sabato 21 settembre 2013

Madonna in trono con bambino - Grotta del Crocifisso




Durante l’invasione araba, a partire dal IX secolo, la grande quantità di grotte naturali presenti sui rilievi della Sicilia Sud Orientale, offrirono un valido riparo per i monaci, che spesso riutilizzando insediamenti cultuali di epoche precedenti realizzarono oratori, cenobi e chiese rupestri. In questo periodo la forte presenza dei monaci di rito orientale provocò una sorta di riellenizzazione di tutta l’Isola, arrivando a costituire quel sostrato culturale e religioso che solo in superficie verrà scalfito dalla cultura normanna. I cenobi, siano essi subdiali o rupestri, furono a tutti gli effetti i veri e propri centri propulsori del monachesimo in epoca prenormanna e normanna. 
La chiesa del Crocifisso, che ospita il bellissimo affresco della Madonna in trono, oggetto di questo studio, presenta il più complesso ed interessante apparato iconografico della "Sicilia rupestre". Attraverso lo studio di esso, infatti, si può dedurre che originariamente la grotta fosse dedicata alla Vergine (in tal modo si spiegherebbe l’affresco cinquecentesco posto sull’altare di fronte all’ingresso e l’intera decorazione della parete nord, con pannelli legati al culto mariano). È possibile, inoltre, che in tale grotta fosse localizzato il culto di Santa Maria della Cava, cui era intitolata la prima cattedrale di Lentini. 
L'importanza di questa struttura rupestre va anche individuata nell'eccezionale continuità di culto, testimoniata dalla presenza di almeno cinque fasi decorative, segno di una pacifica convivenza di stili bizantini e settecenteschi; solo all’apparenza distanti fra di loro, come dimostrano i dipinti a partire dal secondo strato (nel catino absidale e lungo le pareti della chiesa, con la presentazione della teoria dei santi), che fanno parte di un vero e proprio programma iconografico rinnovato ma organico, anche se sviluppato in tempi diversi.

La grotta fu risistemata ad uso liturgico intorno ai secoli XI — XII , per poi divenire nel XVI secolo il sepolcreto annesso al sovrastante convento, come risulta dalla lettura del pavimento e del vano sottostante quest’ultimo, riconoscibile come ossario. Successivamente si attuò una sorta di ribaltamento dell’asse della chiesa con il posizionamento dell’altare, dedicato alla Vergine, di fronte all’ingresso, come attesterebbe un affresco cinquecentesco ancora tardo gotico.

La splendida Icona della Madre di Dio in trono (Basilissa), databile intorno al XIII secolo, richiama un tema già più volte abbozzato nelle assai più antiche strutture cultuali subdiali del siracusano - si pensi alle catacombe di S. Giovanni a Siracusa - ma che trovò una prima definizione iconografica formale soltanto attorno al VI secolo, periodo cui si è soliti datare la celebre Icona ad encausto della Vergine Basilissa presso il monastero di Santa Caterina del monte Sinai.


Tema successivamente rivisitato nelle celebri Icone della Vergine Nikopoia, una delle quali è la protettrice della città di Venezia.
L’intero impianto dell’icona si sviluppa su un unico asse di simmetria verticale, che ne scandisce l’intera immagine. La posizione del Bambino,  centrale e sul petto di Maria, come già visto e dibattuto nell’Icona delle Vergine del Segno, sottolinea energicamente la reale incarnazione del Verbo nel seno della Vergine, mistero ancora una volta testimoniato dalle tipiche tre stelle poste sulla santa Vergine a simboleggiare la sua verginità prima, durante e dopo il parto. Il vero fil rouge dell'Icona va però ricercato nell’Akathistos, celebre inno del V secolo, ove alla Madre di Dio viene conferito il titolo di "Cattedra" e "Trono del Re".

Malgrado la povertà, la semplicità delle vesti e la voluta mancanza del trono, è innegabile il continuo richiamo ai canoni più aulici dell’arte bizantina, sia nel cromatismo dell’immagine e nel taglio delle vesti, sia nella forma del volto e dei suoi lineamenti.
La semplicità della rappresentazione nelle pitture rupestri, spesso dovuta anche alla dislocazione di queste testimonianze, lontane dai centri del potere, e la loro fascia di utilizzo da parte di strati sociali più autentici e più legati al "conservatorismo" ha favorito il prevalere del simbolo "kerigmatico" (proclamatorio) rispetto al formalismo dell'arte di corte. "La sophia creata non è che lo specchio ambiguo, offuscato della caduta, della gloria, e perciò l'arte stessa resta profondamente ambigua. Per incontrare la bellezza del volto svelato, per attingere alla ricchezza della sua grazia occorre, mediante una trascendenza, mediante un superamento del sensibile e dell'intelligibile, oltrepassare le porte del tempio: e questa è l'icona". (L'Icona sentiero tra visibile ed invisibile, Eugen Rachiteanu) 
Le scritte liturgiche appaiono in caratteri latini e sono probabilmente decifrabili come S(AN)C(T)A [MA]RIA DE O[DI]GI[TRIA]. E' interessante osservare come il Bambino abbia perso i suoi connotati di bambino-adulto (fronte alta ed espressione austera), più tipici della codificata arte di corte di Bisanzio, per aderire meglio ad un modello assai più vicino alla realtà dei frequentatori della chiesa nei secoli in cui venne realizzato l’affresco. 
Per le analogie ad altre opere coeve si può ipotizzare che il dipinto sia frutto del lavoro di maestranze locali della nascente scuola italo-cretese, si raffronti quest'opera con lo splendido mosaico mariano della "Madonna della Ciambretta" (secolo XII), che si conserva al museo regionale di Messina:  raffigurante anch'esso la Vergine in trono con il bambino in grembo. L'origine dell'opera musiva è certamente riconducibile alla scuola siciliana e messa a confronto con l’affresco di Lentini, conferma un identico modo di interpretare il tema della regalità della santa Madre di Dio, pur con una diversa padronanza stilistica.


Madonna della Ciambretta - Museo Regionale di Messina






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