icona di Maria (forse di origine orientale) cui furono aggiunti due portelli laterali; nel XV secolo il greco Cardinale Bessarione ne istituitì la venerazione come immagine di Luca.


S. Clemente

A Roma si conserva pure il sudario della Veronica che inizialmente pare fosse senza immagine, solo dal XIII secolo viene distinto come portatore del volto di Cristo. In tal modo questa "reliquia" soppiantò per importanza un'altra immagine su panno, conservata a S. Silvestro in Capite, arrivata in quel periodo dall'Oriente.















Florenskij: il Pascal delle steppe (Aleksandr Men’)


Florenskij era legato all’Univer­sità di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di Storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista  Bogoslovskij vestnik. La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano « il Leonardo da Vinci russo». Ma quando diciamo Leonardo da Vinci ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni. Florenskij, invece, è morto giovane. Era scomparso. Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignoraro­no per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza. Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: «Questa donna sta portando un’enorme croce». E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito. Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire. In realtà, a quell’epoca Florenskij ormai era già morto. Ai tempi di Chrušcëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna. Infatti nel 1933 gli avevano dato 10 anni, come a un pericoloso delinquente.

Sì, quando io e la mamma parlava­mo della sua sorte, lui ormai non c’e­ra già più. Il certificato di morte i familiari l’hanno ricevuto solo nel no­vembre 1989. «Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovic è deceduto 1’8 dicembre 1937... Età: 55 anni (non è vero, ne aveva 56). Causa del decesso: fucilazione.
Luogo del decesso: regione di Leningrado». Un uomo che, alcuni mesi prima, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze. Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare. Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e i popoli.
Fra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico. Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica. Era innocente e il Paese aveva bisogno di lui: come in­gegnere, come scienziato, come lavoratore disinteressato. Eppure, preferirono fucilarlo. Assieme al certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della sentenza. C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato. Ecco in che e­poca siamo vissuti.
Padre Pavel viveva come in un mondo a sé. Comprendeva più la natura che le persone. Aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia. Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia. Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente. Un certo dottor Bochgol’c, ortodosso fervente, aveva incominciato a compilare con Florenskij un vocabolario dei simboli, e qualcuno gli aveva chiesto che cosa avesse in comune con quell’uomo, e Bochgol’c  aveva risposto che nessuno dei due amava gli uomini. Certo, lui parlava per sé, di Florenskij è difficile poter dire una cosa del genere. Oggi, leggendo le lettere di padre Pavel ai propri cari, alla moglie, ai figli, possiamo constatare quale enorme tesoro di tenerezza, di attenzione, di amore autentico e meraviglioso custodisse il suo cuore. E tuttavia, non era un cure spalancato ma, al contrario, piuttosto chiuso, nel quale più di una vo­ta si erano aperte delle spaccature dolorose.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel. La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita. Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita. Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso. Un suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie. Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato, un teorico. Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando... Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, quando Florenskij stava scrivendo uno studio critico in cui avanzava una serie di tesi che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi. La critica lo aveva messo così in subbuglio, che padre Pavel aveva detto: «Non scriverò più niente di teologia». Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel. Si era laureato brillantemente in matematica all’Università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra. La matematica era per lui come il fonda­mento dell’universo. Alla fine, era ar­rivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ridotta a punti d’appoggio invisibili. Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile. Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv. Bisogna dire che entrambi erano platonici, che a entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina. Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e – se lo cita – lo fa in modo critico. Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
La matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita. Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica. Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano «il naso coi riccioli », perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati. Era basso di statura e di costituzione esile. Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico. Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’, quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: «Ma questo è Pavlik!». In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
Lo scrittore religioso Sergej Fudel’, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij. Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita. Raccontava che poteva ascoltarlo a lun­o quando parlava con suo padre a voce sommessa. Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti ar­omenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle i­cone; i significati profondi delle parole. Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
Sergej Fudel’ mi raccontava che quando, nel 1914, aveva letto La colonna e il fondamento della verità, era ritornato nella Chiesa, interiormente. Perché nello spirito viveva in una sorta di bohème simbolica, e il mondo della Chiesa gli sembrava antiquato, fossilizzato, quasi uscito da una commedia di Ostrovskij. Ma improvvisamente si era accorto che della Chiesa si poteva scrivere in modo raffinato, come faceano i simbolisti, come faceva An­drej Belyj. Posso confermarlo sul mio esempio personale. Ero studente del primo anno, quando lessi per la prima volta La colonna (era l’anno del­la morte di Stalin). Il libro mi colpì, e mi colpì proprio perché, esattamente come Solov’ëv, Florenskij si pre­entava come uno che si trova ai vertici della cultura, e non come uno che ci era arrivato per vie traverse e ne usava i frutti per i propri scopi. Come uno che era lui stesso cultura. Florenskij e Solov’ëv erano la cultura stessa fatta persona. E la cultura rende testimonianza alla Chiesa, a Cristo, al cristianesimo.

Aleksandr Men’

(da Avvenire, 9.6.09)



Una delle ultime lezioni di padre Aleksandr Men’, il prete ortodosso russo assassinato nel settembre 1990, fu dedicata al «collega» fucilato dai comunisti nel 1937.