GRECO-ORTODOSSI
in Federiciana
di Enrico Morini
Piissimi e ortodossi, anziché empi ed eretici – come ormai li percepiva l’Occidente latino dopo il definitivo consumarsi dello scisma tra Roma e Costantinopoli e il traumatico affermarsi della francocrazia in Oriente –, sono i greci per Federico II. Così infatti egli si esprime nella lettera del febbraio 1250 al sovrano greco dell’Epiro, Michele II Angelo Comneno. In una singolare assimilazione – stupefacente in un latino – ai presupposti teologici, anzi al sentire ecclesiologico, della Chiesa greca, egli fa proprie, in una lettera del maggio successivo al genero, l’imperatore Giovanni III Vatatze esule a Nicea, le tradizionali argomentazioni ortodosse contro il papato romano. Sarebbe tuttavia riduttivo interpretare il rapporto di Federico con la grecità ortodossa unicamente alla luce di questa – in parte istintiva e in parte studiata –attrazione verso un modello di sovranità imperiale finalmente libero, nell’ottica friv.dericiana, in una sorta di solidarietà tra scomunicati, dai condizionamenti delle prevaricazioni pontificie. Infatti i greci per Federico non erano solo una delle potenze con cui confrontarsi nello scacchiere europeo, tra papato rampante e Impero latino languente in Oriente, bensì soprattutto una componente religiosa e culturale del suo Impero, in ciò che rimaneva della civilizzazione ellenofona così fiorente, sino al secolo precedente, nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia.
La grecità italiota in età fridericiana aveva già subito il distacco traumatico dai propri referenti ideologico-politici e religiosi, con lo strappo violento, a opera dei normanni, dalla diretta autorità dell’imperatore dei Romei e dalla giurisdizione del patriarca costantinopolitano. Quest’area periferica dell’ecumene romaica, connotata da sempre da un certo provincialismo culturale, aveva tuttavia mantenuto, soprattutto nella prima metà del XII sec., durante il regno di Ruggero II, se non altro come forma di difesa, tutta la continuità culturale con la Nuova Roma e con le province orientali, una reazione nostalgica che viene talvolta presentata dalla storiografia come una rinascita dell’ellenismo italiota in età normanna. Se fioritura indubbiamente vi fu, soprattutto nello sviluppo dell’istituzione monastica, si trattò tuttavia di un fenomeno promosso dall’alto, di una strategia illuminata di contenimento per un fenomeno religioso non gradito, ma realisticamente ineliminabile, nell’indubbia prospettiva di una progressiva assimilazione. L’aggregazione delle superstiti case monastiche siculo-calabro-lucane negli archimandritati (quelle siciliane e in parte calabresi sotto il Salvatore Pantokrator messinese, quelle della Calabria meridionale sotto S. Giovanni Terista di Stilo, quelle calabresi della Sila sotto il Patirion di Rossano e quelle lucane sotto i SS. Elia e Anastasio di Carbone) – un’istituzione che collocava l’esenzione dai rispettivi ordinari diocesani, propria degli Ordini religiosi occidentali, nel contesto tradizionale delle ‘confederazioni’ monastiche orientali – fornì al monachesimo italo-greco un momento di effimero splendore in quella che si rivelò poi essere una via indolore per l’omologazione rituale e culturale.
Una struttura gerarchica organicamente costituita da metropoli, eparchie e arcivescovati autocefali, concentrata soprattutto in Calabria e Terra d’Otranto – ma spazzata via in Sicilia dalla conquista islamica –, e un vasto reticolo di fondazioni monastiche, diffuse ben al di là di questi limiti e raccolte a loro volta attorno a una complementare gerarchia carismatico-spirituale, erano religiosamente i due punti di riferimento per la popolazione ellenofona di fronte ai normanni conquistatori, che già nel 1059, nel giuramento di vassallaggio di Roberto il Guiscardo a papa Nicola II, avevano promesso al pontefice la restituzione al patriarcato romano delle diocesi peninsulari e insulari annesse nell’VIII sec. a quello costantinopolitano. Alla Chiesa greca in Italia, estraniata dalla sovranità dell’imperatore dei Romei, sottomessa alla giurisdizione papale e sovrastata dall’incombente pericolo della latinizzazione rituale, si offrivano due possibili reazioni: la resistenza o l’adattamento. La prima opzione, quella dei resistenti, aveva avuto il suo archetipo nel metropolita Basilio, consacrato per la sede primaziale reggina intorno al 1078 dal patriarca Cosma I e impedito dai normanni di prenderne possesso; Basilio aveva poi rifiutato la sottomissione a papa Urbano II nel III concilio di Melfi del 1089 come condizione imprescindibile per il proprio insediamento. Essa sarebbe stata personificata, nel secolo successivo, da s. Luca di Melicuccà, vescovo di Isola Capo Rizzuto, acceso polemista antilatino, dai normanni processato per eresia e impedito di recarsi a Costantinopoli, animatore instancabile della resistenza greco-ortodossa, non solo nella propria eparchia, ma in tutto il Regno, agendo quasi come un visitatore pastorale nel resto della Calabria e persino in Sicilia. L’alternativa che sempre si pone all’intransigenza nei momenti di persecuzione è il compromesso, come strategia più duttile per salvare la propria identità: sembra essere questa la posizione di un altro Luca, vescovo di Bova in anni verosimilmente non distanti dall’omonimo di Isola, che dalla sua eparchia così tenacemente greca (sarà l’ultima, in Italia, ad assumere il rito latino nel 1572) dovette esercitare anch’egli responsabilità pastorale nei confronti dei greci di tutta la Calabria e della vicina Sicilia, tuttavia sotto la giurisdizione del metropolita latino di Reggio e nell’obbedienza pertanto alla Chiesa romana.
Poiché la strategia del compromesso, di fronte al perdurare dei tentativi di assimilazione, si dimostrò non meno inefficace della resistenza nel salvaguardare l’identità che si voleva sopprimere, la grecità italiota ormai formalmente cattolica, spente le antiche isole di resistenza ortodosse, proprio in età sveva attraversò una fase di palese ripiegamento, di sostanziale estraneità alle nuove proposte emergenti nei centri culturali dell’ecumene ortodossa, caratterizzata da una ripetitività e da un conservatorismo evidenti, per esempio, nelle scelte contingenti che determinarono la produzione libraria. D’altra parte, in concomitanza con la politica ghibellina di Federico II, essa ebbe, almeno in parte, un soprassalto di identità ortodossa, al quale si accompagnò anche una parziale fioritura culturale. Entrambi questi fenomeni sono chiaramente riscontrabili nel monastero greco-salentino di S. Nicola di Casole, dove il dotto metropolita di Corfù, Giorgio Bardane, accolto nel 1235 dall’amico igumeno Nettario per un periodo di convalescenza, mentre guidava un’ambasceria di Manuele Angelo, imperatore di Tessalonica, a Federico e a papa Gregorio IX, ebbe una serrata disputa con il francescano fra Bartolomeo intorno al Purgatorio, tema che venne così configurandosi come un ulteriore motivo di dissenso nel contenzioso teologico tra le due Chiese. Lo stesso Nettario (al secolo Nicola, igumeno di Casole dal 1220 al 1235), due volte interprete di legati papali a Costantinopoli e nel 1225 ambasciatore di Federico II a Nicea, traduttore in latino della liturgia di s. Basilio, fu autore di tre trattati polemici antilatini, sui consueti temi della controversia interecclesiale. Lo stesso Nettario, con la sua produzione letteraria bilingue, anche lui poeta in greco, fu il promotore di un circolo di poeti greco-salentini, tra cui figurano Giovanni Grasso, il figlio di questi Nicola di Otranto e Giorgio di Gallipoli.
D’altra parte già il re normanno Ruggero II, nella sua piccola ‘lotta delle investiture’ contro le prerogative papali nel suo Regno, si era avvalso di una ripresa del senso d’identità ecclesiale e teologica della grecità autoctona, che si veniva esprimendo nell’opera del siciliano Nilo Doxapatris – del quale è stata proposta l’identificazione con il notaio patriarcale costantinopolitano Nicola, ritornato in Sicilia e colà monacatosi –, propugnatore nella sua piccola summa teologica (intitolata De oeconomia Dei) delle tesi ortodosse nel contenzioso dogmatico e liturgico con l’Occidente latino e, nel trattato sull’origine e l’ordine gerarchico dei cinque patriarcati nella Chiesa, delle vedute ecclesiologiche costantinopolitane fortemente riduttive nei confronti del primato romano.
Proprio il passaggio dal protezionismo, condizionato all’obbedienza romana, alla protezione, raccordata alla ripresa dell’antiromanesimo ortodosso, rappresenta l’aspetto di discontinuità, se si eccettua il periodo di Ruggero II, nella politica ecclesiastica sveva verso i greci rispetto a quella normanna. Per il resto infatti Federico II continuò la concessione o il rinnovo di privilegi a favore dei grandi archimandritati greci del Regno, come avvenne nel 1200, nel 1210, nel 1211 e nel 1216, e poi anche nel 1223, nei confronti dell’archimandritato messinese del Salvatore Pantokrator, nel 1232 di quello lucano dei SS. Elia e Anastasio di Carbone, e nel 1223 di quello calabrese del Patirion (S. Maria la Nuova Hodighitria) di Rossano, che si era appellato al sovrano in un conflitto di proprietà con i monaci latini della congregazione florense. Analoghe conferme di precedenti concessioni ricevettero, unitamente a una speciale protezione imperiale, i monasteri, pure calabresi, di S. Maria di Terreti nel 1209 e dei SS. Pietro e Paolo di Spanopetra nel 1224. Il medesimo atteggiamento si riscontra nelle concessioni fridericiane alla gerarchia greca secolare, come appare tra l’altro dalla conferma di privilegi garantita nel 1223 all’arcivescovo Basilio di Rossano. In conclusione, per riprendere la felice espressione di Pasquale Corsi, i greci ortodossi del Regno non erano per Federico né un problema da risolvere né una categoria da proteggere.
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Il Pathirion di Rossano
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