sabato 7 settembre 2013

Libertà di credere. Una riflessione ortodossa (Vladimir Zelinskij)

Libertà di credere? Già nel titolo del nostro incontro è nascosto un confine invisibile tra la percezione orientale e l’occidentale del concetto della libertà. Per un ortodosso sarebbe più facile e conveniente riflettere sulla libertà vissuta nel cuore umano piuttosto che sulla libertà nella realtà sociale. Ogni volta che sono invitato a parlare sul soggetto che riguarda una materia del genere, proposto dai miei interlocutori nati e cresciuti nell’ambiente in cui la libertà si trova unita quasi indissolubilmente con l’ordine politico e la vita quotidiana, devo spiegare fin dall’inizio come vanno le cose sul pianeta ortodosso. Se la venuta al mondo della fede protestante, almeno in Europa, coincide con la nascita stessa della libertà di credere e le loro storie sono, in pratica, una, nei paesi storicamente ortodossi l’icona, dipinta nell’esperienza spirituale della libertà, non è mai stata in armonia con la sua pratica politica. Qualche giorno fa si sono compiuti esattamente 560 anni dalla caduta di Costantinopoli, capitale dell’impero bizantino, già molto diminuito all’epoca, e l’Ortodossia – inseparabile dall’impero – ha perso per lunghi secoli la sua autonomia nel quadro di uno Stato benevolo e protettivo. Da quel momento piano-piano è partita la storia delle Chiese ortodosse autocefale, indipendenti dalla Chiesa Madre – la Chiesa Grande che corrisponde oggi al patriarcato Ecumenico. Nessuna delle Chiese orientali, fino alla fine del XX secolo, non era mai stata libera.
In tutte queste Chiese, greca, romena, bulgara, serba, come nelle altre – tranne la Chiesa russa – la libertà di credere consisteva prima di tutto nella difesa e nella protezione della propria identità confessionale e nazionale contro il dominio ottomano e la pressione dell’islam. Invece la Chiesa Russa, più numerosa, più potente, si è trovata unita con l’impero (soprattutto dopo le riforme ecclesiastiche di Pietro il Grande, all’inizio del 1700), e l’unica libertà nell’impero era quella della sottomissione all’imperatore come altra immagine di Cristo sulla terra e della sintonia con lo Stato. E quando un’ideologia di un’altra libertà, laica, atea, aggressiva, ha rovesciato il vecchio impero, essa si è trasformata in una nemica mortale della Chiesa ch’è diventata vittima di una persecuzione totale ed implacabile. Per tanti anni in tutta l’Europa Orientale, tranne la Grecia, la Chiesa ortodossa, come anche qualsiasi altra forma di vita religiosa, era persona non grata all’interno del regime ideologico. Con il crollo di questo regime è arrivata la liberazione, poi, la libertà, poi la situazione nuova… L’Ortodossia è diventata una confessione particolarmente rispettata fino al punto in cui le prime cariche dello Stato sentono il bisogno, sinceramente o meno, di manifestare pubblicamente la propria fede ortodossa durante le grandi feste, trasmesse dalla televisione.
Il nostro tema, formulato come “libertà di credere”, si trasforma nell’ambito ortodosso in una domanda: come le Chiese che non hanno mai vissuto nella società laica (il comunismo non era un sistema laico, per niente, esso ha solo cambiato con violenza una fede per un’altra!), come queste Chiese hanno risposto alla sfida della libertà che improvvisamente è caduta dal cielo sulle loro teste? Parlo piuttosto dell’Europa dell’Est e soprattutto della Russia che conosco meglio, ma non dobbiamo dimenticare che oggi l’Ortodossia, nel senso proprio istituzionale, esiste in tutti i continenti, Africa ed Australia inclusa, e i problemi di queste nuove Chiese sono naturalmente diversi da quelli tradizionali.
Queste Chiese vivono nelle condizioni della libertà civica, a volte anche limitata, da poco meno di 25 anni. Dal punto di vista politico e sociale il regime in cui prima sono vissute si è cambiato in modo brusco ed inaspettato passando dal comunismo duro al capitalismo selvaggio in cui il denaro diventa padrone della vita e della morte. In queste condizioni, parlo degli anni ‘90, le Chiese ortodosse dovevano affrontare tre sfide: restaurare le numerosissime chiese distrutte o profanate, organizzare il sistema della formazione dei chierici, affermarsi come confessione dominante nei confronti di centinaia di nuove forme della vita religiosa nate spontaneamente o venute dall’Oriente e dall’Occidente nei paesi considerati tradizionalmente ortodossi. Anzi, l’Ortodossia doveva confermarsi come nucleo dell’identità nazionale nelle condizioni del caos economico e politico e del disordine culturale e spirituale degli anni ‘90. All’inizio del XXI secolo questi scopi vengono più o meno raggiunti, ma spesso al costo della libertà di coscienza e di parola. Nella Russia di oggi, dal “subbuglio” democratico è rinato lo Stato autoritario, al cui interno l’Ortodossia, insieme con le altre religioni tradizionali (ufficialmente: islam, buddismo, giudaismo), gode di una situazione privilegiata nei confronti di tante altre Chiese e sette presenti sul territorio russo. In pratica, l’Ortodossia, con il pieno sostegno dello Stato, occupa una posizione particolare, perché lo stato russo attuale, come in parte gli altri Stati ex-comunisti, cerca una sua nuova anima patriottica, e la Chiesa gliela presta volentieri.
Lo Stato sostiene materialmente la costruzione delle nuove chiese, anche prestigiose e costosissime, come le cattedrali di Roma e di Parigi, introduce la legge sulla difesa dei sentimenti dei credenti, protegge la confessione della maggioranza della popolazione con le altre leggi indirizzate contro qualsiasi presenza straniera, soprattutto religiosa, sul proprio territorio. Se facciamo il paragone con l’attuale situazione italiana, lo Stato russo formalmente si presenta come più laico: non ci sono simboli religiosi nei luoghi pubblici, l’educazione ortodossa nelle scuole non è ancora introdotta al livello nazionale, il valore giuridico del matrimonio in chiesa non esiste. Ma nello stesso tempo non si può immaginare né uno Stato in conflitto con la Chiesa, né una Chiesa che esprima apertamente opinioni in opposizione allo Stato attuale. Una situazione che, credo, sia poco tipica per l’Occidente, quando il potere rappresentato da persone laiche e non credente sostiene la Chiesa come baluardo della morale e come fondamento storico della nazione. Certo, non si può dire che lo Stato e la Chiesa siano la stessa cosa, ma in qualsiasi caso la Chiesa opta per il regime autoritario, quale possa essere la sua legittimità.
Ma la Chiesa cosa pensa di se stessa? Nell’anno 2000 è stata pubblicata “La dottrina sociale della Chiesa Russa”, promossa dal metropolita Kirill, attuale Patriarca. Mi permetto di soffermarmi su alcuni punti di questo documento che rimane singolare per il mondo ortodosso. La Chiesa ortodossa non aveva mai avuto un’istituzione simile al magistero nella Chiesa Cattolica che in qualche modo definisse la fede nei confronti del mondo attuale. Questa assenza, però, non significa un ritardo nello sviluppo, ma un altro orientamento del dialogo con il mondo, in quanto le relazioni “società-Chiesa” o “uomo-storia” si ritiravano sempre davanti alla relazione “un’anima – un direttore spirituale” o nell’assenza di ciò, “un cristiano – la Tradizione” con la T maiuscola che attraverso molteplici canali (patristica, predica, confessione, ma soprattutto la celebrazione liturgica, la parola della preghiera) serviva come maestra della vita del cristiano.
L’atto stesso dell’elaborazione della dottrina sociale aveva un significato doppio: quello della fedeltà alla Tradizione e quello del rinnovamento e perfino del superamento della Tradizione stessa. Si può trovare entrambi gli elementi nel testo e la loro armonizzazione non era una cosa facile. Le due tendenze, quella della fedeltà e della tradizione e quella dell’apertura verso il mondo in cui viviamo non sono sempre bilanciati, perché devono svolgere un compito quasi impossibile: riconciliare alcuni concetti dell’antico principio della “sinfonia” (con la sua dimensione verticale della gerarchia) con l’ordine democratico moderno, fondato sui valori diversi. Nel testo del documento si possono trovare le tracce della riconciliazione fra queste due tendenze. Per la prima volta nelle condizioni della libertà civile, la Chiesa ha potuto esprimere tutto ciò che essa pensa dello Stato come istituzione divina, come realtà concreta, come lo spazio degli eventuali conflitti, ecc. In questa parte, gli autori del documento hanno dovuto fare la sintesi delle tendenze più diverse. In altre parole, l’immagine della teocrazia che attira sempre la maggior parte dei laici e dei chierici della Chiesa Russa e la desacralizzazione dello Stato come tale, una memoria nostalgica sempre favorevole alla “sinfonia” e il fondamento morale della disubbidienza allo stesso Stato che potrebbe costringere i membri ad azioni anticristiane. Tutte queste tendenze sono presenti in questo documento in un difficile equilibrio, più o meno riuscito.
Sembra che a volte il pensiero del documento oscilli fra accettazione e rigetto della stessa realtà umana; ciò che è accettato a livello mistico è rigettato a livello sociale. Proclamando che l’uomo sia intrinsecamente libero, la Dottrina mantiene una distanza esplicita nei confronti di due concetti fondamentali della libertà: quella dei diritti umani e quella della libertà di coscienza. Tutti e due (soprattutto l’ultimo, secondo il testo del documento) riflettono la situazione dell’uomo peccatore che cerca soltanto di difendere il suo libero arbitrio e la sua autonomia davanti a Dio. Perciò lo stesso aggettivo “cristiano” (nel senso “ortodosso”) s’oppone radicalmente all’aggettivo “liberale”. Sul piano sociale la Chiesa accetta le premesse politiche della democrazia; però, per ora, secondo noi, ella si trova su un camino di ricerca della sintesi filosofica di questi principi con la sua visione de l’uomo.
Per quanto riguarda il rapporto con lo Stato, la Chiesa proclama la politica della “mano tesa”, donando la garanzia della propria lealtà, propone collaborazione (nell’ambito della pace nel mondo, della morale pubblica, della carità, del sostegno alla famiglia, per la protezione dell’eredità culturale, ecc) e attesta il suo antico diritto di “testimoniare il proprio dolore” o di intercedere presso lo Stato quando si tratta degli interessi vitali del popolo e delle persone… Una cosa nuova, che ha provocato non pochi commenti sulla stampa, è la dichiarazione esplicita della Chiesa ad insistere sul proprio diritto di chiamare i fedeli alla resistenza pacifica: “quando” - cito – “il potere costringe gli ortodossi all’apostasia del Cristo e della Sua Chiesa o agli atti del peccato, dannosi alle anime…”.
Nel documento che stiamo analizzando, il concetto del diritto appare per la prima volta in tutta la sua rispettabilità, nonostante l’opinione che il tentativo di creare il concetto di diritto “fondato sul Vangelo non possa essere valido”. La Dottrina cita una frase famosa di Vladimir Soloviev (senza indicare l’autore) secondo cui lo scopo del diritto non è trasformare il mondo nel Regno di Dio, ma impedirgli di trasformarsi in inferno. In questa prospettiva per prevenire il pericolo delle rivoluzioni (che cominciano con le promesse di creare il Regno sulla terra e finiscono creando l’inferno), la Chiesa riconosce la proprietà come “dono di Dio”, e al tempo stesso riconosce anche il diritto alla proprietà nelle sue diverse forme.
Per concludere, bisogna dire che l’uomo rimane sempre al cuore della “Dottrina”. La sua prospettiva, con tutte le reticenze, è profondamente antropologica e con un fondamento patristico, proprio alla tradizione ortodossa, che promette una grande ricchezza. Ma la stessa prospettiva impone certi limiti nei suoi prolungamenti nella vita sociale. Tutto ciò che passa fra Dio e l’uomo non si traduce facilmente sul piano delle relazioni fra le persone. La “Dottrina sociale” ricerca la propria posizione nel mondo moderno e si definisce nei confronti del nuovo tipo di Stato e di democrazia, ma nello stesso tempo essa vuole mantenere questa immagine dell’“ancien régime”, passato senza ritorno, come modello della vita ecclesiale e sociale.
Il problema dell’Ortodossia è la distanza, a volte anche la rottura, della quale essa nemmeno si accorge, tra l’icona della libertà che troviamo nelle parole di Cristo (“conoscerete la libertà e la libertà vi farà liberi” – Gv. 8, 32) e di san Paolo (“dove c’è lo Spirito del Signore c’è la libertà - 2 Cor. 3, 17) e la pratica moderna della libertà civica. Abbiamo una teologia della libertà molto sviluppata all’epoca patristica come pratica della conquista della pace interiore, lotta alle passioni malvagie, liberazione dal peccato e dal potere del diavolo. Questa teologia rimane la nostra ricchezza inalienabile. Ma troppo spesso non vediamo lo stesso diavolo che agisce nelle strutture della società e nelle relazioni umane. Il dono dell’Ortodossia è di vedere il dramma nascosto nel cuore dell’uomo e quel d
ono rimane con la nostra fede fino ad oggi. Quando una decina di giorni fa ho sentito due lezioni magistrali sulle parole di Cristo, una del Patriarca Bartolomeo, l’altra del cardinale Scola, mi ha colpito per l’ennesima volta la differenza negli accenti nella percezione della libertà. Il Patriarca ha parlato della schiavitù del peccato, mentre la vera libertà si trova nel pentimento e nella pace con Dio e che l’uomo non può essere libero fuori dalla comunione con Dio. Invece il Cardinal Scola ha parlato del senso della presenza del cristianesimo nella storia, della centralità della persona umana, della libertà religiosa, dell’universalità della salvezza, della laicità dello Stato, ecc. La differenza di questi accenti non deve essere superata. Io credo che queste due visioni della libertà in Cristo abbiano bisogno l’una dell’altra. Perché la libertà in Cristo non ha solo una strada che divide il cuore e il resto del corpo, ma tante strade che abbracciano l’uomo e la sua libertà nella propria pienezza.

Vladimir Zelinskij



La libertà in Cristo non ha solo una strada che divide il cuore e il resto del corpo, ma tante strade che abbracciano l’uomo e la sua libertà nella propria pienezza.

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