lunedì 9 settembre 2013

Icona della Madonna della Lavina

Alle spalle dell'Etna, nei pressi di Cerami, antichissimo abitato d'origine sicula, un viandante procedeva lungo il "lavinaru", un torrente mezzo rinsecchito dalla forte calura estiva. I pensieri dell'uomo, in groppa all'animale, correvano ai mille impegni della giornata, mentre la mula trascinava stancamente i propri passi, come se sentisse tutto in una volta il peso delle sue innumerevoli fatiche. Un calabrone nero ronzava nell'aria, lacerando il silenzio ogni tanto rotto dal frinire dei grilli. Nella grande "gebbia" (vasca) che lì vicino raccoglieva la fresca acqua del torrente una massaia si attardava ancora a lavare i suoi ultimi panni. Il viandante distrattamente posò il suo sguardo su quella schiena incurvata dal peso del lavoro nei campi, poi tirò dritto per la sua strada. Ad un tratto la mula si arrestò di colpo. "Ehhhh!" sibilò il viandante, quasi non volesse disturbare, il lavoro della massaia. La mula non reagì affatto, come se non avesse sentito, anzi cominciò con lo zoccolo a battere sul suolo. "Eeehhhhh!" ripetè più forte l'uomo richiamando l'attenzione della donna, che drizzando la schiena, tergendosi il sudore dalla fronte alzò lo sguardo. Nulla da fare! La mula era ferma. Stancamente l'uomo scese dalla sua cavalcatura, dando un'occhiataccia all'animale, che imperterrito continuava a scavare nel suolo. "Ti vuoi muovere!" esclamò mostrando alla mula il manico di un bastone, che per certo la schiena dell'animale doveva ben conoscere.
Sotto la zampa anteriore sinistra della mula, incurante del padrone, crepitavano intanto i sassi colpiti dagli insistenti calci dell'animale. "Sarà il caldo!" commentò la donna all'indirizzo dell'uomo. "Caldo o non caldo, io ho i miei affari! La mula dovrà muoversi" ringhiò infastidito il viandante. "E che cosa dobbiamo fare?" disse l'uomo a se stesso, tirando un profondo sospiro, poi si tolse la coppola, quindi, con il dorso della mano, si terse il sudore dalla fronte. "Ti faccio passare io la fantasia!" sibilò alla mula, poi si abbassò la coppola sugli occhi e raccogliendo tutte le sue forze, con le briglia, strattonò l'animale. La mula, impassibile, sembrava l'asina di Balaam, uscita fresca fresca dal libro dei numeri(Numeri, 21,23-34). In breve attorno all'uomo si raccolse un capannello di volenterosi, tutti pronti a dar consigli, ma pochi a menar le mani e tirare l'animale. A un tratto l'animale, sotto lo sguardo stupito di tutti, si inginocchiò di fronte alla fossa che aveva da poco scavato con lo zoccolo. "Ti faccio passare io la voglia di far l'ubriaca!" gridò l'uomo colpendo con forza il dorso della mula. Questa come di pietra rimaneva immobile, anzi con i suoi occhi languidi sembrava volergli dire: "Non sono io la tua asina sulla quale hai sempre cavalcato fino ad oggi? Sono forse abituata ad agire così?". 
Fra la folla, che nel frattempo, attratta dallo spettacolo dell'asina che pregava si era riunita numerosa, c'era un ragazzino, sudicio come mai, coperto di terra al punto tale che di lui a mala pena si poteva distinguere il chiaro degli occhi. "Fermatevi!" gridò il fanciullo al viandante, "Fate provare me!" continuò mentre intrufolandosi fra le gambe degli spettatori in un baleno giunse ai piedi della mula. Il giovane alzò il suo volto pieno di fuliggine sugli astanti e sorrise compiaciuto, poi prima che il viandante potesse scacciarlo a calci, a testa bassa, con le sue unghie nere come la pece, continuò lo scavo interrotto della mula. 

"Madunnuzza bedda!" esclamò il fanciullo dopo qualche minuto, mentre con delicatezza estraeva dal suolo una lunga tavola appuntita.
Il silenzio calò pesante su tutta la folla, anche il frinire dei grilli cessò di colpo. Il ragazzo si raddrizzò sulla schiena ed accarezzò con tenerezza il fronte della tavola. Il soave volto della Madre di Dio, dipinto con dolci tinte calde, sembrava fosse felice di rivedere la luce del sole, ma ancor di più i suoi amati figli, in mezzo ai quali voleva tornare con così tanto amore. 
"Cumpari Alfio, la vostra mula è più cristiana di voi. Toglietevi la coppola e mettetevi in ginocchio." Esclamò un paesano mentre il viandante rimaneva ancora a bocca aperta a contemplare il proprio animale in adorazione di fronte alla Santissima Vergine.
Così ci racconta una pia tradizione che narra del ritrovamento in paese della meravigliosa icona della Madonna della Lavina. Ancora oggi molti anziani del paese riferiscono il fatto che sulla sacra icona ritrovata era impressa l'impronta dello zoccolo della mula. Intorno al 1650, esattamente mille anni dopo, dalla parte opposta dell'Etna una mula, con il suo zoccolo, si faceva nuovamente interprete e veicolo della volontà di Dio; la prima volta era stato a Vena, Piedimonte Etneo

Un'altra tradizione, confortata da precisi riferimenti storici nei manoscritti del Pitrè, pur confermando lo stesso luogo di ritrovamento, vuole che il quadro giacesse sotto i ruderi del convento delle suore benedettine. La Santa Madre di Dio stessa, apparsa in sogno ad una delle monache del convento, indicò il luogo dove si trovava il quadro. La monaca, subito dopo la funzione del mattutino, chiese di parlare con l'Arciprete per chiederne l'aiuto, ma quest'ultimo, piuttosto scettico, non diede alcun credito alle parole della religiosa.  Il sogno si ripeté per altre due volte. Alla terza visione, la Santa Vergine ebbe a dire alla monaca che, data la noncuranza del sacerdote, avrebbe provveduto da sè a riportare alla luce il dipinto, mandando un fortissimo temporale. Il giorno seguente il sogno si avverò. Un fortissimo temporale si scatenò sul paese, spazzando via ogni cosa e gonfiando fino a non dire il "lavinaro". D'un tratto la pioggia cessò di colpo ed una trave in legno, su cui era inchiodato il quadro, fu vista galleggiare nella lavina. La notizia fece subito il giro, anche nei paesi vicini: l'Arciprete, pentito della sua inerzia, fece suonare a distesa le campane; una gran folla si recò, con devozione, sul luogo. Si racconta, e pare confermato da un manoscritto, che il ritrovamento fosse accompagnato da un miracolo: un contadino di nome Giuseppe, cieco da tredici anni, condotto dai parenti in pellegrinaggio, appena baciata la sacra effige, riacquistò la vista. 
Il XIV secolo fu un periodo molto duro nell'entroterra siciliano, costellato di acerrime lotte tra paesi e all'interno di Cerami, tra la popolazione di origine latina e quella catalana. Un'ipotesi vuole che, proprio durante questo turbolento periodo, per evitarne il saccheggio, le suore nascondessero il quadro della Madonna, inchiodandolo ad una trave del soffitto. Quando il monastero fu abbandonato dalle suore, l'icona fu dimenticata e venne sepolta tra le macerie, appena il soffitto crollò. In ogni caso è poco probabile che una icona di questo pregio finisse abbandonata, oppure, ancora più difficile, che non sia stata nota anche alla controparte catalana. Le icone miracolose sono state da sempre, e continuano ad esserlo, una fortissima attrazione per grosse frotte di fedeli.  

Durante l'epoca iconoclastica si registrarono in Sicilia continui flussi di monaci basiliani, fuggiti dall'oriente con le loro meravigliose icone e favoriti dalla Santa Sede stessa, che più volte si era pronunziata a favore delle sacre immagini. D'altro canto la presenza bizantina a Cerami è più che dimostrata dai rinvenimenti archeologici. Durante questo periodo probabilmente vi fu un primo insediamento monastico, in prossimità del torrente, in modo da poter avere con maggiore facilità risorse idriche; se ne vede uno analogo anche a Mandanici, in provincia di Messina. Similmente a tutti gli altri casi, si può stabilire che in ogni monastero che veniva fondato i monaci portassero con sè una icona miracolosa, che sarebbe poi stata oggetto di culto nel nuovo insediamento. Durante il periodo della dominazione araba, molte di queste icone furono nascoste alla meno peggio per salvarle dal saccheggio o peggio dalla distruzione degli arabi, che (non dimentichiamolo) erano venuti in Sicilia per una guerra di religione.  Questa ipotesi da sola non basta tuttavia ad accreditare una datazione dell'opera. Sul piano stilistico si tratta di una icona di tipo "Galaktotrophousa", colei che allatta, tema originariamente diffuso in Egitto in ambito copto, in Palestina ed in Siria. A Bisanzio questa variante iconografica fu accolta con una certa perplessità perché ritenuta troppo naturalistica, anche se efficace per mostrare la verità dell’incarnazione; nel VII secolo, durante la sfida dell’iconoclastia, papa Gregorio ne promosse la venerazione, come attesta una sua missiva indirizzata all’imperatore Leone III Isaurico: «Tra le icone da venerare si trovano anche la rappresentazione della santa Madre che tiene tra le mani il nostro Signore e Dio e lo nutre con il latte». Sta di fatto che le prime icone prese di mira durante il periodo iconoclastico furono proprio queste. Parecchie icone di questo tipo, particolarmente venerate dagli ordini cavallereschi, furono portate in Europa dall'Oriente durante il periodo delle Crociate, ma questo non spiega il perchè una icona così pregevole debba essere stata nascosta. Un'altra ipotesi vuole che l'icona sia stata portata in Sicilia da Giorgio Maniace, famosissimo condottiero bizantino, che nel 1038 salpò dai Balcani ed usando come testa di ponte Reggio Calabria, sbarcò a Messina, che conquistò in pochi giorni. Successivamente la spedizione si diresse verso l'antica capitale dell'isola, Siracusa, che resistette fino al 1040, prima di cadere nelle mani dei bizantini. Nel 1040, Giorgio Maniace, tra Randazzo e Troina sconfisse le truppe musulmane di Abd Allāh. Grato alla Santissima Vergine, Maniace fece costruire due monasteri: quello di località "Rahai" e quello in località "Gargia" (oggi Lavina). Dopo circa un anno finiva la primavera cristiana in Sicilia, Maniace in manette faceva ritorno a Bisanzio e la Sicilia veniva rioccupata dagli arabi. In quel periodo probabilmente venne nascosta l'icona. Una datazione al carbonio sul legno della tavola potrebbe da sola individuare quale delle ipotesi risulti essere vera. 
Nel 1740 V. Amico testimoniava l'esistenza dell'icona con queste parole:
Il monastero di monache è adorno del titolo di Santa Maria della Lavina, sotto gli istituti di san Benedetto; erano quelle un tempo fuori il paese; stanno oggi sotto il tempio principale, e mostrano una antichissima tavola di Madonna, illustre per meravigliosi prodigi.

Lexicon topograficum siculum, Catania, 1740 


L'icona misura 60cm x 160cm ed è disposta su una proporzione di 3:8. Maria è assisa in trono con due angeli oranti ai fianchi, simbolo della moltitudine celeste. La presenza del cuscino ai piedi è tipica delle immagini orientali. Alle spalle della vergine si intravedono due veli uno sulla destra e l'altro sulla sinistra che indicano che la scena si svolge all'interno, inoltre la forma superiore appuntita della tavola, composta da un triangolo isoscele indica la montagna sacra. Con buona probabilità l'autore voleva indicare lo svolgimento della scena nell'ambito del Tempio di Dio. Il bambino si nutre teneramente del latte della Madre e fissa il suo sguardo esattamente sulle labbra della Vergine come a volerne accogliere il nutrimento dei suoi insegnamenti. Il volto della Santa Madre appare sereno, mentre la Sua mano sinistra accarezza dolcemente il mantello del bambino, mentre la destra lo sorregge attraverso un cuscino curvo, il tutto contribuisce a creare uno splendido momento di intimità fra Madre e Figlio. Il maforion che copre il capo della Vergine-Madre di Dio è di colore bleu e marrone e rappresentano la sua umanità di creatura di Dio, mentre i risvolti in oro ne simboleggiano la natura divina. Il mantello della Vergine, così come quello del Bambino e coperto di fiori a sei petali simboleggianti il "fiore della vita", chiamato anche "Sesto giorno della Genesi" poiché ottenuto dalla 'rotazione' di sei cerchi o sfere, corrispondenti ognuna ad un giorno della Creazione, rappresenta la struttura interna del Creato, ed il suo completamento. È un simbolo antichissimo, che è stato trovato in tutto il mondo ed in ogni cultura. Era conosciuto, ad esempio, dai primi cristiani copti, che lo incisero sulle pareti del tempio di Ibis, a El Kharga o nelle mura dell'Osireion di Abydo. Gli inserti in oro del vestito formano invece una "tau", prefigurazione del supplizio a cui il Figlio andrà incontro. Cancellata dalle intemperie, a malapena, sul capo si distingue una delle tre tipiche stelle che ornano i dipinti mariani, segno della Sua verginità prima, durante e dopo il parto di Gesù, la particolarità risiede nella colorazione argentea della stella, significante la chiarezza lucente e brillante del cielo, in contrasto con il tipico colore oro. In modo del tutto originale lo sfondo è costituito da un fine broccato impreziosito da decorazioni rosse e verdi; non si notano, forse perchè cancellate dalle intemperie, le tipiche scritte liturgiche. Una icona simile nelle proporzioni e nella postura è quella delle Vergine di Capo Colonna, venerata nella omonima chiesa di Crotone. 



Nel XVII secolo un pittore ignoto reinterpretò l'icona originale, che già da allora versava in cattive condizioni, e produsse un pregevole dipinto su lavagna di pietra. Quest'ultimo è quello che viene esposto alla venerazione dei fedeli presso il santuario della Madonna della Lavina, che sorge per l'appunto ove venne rinvenuta l'antica icona e dove sorgeva anche il vecchio monastero.


Reinterpretazione del XVII secolo dell'icona originale ad opera di un pittore ignoto.


Particolare dell'icona





Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.